Le scene di Ivano Marescotti

28 Marzo 2023

È sempre stato divorato dalle passioni, Ivano Marescotti, scomparso domenica 26 marzo a 77 anni nella sua Romagna. Innanzitutto, dalla passione per il teatro: aveva lavorato fino ai quarant’anni all’ufficio urbanistica del Comune di Ravenna, partecipando alla stesura del piano regolatore della città. Si era licenziato nel 1981, dopo dieci anni di attività: “Non volevo più fare un lavoro fisso, inchiodato tutti i giorni alle stesse mansioni” diceva in un’intervista rilasciata a chi scrive, per il “Corriere di Bologna”, nel febbraio del 2022, quando aveva annunciato con un secco comunicato l’addio alle scene e ai set. Si era licenziato per fare teatro, inizialmente “in teatrini che non mi garantivano una sopravvivenza decente. Recitavo un mese e stavo fermo per tre o quattro. Sono stati anni di vera gavetta. Poi è arrivato Albertazzi e c’è stato il primo salto professionale, nel teatro, con una continuità di lavoro. Nel 1990 sono stato il protagonista del primo film di Soldini, L’aria serena dell’Ovest: quello è stato il mio vero lancio”. In quei “teatrini” si erano sviluppate, però, esperienze significative, notevoli, per quanto sempre segnate dalla precarietà.

Un’altra passione, fortissima, era quella politica: sempre di sinistra, aveva suscitato scalpore dichiarandosi a favore del Movimento 5 Stelle quando il Pd si era troppo legato alla gestione del potere. Ancora nell’intervista, rilasciata ai tempi del governo Draghi, ribadiva: “Io prima di tutto sono un cittadino. Sono sempre stato socialista, comunista, ma oggi non c’è più un movimento che mi rappresenti. Dopo Berlusconi tutto è andato in vacca. Per un periodo ho votato Movimento 5 Stelle, perché il Pd, che era stato il mio partito, era andato al potere con tutti gli altri: volevo far cadere quel guazzabuglio di compromessi. Oggi di nuovo sono tutti insieme, e io credo che siamo messi davvero male: non so chi voterò la prossima volta e forse non andrò a votare del tutto”. Un video, registrato pochi giorni fa, lo mostra malato, sofferente, ma indomito: invita a iscriversi all’Anpi, all’associazione dei partigiani, affermando che il nostro Paese con la destra al potere corre rischi grandissimi, perfino quello che, se Mattarella avesse un impedimento, “un fascista dichiarato e non pentito”, Ignazio La Russa, presidente del Senato, potrebbe assumere le funzioni di presidente della Repubblica.

L’altra grande passione era il dialetto della sua Romagna, della sua Villanova di Bagnacavallo, che aveva portato in scena con le parole, i versi, i monologhi, i testi teatrali dei poeti di Santarcangelo, Raffaello Baldini e Tonino Guerra soprattutto, riscritti, indossati, fatti propri nel romagnolo del suo paese, diverso da quello del borgo dell’entroterra riminese, un altro mondo linguistico, anche se distante poche decine di chilometri. 

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Una scena della Fondazione, di Raffaello Baldini.

Sempre nell’intervista, ricordava: “Ho iniziato leggendo in pubblico le poesie di Baldini, che sono vere e proprie brevi pièce teatrali. Poi l’ho convinto a scrivere dei testi teatrali e con l’ultimo, La fondazione, ho girato per tre anni, con più di cento repliche. Per fare l’attore avevo dovuto far dimenticare le mie origini. A un primo provino lessi il monologo di Amleto così: ‘escere o non escere, questo è il problema’, e il regista mi rimbeccò: ‘questa pronuncia può essere un problema!’ Cercai di migliorare la dizione ma nello stesso tempo provai a leggere in pubblico poesie di Tonino Guerra e poi soprattutto di Baldini: e ho fatto più di mille e duecento repliche…”. In dialetto ha tradotto Dante, in Dante, un patàca!, e Ariosto. Ma soprattutto ha portato sulle scene Raffaello Baldini, autore, fino a quando Marescotti non è andato a incitarlo a scrivere per il teatro, di poesie e poemi che mettevano in scena interi mondi.

Zitti tutti!, un monologo praticamente ‘estorto’ al poeta, che viveva a Milano e lavorava nell’editoria, metteva in scena un vecchio barricato in casa, impaurito dalle diavolerie del mondo moderno e soprattutto da tutti quegli stranieri – cinesi dappertutto – che invadevano il suo mondo, che ‘lo costringevano’ a chiudersi tra le sue quattro mura, con il fucile spianato. Con forza terragna e svagatezza carica di umor nero, pronta a trasformarsi in violenza, narrava la sociopatia contemporanea, la paura della diversità, con toni degni di un Thomas Bernhard, con la lingua che si parla nella piazza di un paese romagnolo tra il racconto di una storia, una partita a carte e una bevuta, la provincia proiettata in una malattia occidentale. Il pubblico del teatro Alighieri di Ravenna, alla rappresentazione dello spettacolo con la regia di Marco Martinelli nel 1993, rideva a crepapelle, mentre noi che venivamo da una settantina di chilometri di distanza, da Bologna, non capivamo una parola, ma entravamo perfettamente nel clima, nell’affezione dello spettacolo.

 

 

Prima ancora erano venuti – quelli erano alcuni dei ‘teatrini’ precari – lavori con la compagnia di Leo de Berardinis, Amleto come un viaggio di parola nell’oscuro, la parte comica della Tempesta shakespeariana, quel capolavoro che fu Novecento e Mille, una saga delle idee e dei conflitti del Ventesimo secolo. Poi Marescotti aveva lavorato con Alfonso Santagata, con Mario Martone, con Bruno Stori, con Giorgio Gallione, a un Don Camillo e Peppone (lui naturalmente interpretava il sindaco comunista) con Vito (Stefano Bicocchi), quindi con Elena Bucci. Nelle ultime uscite teatrali aveva firmato in prima persona sempre di più le regie degli spettacoli in italiano e in dialetto da Baldini e da altri autori.

Il cinema e la televisione, quindi, lo avevano assorbito. Aveva recitato con Roberto Benigni e Checco Zalone, per Carlo Mazzacurati, Anthony Minghella, Ridley Scott e per molti altri. Per lui gli “incontri straordinari” erano stati soprattutto quelli con i registi americani, “quando ho lavorato con Antony Hopkins, Julianne Moore, Ridley Scott, Matt Damon. Sono stato vicino a Hopkins per due mesi, per girare Hannibal”. “Con le spese di un giorno di lavorazione degli americani noi in Italia ci facciamo due film”, ricordava. Tra i film italiani girati era particolarmente legato a Strane storie di Sandro Baldoni, del 1994: “Uno dei primi che ho interpretato, divertente, più attuale oggi di trent’anni fa”, strane vicende surreali che anticipavano temi del nostro secolo. E tante sono state le fiction televisive: “Ho fatto una carriera che non mi sarei mai sognato di fare. La critica mi ha trattato sempre con i guanti di velluto”.

La sua cifra espressiva era legata, al cinema e in televisione, a una certa ruvidezza, contadina diciamo pure, di contadino proiettato nel XXI secolo, trasformato in imprenditore. E quella radice campagnola, paesana, era il substrato della sua arte teatrale, comica ma mai sciatta, attenta a scavare nel passato, nelle ‘radici’ diciamo pure, per trovare un posto, spesso scomodo, nei tempi nuovi, spesso procedendo per moti contrari e contrastanti, per paradosso.

 

 

Ogni volta portava in scena quelle sue tre passioni, quella per la recitazione, quella politica, quella per il dialetto, per le origini di una provincia proiettata nel mondo globale, traendo dalla combinazione tra di esse una linfa che ne faceva una figura unica. Una figura che sembrava intinta in molti degli umori del suo compaesano, ideale antenato cinquecentesco, Tommaso Garzoni da Bagnacavallo, autore di opere come LHospidale de pazzi incurabili, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, La Sinagoga de glignoranti, il primo a usare, qualcuno dice, il termine democrazia.

L’intervista, pubblicata sul sito web del Corriere di Bologna, finiva chiedendo cosa avrebbe fatto una volta ritiratosi dalle scene:

Ha scritto che continuerà a insegnare.

“Al Teatro Accademia Marescotti a Marina di Ravenna. È divertente e molto creativo. Non solo formi i ragazzi, li avvii a recitare, ma anche organizzi piccole scene e monologhi e le riprendi con la telecamera. Poi qualcuno degli allievi entra nel mondo del lavoro grazie alla mia agente romana”.

Cosa farà ora nel tempo libero?

“Leggerò. Ho una pila di libri che ho rimandato di prendere in mano per anni. In cima ci sono testi sulla rivoluzione russa e sulla controrivoluzione, lo stalinismo, storie che raccontano di comunisti e socialisti che fuggivano dal fascismo da tutta l’Europa e che poi facevano una brutta fine in Unione Sovietica. Leggerò romanzi e farò molto altro. Nella casa di Villanova di Bagnacavallo, il paese in provincia di Ravenna dove sono nato e dove sono tornato un paio di anni fa, dopo aver vissuto a Bologna e a Roma”.

Non ha avuto molto tempo per farlo, Ivano. 

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