Le patrie

17 Marzo 2011

Discrezione e sobrietà impongono a Levi la distanza da quel termine che nessun italiano userebbe mai nei dialoghi di tutti i giorni. La parola patria è eccessiva, intrisa di retorica, e, in particolare, è approssimativa. Villaggio, focolare, terra dei padri (e qui aiuta l’etimologia), nazione: molti sono i suoi sensi possibili, probabilmente troppi per l’esattezza leviana. E poi sul concetto che sottende sembra gravare un limite invalicabile, ovvero la sua volatilità. Basta andarsene dai luoghi natii, oppure è sufficiente essere appartenenti ad un popolo come quello americano o sovietico in pendolare movimento tra città diverse, e la patria non c’è più. Svanita, dissolta impalpabilmente nelle nebbioline della malinconia, come ribadisce il “patria... è dove si vive” di Pascoli.
Eppure non è tutto. Levi sa di non aver esaurito lo scavo, sa che da qualche parte quella parola porta con sé anche altro, e non è un altro da poco, perché, a ben vedere, può essere una convincente spiegazione ad uno dei dilemmi della storia contemporanea. Si tratta della questione sui motivi che hanno impedito agli ebrei d’Europa, negli anni della persecuzione nazista, di lasciare le terre in cui erano nati. A quell’inerzia lo scrittore torinese dà una spiegazione sociologica (la classe media, “meno assillata dal bisogno” rispetto al popolo non aveva se non un’idea vaga dell’“estero”) e storica (le frontiere europee chiuse, quelle americane molto selettive). Soprattutto però Levi insiste sulla componente psicologica. Ciascun ebreo ha implicitamente riconosciuto che la patria è il luogo dove si nasce, dove dormono i propri avi, dove si vive quotidianamente adottandone lingua, leggi e costumi. Luogo per cui si combatte, luogo che non si può lasciare a tal punto che morire in patria diventa il modo di morire “per la patria”. Che significa? Che la patria c’è quando è assediata? Ovvero che la si sente quando si rischia di perdere tutto? È quello il momento in cui si risveglia il senso di appartenenza? Levi lo lascia intuire. Così come, a rovescio, finisce col negare il valore di qualsiasi senso d’appartenenza dell’ebreo ad un solo virtuale popolo. Almeno fino agli anni Trenta, un ebreo era parte del popolo con cui conviveva da secoli, a cui, inevitabilmente, lui stesso apparteneva. Scritte negli anni Ottanta, le parole di Levi sembrano offrire una ulteriore riflessione sul sionismo, sul sogno di ricostituire un’ipotesi di popolo esclusivamente ebraico. È stata solo la Shoah a determinare il risorgere di un’idea di legame comune. Solo allora le patrie sono diventate – per gli ebrei d’Europa – una patria. A dimostrazione che la parola corrisponde ad un’idea e ad un’esperienza dei sensi soltanto quando si è nell’abisso della desolazione, nel vuoto della perdita, nella dissoluzione di ogni altra rete di relazioni.

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