L’Angelo della Storia. I Sotterraneo al Piccolo Teatro

4 Novembre 2022

Quando nel gennaio 2019 Overload fu insignito del premio Ubu come miglior spettacolo, il riconoscimento ai Sotterraneo sembrò celebrare un intero movimento, una galassia di artiste e artisti – e con loro di studiose, di critici, di giornalisti – la cui inclusione nell’alveo degli “emergenti” aveva assunto i tratti di una marginalizzazione sontuosa e asfissiante. Quella giovinezza che stentava a chiudersi, per chi come loro aveva iniziato a muovere i propri passi in teatro agli inizi degli anni Duemila, veniva per la prima volta abbandonata. Oggi il collettivo fiorentino fa parte dei quindici Artisti Associati al Piccolo Teatro – la maggior parte dei quali loro coetanei, o addirittura più giovani – e il massimo tempio della regia nazionale ha ospitato, nella sala di via Rovello, una personale dedicata al gruppo: un sigillo di prestigio che coincide con la prima milanese di spettacoli dalla tournée internazionale ormai già corposa, un’occasione di studiare con chiarezza le caratteristiche di un percorso pressoché unico per cifra estetica e storia produttiva, ma soprattutto la possibilità di documentare le cicatrici che su questo stesso itinerario ha impresso l’ostinata adolescenza nella quale Sotterraneo, e con loro una generazione tutta, è stata a lungo, forzosamente, cristallizzata. 

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Che un gruppo di quarantenni indaghi, da più di un decennio, quello che Julian Barnes chiamerebbe “il senso di una fine”, non può infatti passare inosservato. Era ancora un 2007 ignaro delle crisi economiche a vedere il debutto di Post-it, surreale pièce sulle conclusioni – di qualsiasi romanzo o della nostra vita – che terminava, sulle note di Atrocities di Antony and the Johnsons, con uno struggente decesso. Due anni più tardi, Dies Irae metteva in scena piccole e grandi estinzioni, e nel 2014 War Now! affabulava intorno a quella Terza Guerra Mondiale che oggi non sembra più così improbabile: ovunque – disseminati a margine di creazioni che esploravano altri nuclei di significato, oppure li ponevano al centro dell’attenzione – i segni di una morte prossima, di un’apocalisse imminente, emergevano dal discorso scenico di Sotterraneo con toni sarcastici, quasi divertiti.

Con Overload era infine la stessa scomparsa del gruppo, vittima di un terrificante incidente stradale, a essere evocata sul palco: una morte che non avrebbe concesso a nessuno di crescere, di lasciare alle spalle i privilegi e le ansie della gioventù, finanche di diventare un protagonista della scena teatrale nazionale. Quel pericolo è felicemente scampato, eppure ad agire nell’arte di Sotterraneo permane un’amara coscienza della finitezza, un disincantato ma irresistibile cinismo in virtù del quale irridere qualsiasi vago desiderio sul tempo a venire.

È una comprensibile difficoltà a immaginare il futuro, proprio o addirittura della nostra specie, che accomuna il gruppo composto da Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa a tanti altri autori, è un disagio ad abitare lo spazio del sogno, un’inclinazione per la catastrofe, un’ossessione per il tempo perduto verso il quale – si pensi anche alle creazioni di Marco D’Agostin – lo sguardo è costantemente rivolto. Come l’Angelus Novus di Paul Klee, un’intera generazione di artiste e artisti sta guardando soltanto al passato, intuendo che il domani verso cui ci stiamo muovendo sarà edificato su un presente di macerie.

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Al celebre acquerello, a partire dalla visione del quale Walter Benjamin elaborò le proprie tesi di filosofia della storia, è dedicato L’Angelo della Storia, la nuova produzione di Sotterraneo che ha chiuso la settimana al Piccolo Teatro Grassi. Quell’esile figura sospinta senza requie verso il futuro, le cui ali si dispiegano al di sopra delle rovine sedimentate dalle epoche, fu per il pensatore berlinese l’ipostasi stessa del tempo violento e folle, oscuro e disperato, che calò sul mondo nella prima metà del Novecento; per i Sotterraneo essa è anche una chiave d’accesso a una riflessione sulla narrazione, sulla nostra coazione al racconto, sulla volontà di costruire storie.

E la drammaturgia, firmata da Daniele Villa, inanella con vertiginosa perizia i più disparati aneddoti, senza apparente legame tra loro se non una macabra quanto irresistibile ricorrenza di morti – suicidi di massa, decapitazioni, annegamenti, stragi – e una correlata tendenza, per gli sfortunati protagonisti degli episodi, a fidarsi e affidarsi ai racconti come vie di fuga dal vicino collasso. Su un palco vuoto sul quale si stagliano soltanto due flightcase e uno schermo di luci al neon in funzione di datario, a essere vivificati dall’ensemble sono così piccoli stralci biografici di figure gigantesche – Eleonora di Castiglia, Yukio Mishima, Ippaso di Metaponto, Carla Capponi – o di ignoti e bislacchi individui – uno strenuo terrapiattista, un addetto ai sistemi missilistici nucleari sovietici – colti in quei frangenti esistenziali che più sembrano manifestare l’esatta natura di un’epoca e di un mondo.

Sono microstorie, vicende che, come insegnato dal magistero di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi, possono tuttavia illuminare le pieghe più oscure e nascoste del loro tempo: così Troffea, l’abitante di Strasburgo che per prima nel 1518 fu preda di una danza isterica che a poco a poco contagiò centinaia di persone e si protrasse per settimane, tradisce i turbamenti e le ansie sociali di un anno contraddistinto da carestie e tensioni politiche; così John Wayne, indifferente al pericolo rappresentato dai test nucleari svolti a poca distanza dal set di The Conqueror, mostra il prezzo di una fanatica adesione all’american dream. La scrittura non procede tuttavia con linearità progressiva, quanto per un rizomatico processo di sovrapposizione: le storie si rincorrono e si sfrangiano, defluiscono l’una nell’altra, esplodono in schegge di esistenze reali o fantastiche.

Con L’Angelo della Storia, Villa si impone come una delle voci più acute della nostra drammaturgia, alla quale – complice il ricorso a processi di scrittura scenica – per troppo tempo non è stato, colpevolmente, accostato: eppure la sua significativa capacità di fondere approccio filosofico e comicità avant-pop, l'attitudine a stratificare prospettive al di sotto dei giochi linguistici, il gusto nel mutuare strutture combinatorie dall’universo ipertestuale – già emersa in Overload – appaiono esemplari all’interno del panorama nazionale.

Ciò che Villa tesse è un arazzo di parole e immagini, i cui singoli fili narrativi si dipanano da un solo nodo – un primordiale tentativo di sfuggire all’assalto di una tigre dai denti a sciabola – e a un nodo solo tornano – una caverna di platonica memoria, sulla quale imprimere scene di caccia o le impronte delle mani – ma che nel procedere si accumulano con chirurgica efficacia, delineando una tavola sinottica che affastella ere e giorni, vite e ideali. E che infine mente, romanza, getta un velo di contraffazione sulla verità storica, scegliendo la strada del verosimile e poi dell’inverosimile, dell’innocua menzogna.

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Al di sopra di questo millimetrico lavoro di drammaturgia, l’estro del gruppo costruisce una macchina scenica impeccabile: poche, misurate soluzioni registiche costituiscono il fondale sulle quali il lavoro attorale, mai così accurato, erige una teoria di azioni drammatiche, che si susseguono senza transizione. Frammentari, i lacerti biografici sono raccontati e progressivamente ricomposti dall’ensemble, ricorrendo a un tono espositivo documentaristico, storiografico: agli eccellenti Sara Bonaventura e Claudio Cirri – tanto rigorosa e cerebrale l’una, quanto sornione l’altro – si affiancano una volta ancora Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini. La loro partecipazione alle creazioni del gruppo, quasi un ingresso effettivo nel collettivo, ha costituito un felice modello di crescita, forse anche di sopravvivenza, della compagnia: e sembra necessario sottolineare quanto l’apporto interpretativo dei tre – la dirompente fisicità di Santolini, la soffusa grazia di Guerrini, quella malinconica ironia colma di dolore di Pennati – abbia arricchito la tavolozza dei Sotterraneo con sfumature recitative inedite.

I cinque combinano siparietti danzati con sequenze di improbabile canto corale o di beatboxing, dipingono quadri viventi, trasformano il palco sotto gli occhi degli spettatori, abitandolo ora con un’imponente balena gonfiabile, ora con una straziante immagine plastica dell’Angelus. Ormai pienamente padroni dell’arte dell’engagement, e perfettamente a proprio agio con il ricorso allo spettatore come latore di effetti teatrali imprevisti, i Sotterraneo limitano qui l’intervento del pubblico chiedendogli uno studiata partecipazione sonora: le sveglie di centinaia di cellulari suonano all’unisono 53 minuti dopo l’inizio dello spettacolo, restituendoci la straziante attesa vissuta da Benjamin a Portbou, quando una telefonata senza risposta lo convinse dell’imminente cattura da parte dei nazisti.

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Convinzioni errate e cieche persuasioni, ipse dixit, teorie alla quali soggiacere con spirito più religioso che scientifico, costituiscono d’altra parte il fil rouge delle decine di storie affrontate, la cui costellazione delinea un feroce saggio sui modelli di realtà grazie ai quali interpretiamo il mondo e dai quali ci facciamo guidare nelle nostre azioni. Più che una violenza cieca e brutale, a uccidere i protagonisti degli aneddoti è l’incapacità di immaginare un paradigma diverso, è la caparbia adesione a un racconto – sia esso la teoria pitagorica, o la superiorità morale del Giappone dei samurai – al quale ciascuno ha prima dedicato e infine sacrificato la propria, irripetibile vita.

Ed è qui che L’Angelo della Storia opera uno scarto ulteriore, confermando la grandezza dell’operazione eseguita dal gruppo e distillando una preziosa ambiguità di fondo. “Ogni volta che la scrittura acquista spessore, il testo si sposta dall’intento primario e suggerisce orizzonti più ampi, se non contraddittori”, afferma Walter Siti in Contro l’impegno, e qualcosa del genere accade con L’Angelo della Storia. Allo spettatore permane il dubbio, parzialmente silenziato dalla mirabolante esperienza percettiva, che la narrazione – e stricto sensu, il teatro – non sia poi un’arte salvifica, che le notti di Shahrazād siano solo un’illusione, e che questo pervasivo storytelling, nel quale siamo immersi e che noi stessi alimentiamo, sia esso stesso una pena capitale.

“L’uscita dal racconto” implica quasi sempre la morte, ci ricorda Sara Bonaventura, eppure ci scopriamo a sospettare che Mishima non si sarebbe suicidato, che il terrapiattista sarebbe ancora vivo, che le balene non si sarebbero spiaggiate – se soltanto non avessero creduto al racconto. Sarà forse per questa ragione che, nell’erigere la grotta sulle cui pareti i primi sapiens iniziarono a disegnare, i Sotterraneo devono celare alla vista il palcoscenico: cancellando, per brevi istanti, tutte quelle storie che da millenni, là sopra, ascoltiamo.

Le foto contenute in quest’articolo sono di Giulia di Vitantonio.

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