Lee Miller e Man Ray: moda, amore e guerra

11 Gennaio 2023

Lee Miller (1907-1977) appare come una luce snella ed elegante, duratura per quanto ansiosa di bruciare il più possibile: in questi ultimi mesi un paio di eventi hanno voluto ricordare la sua vita in costante fermento e la sua variegata produzione fotografica, strettamente legata all’influsso surrealista ereditato dal legame indissolubile con Man Ray nella Parigi di fine anni ‘20. La mostra “Lee Miller – Man Ray / Fashion – Love – War”, allestita a Venezia presso Palazzo Franchetti e curata da Victoria Noel-Johnson e il libro Le molte vite di Lee Miller, scritto dal figlio Antony Penrose per Contrasto, si propongono di sondare innanzitutto il personaggio, la sua vita eternamente fanciulla e in movimento, per delineare quelle tracce identitarie anche delle sue fotografie.

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Man Ray, Lee Miller, 1930 circa. Man Ray Trust, Long Island, N.Y.

Si apprende così di una Lee Miller avviata un poco alla fotografia già dal padre Theodore, ingegnere e imprenditore molto abile, e di una Lee che con difficoltà estrema per i genitori veniva espulsa, fino ai diciott’anni, da ogni scuola che le capitasse di frequentare: per questo motivo fu presto imbarcata per Parigi nella speranza di una depressurizzazione di quest’animo indomabile. Ma lì accadde l’inizio. Va ricordato che sempre all’interno della realtà editoriale di Contrasto, in occasione della pubblicazione del 2021 di Donne Fotografe di cui già su Doppiozero si è parlato, Lee Miller compare nel libricino dedicato alle donne “rivoluzionarie”: questo è un dato sicuramente di rilievo nella vita di una donna che, già ragazza, divenne presto icona di stile per Vogue e musa di un protagonista dell’avanguardia surrealista, eludendo abilmente ogni vincolo sentimentale e sociale per cercare di placare quell’ansia di consumarsi che la colse bambina.

Nella riscoperta di questa figura della storia della fotografia pare sia stato determinante scoprire i veli della sua storia personale e, soprattutto, del suo rapporto intimo con Man Ray per giustificare un dignitoso apparato critico alla sua opera, senza che mai purtroppo si addentri davvero nei meandri vivi dell’operare fotografico dell’autrice. La mostra applica un metodo comparativo decisamente serrato, mostrando una sostanziale selezione di immagini di Man Ray accostate alle prime produzioni della Miller: l’influenza surrealista è dichiarata dal principio, così l’uso, a volte, degli stessi soggetti usati anche dal suo maestro – come la protezione a rete per le spalle degli schermidori – o l’incidente fortunato avvenuto a opera di Lee, perfezionato poi da Man Ray, della solarizzazione accendendo per sbaglio la luce in camera oscura durante lo sviluppo di una stampa. 

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LeeMiller Copyright Lee Miller Archives Courtesy Solarised Photographs, London, England, 942.

Per collocare in modo più ampio e preciso l’incontro di Lee Miller e Man Ray, avvenuto nel 1929, bisogna senz’altro ricordare che nel maggio di quello stesso anno la storia della fotografia stava raggiungendo un nuovo punto della sua evoluzione con la mostra internazionale “Film und Foto” (nota anche come FiFo) a Stoccarda, che riuniva le maggiori e più influenti scuole di pensiero europee di teoria fotografica: Man Ray compare come rappresentante della Francia, a fianco di László Moholy-Nagy per la Germania ed Edward Weston e Edward Steichen per gli Stati Uniti.

La fotografia surrealista germogliava, quindi, negli stessi anni in cui lo faceva la nuova visione del Bauhaus in Germania e mentre stava lentamente tramontando ogni strascico pittorialista americano per dare spazio alla nuova obiettività del gruppo f/64. Lee Miller incontra dunque un uomo e un paese trainanti nell’evoluzione della fotografia, ereditandone in brevissimo tempo le intuizioni più avanguardistiche e, concetto che torna, “rivoluzionarie”. 

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LeeMiller, Copyright LeeMillerArchives, Portrait of Space near Siwa Egypt, 1937.

Di Lee Miller si parla di “molte vite”, come riporta il titolo del libro a lei dedicato dal figlio Antony, nato durante l’ultimo matrimonio di Lee col pittore Roland Penrose, a indicare, un po’ come si è affrontato anche per Lisetta Carmi, la variegata applicazione del talento di un’autrice in fasi totalmente distanti una dall’altra della propria vita. Dopo la parentesi parigina, infatti, inizia quella newyorkese nel 1932, in cui apre uno studio in proprio lavorando come ritrattista per l’alta società e realizzando campagne pubblicitarie. Nonostante le difficoltà che gli anni della Depressione imposero a ogni iniziativa imprenditoriale, Lee Miller riuscì in non poco tempo a imporsi come nuova fotografa di alto livello in circolazione, pareggiando i conti e potendo vivere col suo mestiere.

Significativo di questo periodo è senz’altro il celebre ritratto all’attrice Kendall Lee Glaenzer, in cui la forte giustapposizione col vaso di fiori immediatamente dietro la donna crea un dialogo compositivo fluido e naturale tra l’elemento vivo e umano e la natura morta degli steli recisi. Una delicatezza alla Horst P. Horst, che qualche anno prima la Miller conobbe in qualità di assistente dell’allora più noto fotografo di Vogue George Hoyningen-Huene.

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Lee Miller e David E. Scherman, Lee Miller nella vasca da bagno di Hitler, Appartamento di Hitler, 16 PrinzregentenplatzMonaco di Baviera, Germania 1945. Lee Miller Archives.

Pare quasi che “l’aura audace e luminosa” con cui viene ricordata Lee, citando le parole di Julien Levy, il gallerista che per primo le organizzò un’esposizione personale a New York, riuscisse a trasferirla facilmente anche sui suoi soggetti, trasmettendo loro quella fierezza indomita propria dell’autrice e così dettagliatamente ricordata da chiunque l’abbia incontrata in vita.

Nel 1934 si cambia ancora capitolo col matrimonio con Aziz Eloui Bey, ricco uomo d’affari egiziano, e con lui un’altra svolta nella produzione di Lee Miller, appassionata velocemente alle gite nel deserto, capace anche se per poco di placare il suo entusiasmo da perenne girovaga: le immagini di questo periodo paiono verosimilmente quelle di una fotografa già indecisa su come proseguire la propria attività in questo campo, assalita com’era dal tedio in un luogo climaticamente inospitale e ingabbiata in una routine priva di stimoli.

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Lee Miller, Kendall Lee Glaenzer, Lee Miller Studios Inc., New York, USA 1933. Lee Miller Archives, East Sussex, Inghilterra.

Qui sono le geometrie dei luoghi sconosciuti ad appassionarla maggiormente, come il triangolo d’ombra perfetto disegnato dalla Piramide di Giza sulla città sottostante, inghiottita in una morsa scura in cui immaginiamo si trovasse anche la mente e la vita della sua autrice appena trentenne. In tal senso pare inserirsi anche la più nota immagine “Ritratto dello spazio”, che ritrae il varco di una rete strappata e perfettamente esposta su un orizzonte piatto e sabbioso.

Anche in questo caso l’influsso surrealista pare richiamato dallo specchio rettangolare appeso appena sopra lo squarcio e non riflettente alcuna immagine: nulla da segnalare, dunque, dello spazio in cui è inserito lui ed è confinata Lee, nulla da raggiungere oltre il vuoto della rete strappata. Il libro di Antony Penrose dà di questo periodo più testimonianza di quanto non faccia la mostra, inserendo alcune immagini di valore come “Le Cupole della Chiesa della Vergine Maria”, o la “Cock Rock, anche detta The Native” che pare denuncino la necessità di pulire lo sguardo per abbracciare una realtà nitida e significativa in quanto tale.

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Lee Miller, Picasso e Lee Miller nello studio di Picasso, Liberazione di Parigi, Rue des Grands Augustins Parigi, Francia 1944. Lee Miller Archives, East Sussex, Inghilterra.

Nel 1937 Lee è di nuovo a Parigi, spossata dalla vita egiziana: qui incontra gli amici surrealisti, tra cui Man Ray, e conosce Roland Penrose a una festa in maschera. Dopo le cosiddette “vacanze surrealiste” in compagnia del nuovo amante, di Man Ray e altri amici – tra cui Max Ernst, Paul Éluard e Picasso – in cui le immagini risultano essere un umano resoconto dei momenti di quei giorni, nel 1939 la Miller si sposta a Londra con Roland e inizia un altro nuovo capitolo. 

Da questo momento pare avviarsi il secondo grande atto della vita di Lee Miller e quello dell’Europa intera: allo scoppio della guerra, Lee è a Londra per continuare a lavorare nel settore della fotografia di moda, per poi presto arruolarsi come corrispondente di guerra degli Stati Uniti e realizzare una coraggiosa documentazione dei campi medici dell’esercito americano in Normandia durante il D-Day: pare infatti che il caos psichico annunciato e tradotto in immagine dai surrealisti prendesse ora di colpo piede nella realtà che attanagliava l’Europa e ogni luogo in cui Lee si trovasse a camminare.

Il risultato delirante delle giustapposizioni che fino a qualche anno prima si compivano in camera oscura ora le si stendevano di fronte agli occhi, in mezzo ai corpi dei soldati appena vivi, al frantumarsi del mito eroico della guerra in tanti miseri brandelli di umanità disperata, “contratta e pallida, sotto la sporcizia”, come anche lei ricorda in un articolo pubblicato per Vogue. A questo punto, nel contesto della mostra di Palazzo Franchetti, avviene una drastica accelerazione, passando velocemente in rassegna alcune immagini catturate durante il soggiorno di Londra, ancora diviso a metà tra qualche collaborazione per Vogue e i primi reportage dei primi effetti distruttivi sulla città della guerra, per arrivare in fretta a Parigi e alla Libération del 1944, suggellata visivamente dal gesto caloroso di Picasso nel suo studio alla stessa Lee.

Antony Penrose si addentra invece con entusiasmo nell’attività della madre come autrice non solo di reportage fotografici, quanto anche di lunghi articoli che verranno pubblicati, sempre per Vogue, in merito a quanto vissuto durante i servizi in trasferta. All’ultimo anno della guerra si devono le immagini più toccanti di Lee Miller, in Germania, a Colonia, nel campo di concentramento di Dachau, nei vagoni dei treni carichi di cadaveri di prigionieri, in Alsazia, a neanche 150 chilometri da quella Stoccarda in cui, sedici anni prima, il suo mentore rappresentava la Francia per portare a livello internazionale le avanguardie fotografiche del proprio paese.

Iconica e controversa la fotografia che auto-ritrae Lee Miller nella vasca da bagno di Hitler, il 30 aprile del 1945. Ma le pagine e le immagini scorrono, del libro come della mostra: questa riassumerà in un ultimo breve capitolo la pace a fatica conquistata da Lee a fianco del marito Roland, tra un grave disturbo post-traumatico da stress e una depressione post partum con la nascita del figlio Antony. Nel racconto biografico, invece, i viaggi proseguono e si susseguono nell’Europa dell’est, per tutta la Transilvania, per raccogliere le testimonianze delle conseguenze della guerra in quella parte di mondo. 

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Lee Miller, Senza titolo (Nudo che indossa una protezione di maglia da scherma), Parigi, Francia 1930 circa.

E via in discesa: Lee avvierà un rapporto ormai solo più domestico e confidenziale con la fotografia, ritraendo e facendosi ritrarre dalle persone che le sono vicine, negli anni in cui Antony cresce circondato dai grandi artisti amici dei genitori, da Saul Steinberg all’immancabile Man Ray. Pare quasi che in quest’ultima fase l’urgenza di Lee Miller, rivedendo in un solo flashback tutta la sua frenetica esistenza, fosse quella di ripetere tacitamente a chiunque, e a noi che ora la scopriamo, le stesse parole che scrisse alla redazione di Vogue per testimoniare gli orrori della guerra: “Ti imploro di credere che è tutto vero”.   

La mostra, curata da Victoria Noel-Johnson, ha inaugurato presso Palazzo Franchetti, a Venezia, il 5 novembre 2022 e sarà visitabile fino al 10 aprile 2023.

Il libro “Le molte vite di Lee Miller”, scritto dal figlio Antony Penrose, è uscito per la casa editrice Contrasto nel 2022. 

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