Lomazzo: I colori di un pittore cieco

28 Luglio 2022

C’è un quadro curioso alla Pinacoteca di Brera. Percorrendo le sale alla ricerca dei capolavori che conosco e voglio rivedere dal vivo, passo oltre, ma c’è qualcosa di strano, forse un poco inquietante, che mi colpisce, mi fa tornare indietro: si tratta di un ritratto piuttosto misterioso di un uomo dai tratti delicati e con una corta barba, che accenna un sorriso: lo sguardo sfuggente, rivolto in basso verso lo spettatore, e un gran numero di oggetti simbolici quali foglie di vite, alloro, edera, un medaglione appuntato sul grande cappello, pelliccia, compasso e una tela da pittore.

La scritta non aiuta: zavargna nabas vallis bregni et P L pitr 15.. . La spiega Dante Isella nell’introduzione al libro dal titolo altrettanto enigmatico: Rabisch – che significa, scrive, arabeschi – una raccolta di sonetti del pittore milanese Giovan Paolo Lomazzo, abate dell’Accademia della Valle di Blenio con il nome di compà Zavargna e dei suoi sodali. Si comprendono così anche la P e la L, le iniziali del nome, e la data, non più leggibile: 1568, anno nel quale il nostro pittore (pitr) diviene capo della corporazione. Per Zavargna il significato viene fatto risalire al verbo del dialetto milanese zavajà, canzonare, burlare, celiare, ecc. (Giovan Paolo Lomazzo e i Facchini della Val di Blenio, Rabisch, Testo critico e commento di Dante Isella, Einaudi, Torino 1993). 

Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto, 1568, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano
Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto, 1568, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano.

 

Ma chi è Giovan Paolo Lomazzo?

Come ci racconta lui stesso nell’autobiografia, Lomazzo nasce a Milano il 26 aprile 1538 in una famiglia di artisti e si forma come pittore a bottega da Giambattista Della Cerva, allievo del più famoso Gaudenzio Ferrari (Rime ad Imitazioni de i Grotteschi usati da pittori. Con la vita del auttore descritta da lui stesso in rime sciolte, a cura di Alessandra Ruffino, Vecchiarelli, Roma 2006). Esordisce con un ciclo di affreschi nella chiesa di S. Maria Nuova a Caronno, nel refettorio degli agostiniani di S. Maria della Pace a Milano e in quello, sempre degli agostiniani, a Piacenza; queste ultime sono andate distrutte, mentre sono conservati altri dipinti, tra i quali gli affreschi e la pala d’altare della cappella Foppa nella chiesa di San Marco a Milano. Accanto alla pittura Lomazzo coltiva un’intensa attività di ritrattista, frequenta un’importante cerchia di artisti milanesi e viaggia molto, in Italia e nel Nord Europa, ed è anche collezionista. 

La mostra di Lugano del 1998 (Kahn-Rossi Manuela, Bora Giulio, Porzio Francesco, Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento: L’Accademia della Val di Blenio. Lomazzo e l’ambiente milanese, Skira, Milano) e altri studi recenti hanno ricostruito con precisione la sua carriera di pittore e gli intensi rapporti con gli altri artisti del tempo (Tantardini Lucia, Norris Rebecca (edited by), Lomazzo’s aesthetic principles reflected in the art of his time, Brill, Leiden-Boston 2020). 

Ma l’attività pittorica di Lomazzo si interrompe improvvisamente, all’età di trentatré anni: nel 1572 diventa cieco, non può più dipingere e si dedica, evidentemente aiutato dagli amici, alla scrittura, a fissare sulla carta in ponderosi volumi i principi estetici e i suggerimenti tecnici che danno vita al Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura, pubblicato a Milano nel 1584, e ad altri scritti teorici, ai quali si affiancano le opere bizzarre dei Grotteschi e dei Rabisch, tutti testi pubblicati dopo la morte di Carlo Borromeo nel 1584: Lomazzo e la sua cerchia rimangono appartati nella Milano della Controriforma, esclusi dal grande cantiere del Duomo progettato dall’arcivescovo. Ne è testimonianza proprio la citata Accademia dei Facchini.

Il nostro pittore ne fa parte fin dalla sua costituzione, nel 1560, e ne diventa capo nel 1568. Si tratta di un’accademia nata a emulazione e parodia della vera corporazione dei facchini e altri uomini di fatica che scendevano a Milano dalle valli a nord, tra Lombardia e Svizzera, e vi portavano carichi di legname, di carbone e di marmo, attraccando lungo le alzaie del naviglio grande. La loro parlata aspra, come ci racconta Dante Isella, doveva suonare straniata, barbara e divertente.

Allegre erano anche le loro feste, in particolare quella del mosgett, del piccolo moggio, che recava le offerte dei facchini del rione di Porta Ticinese e veniva condotto al Duomo in processione. In piazza Duomo si svolgeva anche il rito del cavalasc, un grande cavallo di legno, riempito di salumi, capponi, mortadelle, che poi espelleva, come defecando, per la gioia popolare; «lo spettacolo fescennino non dovette piacere al futuro santo ambrosiano; il quale trattenne l’offerta e soppresse il baccanale».

L’Accademia della Vall d’ Bregn (Blenio), di cui Lomazzo era Nabad (abate) con il nome di compà Zavargna, era costituita invece da artisti: pittori, scultori, intagliatori, ricamatori che rivestivano i panni dei facchini e ne simulavano il linguaggio, proponendo riti e cultura nel nome di Bacco, ispirati alle grottesche e agli arabeschi. Ed è proprio merito di Isella averne ricondotto il linguaggio facchinesco non all’artificio, ma al vero dialetto milanese, con qualche tratto ripreso dal dialetto della Valle di Blenio, e di aver fatto dei Rabisch una traduzione in italiano che rende leggibile questo bizzarro testo.

Un altro importante evento della vita di Lomazzo è l’incontro con il nobile mecenate Pirro Visconti Borromeo che fa costruire a Lainate, nella campagna vicino a Milano, tra il 1585 e l’89, un’originale villa di delizie con un ninfeo scenografico: vi collaborano l’architetto Martino Bassi, lo scultore Francesco Brambilla e il pittore Camillo Procaccini. Lomazzo è cieco da tempo, ma diventa presto consigliere di Pirro Visconti (il quale fa anche parte dell’Accademia con il nome di compà Cont ed è dedicatario dei Rabisch) a cui suggerisce le bizzarre visioni di animali fantastici che compaiono nelle grottesche dipinte sui soffitti della villa, i giochi d’acqua e le statue delle grotte nella grande esedra. Milano mostra così il suo volto profano e insofferente ai dettati controriformistici e rivela anche un profilo, per usare l’espressione di Eugenio Battisti, antirinascimentale, che si svolge però fuori città. 

L’attività principale di Lomazzo, dall’insorgere della malattia agli occhi fino alla morte, a Milano nel 1592, è la riflessione estetica, perseguita per decenni, nel buio della cecità. Il tentativo di sistematizzare le conoscenze teoriche, storiche e tecniche in una sorta di enciclopedia universale dell’arte si scontra però con un mondo sempre più sfaccettato, molteplice, inesauribile, restio a ogni sistemazione, come hanno messo in luce tutti gli studiosi di questo autore (cfr. Dorothea Scholl, Von den “Grottesken” zum Grotesken, Die Konstituierung einer Poetik des Grotesken in der italienischen Renaissance, Lit Verlag, Münster 2004; Silvia Maspoli Genetelli Il filosofo e le grottesche: la pluralità dell’esperienza estetica in Montaigne, Lomazzo e Bruno, Antenore, Roma-Padova 2006; per una rassegna degli scritti, cfr. l’articolo di Jean Julia Chai in Lomazzo’s aesthetic principles reflected in the art of his time, cit.).

A questo si aggiunge un tratto psicologico che spinge Lomazzo ad accumulare migliaia di notizie, indicazioni minute e ricordi eruditi, anche se spesso di seconda mano, nella preoccupazione di fissare ed eternare la propria immagine, come nota Alessandra Ruffino e che si intravede anche nel ritratto di Brera. Forse però, più che un desiderio di fama, quest’ansia totalizzante contiene l’esigenza di fissare i ricordi di un mondo variopinto nella paura di dimenticarne le forme e i colori. 

Giovan Paolo Lomazzo, La Vergine con il Bambino, olio su tavola, Chiesa di San Marco, Milano.
Giovan Paolo Lomazzo, La Vergine con il Bambino, olio su tavola, Chiesa di San Marco, Milano.

 

La concezione filosofica di Lomazzo si colloca nella tradizione ermetico-neoplatonica del Cinquecento, si richiama alle teorie di Marsilio Ficino, dell’amico Gerolamo Cardano e di Agrippa da Nettelsheim: la natura viene vista come insieme di segni, di geroglifici, che permettono accostamenti insospettati tra forme lontane delle quali si vuole cogliere l’analogia rivelando relazioni magiche, ad esempio, tra la vita degli uomini e l’influsso dei pianeti, tra i tratti fisiognomici e i caratteri degli animali. Le forme visibili vengono così trasferite in simboli, emblemi, imprese; le grottesche diventano un modello per la pittura e per la letteratura per la quale Lomazzo propone una vera e propria poetica del grottesco.

Il Trattato esamina ampliamente i problemi della giusta proporzione e della prospettiva con un’attenzione minuta alla riproduzione dell’infinita molteplicità del reale e all’approccio percettivo dell’occhio. Il colore assume in questo contesto una collocazione particolare; esso indica non solo il tono cromatico, ma anche la tecnica per la sua stesura, il tocco, comprendendo così anche il chiaroscuro. Il colore, inteso in modo così ampio, permette di caratterizzare la figura dipinta in modo da esprimerne l’individualità: 

[…] cosí se ‘l pittore disegnasse solamente un uomo proporzionato giusto et uguale al naturale, percioché si truovano molti uomini uguali in quantità, di certo per la quantità sola non sarebbe quell’uomo conosciuto; ma oltra il disegno e quantità proporzionata, giusta et uguale aggiunge il color simile, allora dà l’ultima forma e perfezione a la figura e fa sí che ognuno che la vede discerne di qual uomo è […] (Trattato, ed. Ciardi, p. 31)

Il libro III del Trattato, dedicato al colore, inizia proprio con l’affermazione che il colore deve completare il disegno per dar spirito e forza alla pittura, come raccontano le varie leggende antiche che parlano di animali che scambiano i dipinti per la realtà e come dimostra il cane che guasta la pala d’altare di Gaudenzio Ferrari a Cannobio perché in essa, a destra in basso, compare un piccolo cagnolino.

Colore, spiega Lomazzo con una veloce citazione dal De sensu di Aristotele, è «l’estremità della cosa giudicata o visibile in corpo terminato» che passa dalla potenza all’atto per l’azione della luce. Sette, numero mistico per eccellenza per il nostro, sono i colori principali; dai due estremi, il bianco e il nero, sempre secondo la lezione aristotelica mediata dagli scritti di Ludovico Dolce, si originano per mescolanza gli altri cinque: il rosso, il violaceo o pallido, il giallo o croceo, il purpureo e il verde. Questa sorta di premessa teorica viene però presto dimenticata e nella trattazione dei singoli colori prevale l’esperienza pittorica che non può certo riflettere l’idea della generazione dei colori dal bianco e dal nero. 

L’attenzione alle materie in cui si trovano i colori ne rivela da subito la pluralità: così il bianco è gesso, biacca, marmo trito, guscio d’uovo tritato, il giallo è giallolino di fornace di Fiandra e Alemagna, è orpimento e ocra, il turchino è l’oltremare, seguono gli smalti, e il verde che è verderame, verdetto (colorante usato nell’affresco, che deriva dell’alterazione di minerali misti di rame ad acque silicifere), terra verde, verde di barildo, che più avanti scrive barillo, ed è forse il berillo. Poi troviamo il morello di ferro e di sale, il falzalo, la mummia e moltissimi altri che diversamente si confanno all’affresco, all’olio, alla tempera, al pastello, termine che sembra sia citato per la prima volta. L’analisi prosegue nel determinare le amicizie e inimicizie tra i colori, le loro mescolanze, le trasparenze e le cangianze che modificano il colore nella luce e nell’ombra. Ma qui il numero delle combinazioni si infittisce arrivando, secondo l’autore, a 3584 sorti nel primo grado delle mescolanze che però si possono moltiplicare fino ad arrivare a più di centomila.

Con il continuo rischio di perdersi nell’infinità dei particolari, l’analisi del colore prosegue con le osservazioni tradizionali sugli effetti psicologici del colore e una serie di capitoli sui diversi, talora opposti, significati dei colori nella storia, argomenti questi che, più che denunciare l’arcaismo di certe sue concezioni, rivelano la pluralità della sua concezione estetica del colore, come dimostra la conclusione a proposito del significato del nero nella tradizione antica: «finalmente, come dirò nelle significazioni de i colori, il nero e gl’altri colori tutti significano male e bene, secondo che sono disposti come si deve» (p. 178). 

La trattazione del colore viene ripresa nello scritto L’idea del tempio della pittura, pubblicato nel 1590 (edito e commentato da Robert Klein nel 1974 con una traduzione francese). Ispirato all’Idea del teatro di Giulio Camillo, Lomazzo sembra voler fornire un repertorio universale dell’arte pittorica, suddivisa nel pavimento, nelle pareti e nella cupola del tempio immaginato, secondo l’attività dei sette governatori, a loro volta influenzati da sette pianeti: si tratta di Michelangelo Buonarroti, Gaudenzio Ferrari, Polidoro Caldara da Caravaggio, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio, Andrea Mantegna e Tiziano Vecellio.

Per l’arte del colore il primato è concesso a Tiziano, per la sua capacità di rendere il paesaggio, «le grassezze e le tenerezze» delle carni, la diversità delle stoffe e dei metalli e «gli effetti particolarmente d’allegrezza», come in Venere e Adone e nella Danae (pp. 127-129, ed. Klein, vol. I). Ma anche gli altri governatori hanno saputo colorare, anche se in modo assai diverso, ottenendo effetti particolari e rendendo al meglio oggetti ed elementi diversi. A differenza della scultura, la pittura riesce infatti ad esprimere, per mezzo dei colori

l’aurora, il giorno, la sera, la notte, la luce del Sole, il pesce sott’acqua, infino una pentola calda che fuma, il vento che soffia, uno splendore, un diadema, l’ombra sotto il pesce che guizza per l’acqua, causata dal Sole che lo percuote, il neo, e la luce degli occhi, la nebbia, e simili, de’ quali troppo lungo sarebbe il dire. (Ivi, p. 189)

La novità dell’estetica di Lomazzo sta quindi nella pluralità del giudizio, anche se i trattati non sono privi di oscillazioni e contraddizioni, che vanno dall’affermazione di una bellezza accessibile soltanto allo spirito e non agli occhi alla tesi opposta che esalta l’immaginazione e la creatività, le grottesche e il grottesco, la bizzarria e l’invenzione, come nelle pagine che parlano con entusiasmo delle opere capricciose e singolari dell’Arcimboldo. Lomazzo ne descrive le caratteristiche nelle allegorie degli elementi, nelle mutazioni che dissolvono una forma nell’altra, come nel caso della ninfa Flora che pure nell’apparenza di donna è costituita solo di fiori e di fronde, nel richiamo alla metamorfosi, come nel ritratto dell’imperatore Rodolfo II nelle vesti di Vertumno, il dio del mutarsi delle diverse stagioni nell’anno.

Carlo Ossola ha coniato per questo approccio la categoria di varietà come caratteristica estetica e poetica di quello che ha definito «autunno del Rinascimento» che, a suo parere, si rivela anche nell’infinita possibilità di associazione ed evocazione dei colori secondo Lomazzo che anticipa di tre secoli Rimbaud e i futuristi (L’autunno del Rinascimento, Olschki, Firenze 20142, p. 121).

Giuseppe Arcimboldo, Flora, 1589, olio, collezione privata.

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