Come raccontare la Shoah? / Jojo Rabbit: il nazismo spiegato ai bambini

27 Gennaio 2020

Da qualche tempo le mamme dei compagni della classe di Nino (quarta elementare) sono agitate. La maestra, in vista del Giorno della Memoria, ha deciso di far leggere loro Anna Frank: saranno troppo piccoli – non fanno che cincischiare nella chat di whatsapp – per assumere su di sé nella loro età spensierata le atrocità subite dalla piccola Anna, ipostasi della grande Shoah patita dal popolo ebraico? La questione sollevata dalle mamme è, in verità, al centro di un dibattito internazionale (qui un articolo appena pubblicato dal “Washington post”), che coinvolge educatori e attivisti, comitati, docenti e famiglie: come rendere a bambini piccoli l’enormità dell’Olocausto? 

L’istituzione, ad opera delle Nazioni Unite, nel 2005, del giorno della memoria, il 27 gennaio, ha posto in tutto il mondo il problema della divulgazione del racconto dello sterminio di ebrei, omosessuali, rom e oppositori politici perpetrata dal nazismo, facendo nascere la domanda di nuove opere da aggiungere alla gamma di testi già disponibili e ponendo la cruciale questione narratologica del come articolare un tale racconto: con testimonianze? documentari? fiction? letteratura? usando un tono solenne? o ironico? rivolgendosi a che tipo di pubblico? di che età? studenti? famiglie? 

 

A queste domande, come è ovvio, non è stata data una risposta univoca. Al contrario, ogni nuova uscita sul tema ha rilanciato la discussione, progressivamente costruendo un vero e proprio reticolo di soluzioni adatte a ogni genere di contesto comunicativo. Per limitarci al solo ambito cinematografico, film esemplari come La scelta di Sophie (1982), Schindler’s List (1993), Train de vie (1996), La vita è bella (1997), Il pianista (2002), ben presto diventati dei classici sul tema, sono molto diversi proprio dal punto di vista del tono, della forma della messa in scena, del pubblico che essi, principalmente, chiamano in causa. Ma, come si diceva, si tratta di una lista aperta, altri film più recenti, come per esempio Ogni cosa è illuminata (2005), Bastardi senza gloria (2009), Vento di primavera (2010), La signora dello zoo di Varsavia (2017) non fanno che rendere l’offerta più complessa e ulteriormente diversificata, inserendo il cuore degli eventi della Shoah all’interno di sempre nuovi generi e soluzioni narrative. 

 

 

È arrivato in questi giorni nelle sale Jojo Rabbit del regista neozelandese Taika Waititi a coprire una lacuna del discorso sulla Shoah, quella di film e racconti semplificati, rivolti a un pubblico di più piccoli a cui pure il discorso della memoria vorrebbe giustamente rivolgersi. Un tale uditorio, incarnato dai bambini delle elementari, è, infatti, di norma ritenuto non all’altezza della complessità degli eventi. I bimbi sarebbero troppo giovani per comprendere le questioni storiche alla base della tragedia del nazismo e troppo sensibili per essere messi di fronte alla crudezza dei fatti e delle circostanze dello sterminio. Jojo Rabbit prova a dimostrare che non è così, che si può proficuamente rivolgersi proprio ai più piccoli per passare loro il testimone della memoria.

 

La scelta del film si fa, infatti, carico della specialità del suo pubblico d’elezione mettendo in scena uno scenario a misura di bambino: una piccola città in cui tutti si conoscono, la famiglia, la scuola, poco altro. In un tale contesto, il piccolo Jojo vive in balia della propaganda nazista. Il potere del nazismo si presenta con tutti i crismi dell’istituzionalità, detta legge, governa la città e il suo ordine pubblico, gestisce scuole e programmi scolastici. La realtà di Jojo assume, allora, senso attraverso il filtro della propaganda: il mondo alla rovescia del nazismo è, per Jojo e i suoi concittadini, il mondo normale, in cui immaginarsi e proiettarsi nel futuro. La scuola, il campo estivo, gli insegnanti e i compagni se ne fanno interpreti, costruendo intorno a lui un contesto eroico, fatto di imprese atletiche superlative e gesti estremi (imparare a sparare e a uccidere) a cui egli, però, non riesce, pur desiderandolo più di ogni altra cosa, ad adeguarsi. Questo mondo ossessiona Jojo: gli entra letteralmente in testa. È, infatti, proprio un’infantilistica versione di Adolf Hitler, simpaticamente interpretata dallo stesso Waititi, l’amico immaginario di Jojo. Hitler è il suo personal hero, sempre al suo fianco, lo segue e lo incoraggia, rappresenta la proiezione di tutto ciò che egli vorrebbe essere, incarna, per il piccolo ogni promessa di integrazione nel corpo sociale in cui si ritrova a vivere. 

 

 

D’altra parte, però, alla narrazione del mondo propagandata dalle istituzioni si contrappone l’universo familiare, rappresentato dalla mamma (il papà è morto in guerra). Laddove la faccia pubblica dello stato chiede al bimbo eroismo e spregiudicatezza, la mamma comprende l’inadeguatezza del figlio, si prende cura di lui, lo protegge, accoglie come un dono il suo fallimento, indicandogli lo spazio privato come sollievo dagli imperativi categorici della disciplina nazista. È un tale conflitto fra scuola e famiglia a costituire, per i piccoli spettatori del film, un primo indizio che qualcosa che non va: alla mamma gli insegnanti del proprio figliolo non vanno proprio a genio.  Si può comprendere come, per la mamma, militante antinazista in incognito, l’intransigenza del figlio rappresenti un motivo di grande rammarico che non le impedisce, tuttavia, di vedere in lui una proiezione di sé. Nonostante il fanatismo ideologico, Jojo conserva, infatti, l’aria di famiglia, l’eleganza dei modi, la gentilezza e la bontà d’animo della mamma. Ecco perché ella non può che rivolgere uno sguardo indulgente verso l’ingenua passione del proprio figlio (e, a dire il vero anche degli altri personaggi) per Hitler: essi sono tutti vittime della propaganda, vittime di un potere totalitario che si fonda sulla presa della coscienza individuale. 

 

Ma, nel caso di Jojo, l’esempio di famiglia, così fiero e consapevole, si offrirà a lui come uno strumento per riscattarsi dalla sottomissione al potere nazista. L’occasione arriva con la scoperta di Jojo di un’ospite indesiderata. Si tratta di un’altra ragazzina, ebrea, compagna di classe della sorellina di Jojo prematuramente defunta. La madre la nasconde. Proprio lo scandalo e le conseguenze nefaste che rivelare una scoperta di questo genere avrebbe determinato trattengono il piccolo Jojo dal far parola della sua scoperta con alcuno. Ciò fa sì che fra i due, nel tempo della loro frequentazione, si crei un rapporto clandestino ed esclusivo, infantile e pieno di tenerezza. È proprio durante il periodo trascorso insieme che lo scollamento fra mondo sociale e mondo intimo si fa massimo, proprio in virtù delle scoperte che i due fanno l’uno a proposito dell’altra. Il feticcio dell’ebreo propagandato dall’amico immaginario non riesce, infatti, a reggere di fronte all’evidenza dell’umanità della nuova coinquilina di Jojo, di fronte alla forza della sua emergenza sensibile, di fronte all’attivazione erotica che la sola presenza della fanciulla determina in lui, bambino quasi adolescente. Di fronte a tutto ciò, le imprecazioni e gli ammonimenti di Hitler, l’amico immaginario, diventano sempre meno convincenti fino a rivelare la loro natura di feticcio. Ma non tutti i bambini della città hanno potuto godere della possibilità di sperimentare un tale processo di emancipazione. La consapevolezza di Jojo si presenta come un dato esistenziale che non può diventare politico fintanto che non punti alle istituzioni abusivamente occupate dal regime. Ci vorrà, insomma, la guerra, la forza militare per liberare davvero il mondo dall’incubo del nazismo. 

 

Ecco allora trovato un film semplice e a suo modo anche divertente da mostrare ai piccoli spettatori delle elementari nel giorno della memoria, un film che parla della tragedia della Shoah, senza crude immagini dei campi di sterminio, che è, però, efficace nell’indicare il nemico. È la propaganda, è l’immaginario piccolo Hitler che vive nella testa dei fanatici. Rivolgersi alle persone reali, al prossimo in carne ed ossa con apertura e disponibilità è il primo passo per uscire dalla trappola e riscattare quantomeno la propria coscienza. Ne vale sempre la pena – è l’insegnamento di Jojo Rabbit – anche quando non si può vincere la guerra. 

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