La memoria in doppiozero

27 Gennaio 2015

David Bidussa. Elena Loewenthal. Contro il giorno della memoria

 

Che cosa rimane dunque alla fine? Il fatto che il 27 gennaio sia un equivoco e che come tale sia più un impedimento che non una “conquista”. Forse non ha torto Elena Loewenthal. Il problema è che le urgenze del tempo presente obbligano a trovare risposte diverse in un contesto in cui sono in rapido aumento la rivendicazione delle appartenenze e le intolleranze.

 

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Marco Belpoliti. Contro il Giorno della Memoria?

(Recensione di Robert S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana)

 

Il discorso di Gordon è complesso. Parte da un’idea del carattere stesso degli italiani, che trasforma i difetti attribuiti allo stereotipo nazionale – pigrizia, mollezza, corruzione, opportunismo, scaltrezza, scetticismo verso l’autorità e gli ordini, ecc. – in una spiegazione di perché sono stati numerosi i gesti in difesa degli ebrei perseguitati, da parte di sacerdoti, suore, funzionari, semplici cittadini. Le leggi cattive fatte dal Fascismo, la politica razzista, non avrebbero, secondo questa narrazione, toccato il cuore e l’anima degli italiani che non le applicavano alla lettera, nonostante l’occupazione tedesca. Siamo nel pieno di quella che Levi ha chiamato “zona grigia”, ovvero quel campo che separa i carnefici dalle vittime, il nero dal bianco, in una serie di sfumature e gradazione che vanno dalla colpevolezza piena alla collaborazione, più o meno grande e consapevole, con i carnefici medesimi.

 

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Enrico Manera. Shoah: una risposta a Marcello Veneziani

 

Per anni, dopo la guerra, la Shoah e la memoria delle vittime sono state ignorate, oggetto di oblio e rimozione; solo molto tardi sono entrate nell’attenzione dell’opinione pubblica. Manera risponde a una domanda di Veneziani provocatoria nella misura in cui la parte politica Veneziani afferisce, e di cui «Il Giornale» è simbolo, in Italia è transitata dall’antisemitismo alla ricerca del consenso nella destra israeliana, tendenzialmente scaricando sul “cattivo tedesco” tutte le responsabilità che erano del fascismo e interpretando un concetto etico e drammatico come quello di “zona grigia” come un vago concetto ideologico buono per cancellare la nozione di responsabilità.

 

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Giorgio Bocca intervista Primo Levi. Essere antifascisti oggi

 

Bocca: Che cos’è oggi l’antifascismo?

Levi: È una cosa confusa. A quel tempo – uno dei pochi vantaggi del nostro tempo – era di avere le scelte facili. Oggi la scelta è difficile, perché il fascismo lo ritroviamo intorno a noi annidato in dieci forme diverse...

Bocca: Mascherato...

Levi: Mascherato, inserito in certi modi di vivere, inserito nei partiti, inserito in una forma immorale di vivere…

 

Bocca: La cultura vista come chiave che ti può salvare, ti può proteggere…

Levi: E sì, perché non ingombra, non paga dogana, te la porti dietro, in qualunque emigrazione. Sei espulso da qualunque paese e la cultura te la porti dietro, l’educazione. Questo veramente credo che sia una costante della storia dell’ebraismo, in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

 

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Primo Levi. Conversazione con Enrico Lombardi

 

«Avevo incontrato persone che non si erano piegate, che non si erano lasciate annientare spiritualmente. E ne è nato così questo romanzo, che è un romanzo in cui i luoghi sono inventati, però i fatti non sono inventati: sono fatti realmente avvenuti. Io li ho cuciti insieme, ho costruito dei personaggi in qualche modo rappresentativi. È un romanzo storico, che raduna in sé avvenimenti poco noti, che a mio parere meritavano di essere ricordati. Anche per un fatto, specifico: per la discussione fra generazioni, a mio parere antistorica, sbagliata proprio, che infuria, in Israele soprattutto, ma un po’ dappertutto, in cui i figli accusano i padri di essersi lasciati uccidere come pecore. Questo, a mio parere, è un punto di vista molto polemico, e anche crudele... Perché io sono stato sia partigiano, sia deportato; so che ci sono condizioni in cui un uomo, l’uomo può resistere, e altre in cui non può resistere.»

 

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Stefano Bartezzaghi. Una telefonata con Primo Levi

 

Quando scrive, Levi sente il lettore vicino a sé, e vuole che capisca «quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto»: «la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto». Sono i casi in cui la scrittura è un telefono che non funziona.

 

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Andrea Cortellessa. Levi e la Tempesta

 

Quel che davvero interessa a Levi, in Tempesta, è che vi s’incontra l’uomo che misura sé stesso, i propri limiti e le proprie facoltà. Vercel fa parte insomma della stessa famiglia di quello che Marco Belpoliti ha definito “il suo maestro segreto (ma non troppo)”: cioè Joseph Conrad. Non a caso nella Ricerca delle radici figura nella stessa “linea” – definita “Statura dell’uomo” – del Milione di Marco Polo, della Guerra del fuoco di Joseph-Henry Rosny, di Saint-Exupéry e appunto di Conrad. Uno dei tanti scrittori di mare, da Coleridge a Melville e Verne, che esercitano una singolare fascinazione su Levi “uomo di terra”, come si definiva, e anzi di montagna.

 

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Marco Belpoliti, Stefano Chiodi. L’ultimo degli ingiusti. Incontro con Claude Lanzmann

 

«Qualcosa mi disturbava nell’idea di ebreo collaborazionista, non riuscivo a crederci. Ci sono stati collaborazionisti in Francia, in Belgio in Olanda, ovunque dominavano i nazisti, ma erano persone che condividevano l’ideologia nazista, erano loro stessi antisemiti. I membri dei Consigli Ebraici non erano certo di questo tipo; era piuttosto gente obbligata con una pistola alla nuca. Non avevano scelta ed erano vittime di terribili contraddizioni; molti di loro si sono suicidati ed erano tutti morti al tempo, tranne Murmelstein. Questa è una delle ragioni per cui ho voluto incontrarlo: era il solo sopravvissuto tra i membri dei Consigli Ebraici, uno dei Presidenti. Penso di aver avuto ragione, perché in nessun caso si è meritato l’epiteto di collaborazionista.»

 

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Ludovica Holz. Charlotte Delbo. Una memoria. Conversazione con Elisabetta Ruffini

 

«Per Delbo la memoria non è solo il campo di concentramento. Il primo libro che pubblica, siamo nel 1961, è un libro che denuncia la tortura nella guerra francese in Algeria. Per Delbo la memoria è lasciare traccia di ciò che gli uomini hanno vissuto, ma anche vigilanza sul presente. Non ha mai voluto fare letteratura per fare letteratura, ma per porre ai lettori delle domande.»

 

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Marco Belpoliti. Sergio Luzzatto. Partigia

 

Perché coinvolgere Primo Levi? Perché raccontare questa vicenda, così simile ad altre della guerra civile anche più terribili e oscure ancora? Perché Levi è Levi, verrebbe da rispondere. E questo ci riporta all’inizio del libro, al capitolo “Partigia”. Perché Levi è un mito, perché nessun mito è esente da lati oscuri, e ora, dopo questa indagine, l’ossessione di Levi manifestata da Luzzatto trova una risposta. Levi è un padre, come padri sono i resistenti, e padre che vuole, o deve, passare il testimone è Luzzatto stesso.

 

Capire e far capire significa entrare in gioco, senza troppi indugi o difese preventive. In questo Luzzatto è bravissimo, anche se, a mio parere qui si è fermato a metà. Dove il libro sembra giocato sul doppio – doppia ossessione, doppia figura di narratore e personaggio –, in realtà risulta a metà, fermo sulla soglia da valicare con coraggio: “Spaccato ognuno sulla propria frontiera”, come recitano i versi di Levi in “Partigia”.

 

http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/sergio-luzzatto-partigia

 

 

Robert S. C. Gordon. Partigia. L'ibrido e il grigio

 

All’interno di una generale ascesa della Shoah a categoria ermeneutica per spiegare tutte le storie del novecento, passare attraverso la biografia e l’opera di Levi, diventato ormai quasi un mito della voce del sopravvissuto e dell’autorità etica, sondare i suoi singoli testi per scoprire messaggi nascosti, segreti intorno alla Resistenza, non può non condizionare la ricerca storica che ne deriva, creando un ibrido affascinante, caratteristico di un momento forse nuovo nel rapporto Resistenza-Shoah e nella memoria collettiva del Novecento in Italia. Questo senz’altro aiuta a spiegare la forza e anche l’ambiguità del libro.

 

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Valentina Pisanty. La memoria come esperienza del trauma. Patrizia Violi. Paesaggi della memoria

 

Diventare testimoni secondari è la motivazione ufficiale che spinge gran parte dei visitatori a intraprendere pellegrinaggi post-traumatici: pagare un tributo alle vittime, risarcirle simbolicamente, sentirsi a posto con la coscienza, come quando si va al cimitero. Meno espliciti gli impulsi voyeuristici, che pure trapelano in molti commenti su tripadvisor e siti analoghi, a riprova che sacralizzazione e banalizzazione spesso si implicano vicendevolmente. Del tutto nascosti, infine, i condizionamenti politici a cui soggiacciono i luoghi della memoria.

Lo spiegava bene Maurice Halbwachs: la memoria collettiva è funzionale alle sensibilità, agli interessi e ai progetti di chi la gestisce.

 

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Fabio Levi. Contro il negazionismo: una legge sbagliata

 

Delegare alla magistratura il compito di liberarci da quei pericolosi agenti inquinatori finirebbe per rendere il nostro libero dibattito molto meno libero. Libertà e responsabilità si tengono infatti strettamente. E affidare istituzionalmente ad altri una responsabilità di cui ognuno dovrebbe farsi carico non contribuisce certo a consolidare gli anticorpi utili a contrastare, prima di tutto nelle relazioni quotidiane, l’affermarsi di idee sbagliate e pericolose.

 

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Giuseppe O. Longo. Giorno della Memoria | Il reddito della vergogna

 

Alla signora Vuericke

Cara zia, sempre più ho la sensazione di immedesimarmi nello zio, di rivivere ciò che lui aveva provato durante quella prima visita a san Sabba e poi in seguito, e non soltanto durante il breve periodo della mia ulteriore permanenza a Trieste, ma anche dopo, nei mesi che io trascorsi qui in sanatorio e che lui passò là, a meditare il suicidio, a prepararsi al suicidio e a predisporre tutto in maniera che il suicidio riuscisse nel modo più perfetto, per lui sarebbe stato tragico, credo, anzi sono sicuro che sarebbe stato davvero tragico se il suicidio non gli fosse riuscito al primo colpo. Visitando la Risiera deve aver provato delle sensazioni sconvolgenti, deve aver udito il respiro dei condannati, l'urlo dei prigionieri che venivano gettati ancora vivi nel forno, perché non è detto che un solo colpo di mazza alla nuca basti per uccidere un uomo, lo zio deve aver rivissuto quelle tribolazioni senza nome come io ora le rivivo pensando a lui…

 

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Marco Belpoliti. Levi, Bellow e il Re dei Giudei

 

Primo Levi fa un passo in più rispetto allo scrittore polacco, e anche rispetto a Bellow, perché guarda la vicenda da un altro punto di vista: la sua possibile attualità. Dopo aver detto che la capacità di un uomo di recitare non è illimitata, scrive: “Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia”. Gli interessa capire quanto ci si può riconoscere in Rumkowski, dal momento che in lui ci rispecchiamo tutti: “la sua ambiguità – scrive –  è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito”. Non si tratta solo di un problema individuale, ma che riguarda l’intera civiltà occidentale, la quale “scende all’inferno con trombe e tamburi”.

 

È la pietas di Levi a permettergli di accedere a questi aspetti e di restituirli in ciò che scrive. Di questa comicità c’è evidente traccia nei racconti raccolti in Lílit, cui appartiene anche Il re dei giudei. La figura di Rumkowski finisce per interessare Bellow e Levi anche per questo suo aspetto tragicomico, per le insulse buffonate, di cui si dice nel passo di Misura per misura

 

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Daniele Salerno. Omocausto: l’oblio della vergogna

 

Ne I sommersi e i salvati Primo Levi racconta che quasi tutti i sopravvissuti allo sterminio nazista avevano un incubo ricorrente: di tornare a casa, di provare a raccontare quello che era accaduto e di non essere ascoltati o creduti. Levi conclude: “Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime temevano e come i nazisti speravano”.

Il sogno di Levi e dei sopravvissuti viene raccontato quasi con gli stessi termini da Heinz F., uno dei sopravvissuti intervistati nel documentario Paragraph 175 (2000) di Rob Epstein, Jeffrey Friedman e Klaus Müller. Non si tratta però di un sogno, ma della realtà quotidiana che segnò il destino di Heinz e di tutti coloro che nell’universo concentrazionario portavano, in quanto omosessuali, il triangolo rosa.

 

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Marco Belpoliti. Primo Levi, uno e bino. Pietro Scarnera. Una stella tranquilla

 

Per capire “La stella tranquilla” forse bisognerebbe leggere un altro capitolo astrofisico di Levi, il suo opposto, quello dedicato ai “buchi neri”. Se la stella del racconto esplode, là in una poesia e in un capitolo della Ricerca delle radici, invece c’è l’implosione, l’azione contraria. Il buco nero è quello di Auschwitz, oltre che un fenomeno osservato dagli astrofisici. Qui si aprirebbe la possibilità di un lungo attraversamento in diagonale dell’opera dello scrittore, e anche dello stesso libro di Scarnera, che va letto così, e non solo in modo consequenziale, pagina dopo pagina.

 

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M. Belpoliti. Primo Levi, alle origini della zona grigia

 

(Commento a due articoli di Sergio Luzzatto e Domenico Scarpa sul ritrovamento di un'inedita lettera di Primo Levi)

 

Al di là degli aspetti che possono interessare noi studiosi di Levi – una filologia mai fine a se stessa, credo –, qual è la questione importante che si nasconde dentro l’epistolario inedito coi lettori tedeschi? Il tema della “zona grigia”. Ovvero il grado di coinvolgimento, e dunque di responsabilità, dei tedeschi sotto Hitler, come dei deportati nel Lager: i collaboratori delle SS, i Kapo, gli stessi Triangoli rossi, ovvero i politici che nel Lager di Monowitz, dove Levi si trova, collaborano con i carnefici pur di sopravvivere; e alla fine la responsabilità di Levi stesso, un salvato nel naufragio dei sommersi.

 

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Primo Levi. La condizione dello scrittore.

 

Nella primavera del 1977 Mario Miccinesi e Flora Vincenti, che dirigono “Uomini e libri”, un periodico d’informazione bibliografica, inviano un questionario a vari scrittori italiani.

Primo Levi risponde prontamente al questionario su “La condizione dello scrittore nel contesto politico italiano”.

 

«L'opera scritta può incidere
 sulla realtà politica: ma spesso questo 
avviene in misura diversa da (talora opposta a) quanto lo scrittore desidera o prevede. Un libro scappa di mano a chi lo scrive: dice più di quanto il suo autore intende. Essendo frutto di un’epoca, testimonia sull’epoca, anche contro o senza il consenso dell’autore; in questo senso, ogni libro è impegnato, anche se il suo autore si professa disimpegnato.»

 

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