I colori dello spettro / Bellezza

6 Ottobre 2016

 

 

È la sua fragilità che rende possibile la bellezza. Una parte, quella generativa ed essenziale, della particolare esperienza di bellezza cui accediamo, consiste nella sua vulnerabilità. Non nel senso che il vulnus è un difetto all’origine della bellezza, ma in quanto ne è la condizione costitutiva. Il mondo della bellezza, quel mondo in cui accediamo alla possibilità di connettere in maniera sufficientemente buona il nostro mondo interno con il mondo esterno attraverso l’immaginazione, non è un mondo “perfetto”, “completo”, “definito”: appare piuttosto, ed emerge, dalla imperfezione, dalla fragilità, dalla finitudine, dall’incompletezza. E ci sarebbe da riflettere sugli “in” privativi cui è necessario ricorrere per indicare le condizioni della bellezza; quegli “in” parlano forse della nostra difficoltà ad assumerci la responsabilità di cercarla la bellezza, di assumerla come un progetto e come una nostra possibilità; sembrano parlare dell’angoscia e della paura che sentiamo quando essa si para innanzi a noi. Il mondo della bellezza sembra richiamare prevalentemente le delicate considerazioni di Ettore Sottsass jr. sul proprio universo creativo ed esistenziale: egli parla di un mondo coloratissimo, raffinato, ironico eppure malinconico, fatto di “un po’ di calma, un po’ di silenzio, un po’ di solitudine, un po’ di spavento, un po’ di chissà, un po’ di dolce, un po’ di amaro”, dove trovano spazio anche la fragilità, l’attenzione, l’ambiguità, i dubbi. 

 

 

 

Se la bellezza è in qualche modo associabile al piacere e alla felicità, si è ben oltre i tentativi di perseguire la ricerca della “felicità oggettiva” che da molte parti oggi vengono avanti. Non è difficile accorgersi della problematicità di una definizione come “felicità oggettiva”. Le ricerche empiriche e quelle filosofiche necessitano evidentemente di un dialogo più fecondo sulla questione, in quanto l’analisi sperimentale dell’appagamento non può essere scambiata per la felicità così come essa è vissuta e sentita dagli individui. Innanzitutto perché non è per nulla scontata una definizione condivisa di felicità. Una volta definito un parametro, è necessario domandarsi che effetto fa vivere quel parametro. La definizione delle emozioni e della via per cui le sentiamo, i sentimenti, meritano una maggiore attenzione e più complessi approfondimenti. La ricerca filosofica, nel suo dialogo con la scienza secondo le prospettive di un naturalismo critico, secondo cui la scienza deve avere tra i suoi valori il giusto sviluppo e uno sguardo lungo, ci aiuta a riflettere sulla soglia di noi stessi, quella soglia dove riconosciamo noi stessi mentre ci incontriamo con il mondo e gli altri e con loro dialoghiamo; mentre tendiamo a quello che ancora non c’è, sull’orlo del possibile. 

 

Quella soglia è incerta e impegnativa per noi e risulta, allo stesso tempo, decisamente composta dalla cultura di appartenenza che ne influenza la definizione. È opportuno, in proposito, ad esempio chiedersi come mai nella cultura italiana sia così problematico il rapporto con la bellezza, con la storia, la memoria, l’archeologia, le bellezze naturali, il paesaggio. Abbiamo agito e agiamo tuttora come se la bellezza ci fosse insopportabile. Pare che sia necessario per noi vituperarla e in qualche modo violarla e distruggerla. Tra incomprensione del suo valore, suo utilizzo indiscriminato, e veri e propri stupri, abbiamo collezionato azioni, scelte, operazioni edilizie e utilizzo delle bellezze naturali che non possono non porre interrogativi sulle ragioni profonde di una tale forza distruttiva. Troppo bello, è un’espressione interessante: richiama in qualche modo qualcosa di eccedente la capacità di contenerla; una combinazione tra non conoscenza del valore della bellezza, attrazione selvaggia dell’estetica dei luoghi e dei giacimenti, interessi contrastanti. Sono tante le situazioni in tutto il paese, dove è difficile trovare una spiegazione di quanto è accaduto sul piano della violenza verso il patrimonio artistico e naturale ricorrendo solo a ragioni economiche e di interesse. La cultura e le menti, nel loro fondersi, hanno dato vita ad atteggiamenti e comportamenti o indifferenti o aggressivi e distruttivi che hanno trasformato il volto e l’immagine del paese. Di qualunque cosa si tratti, come emerge da un racconto di rara profondità di Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, essa ha a che fare con l’accessibilità della bellezza e con i vincoli che a quell’accessibilità si frappongono. 

 

Vincenzo Consolo, Le pietra di Pantalica.

 

Sembra, insomma, agire una sproporzione tra uomo e mondo che non si riesce a tollerare o a correggere. Sarebbero le arti e la democrazia, ma soprattutto l’educazione, le vie e gli strumenti più performanti per evolvere e cambiare. Bisognerebbe indirizzare le aspettative e le motivazioni in quella direzione dove la bellezza può aiutare ad estendere il mondo interno e a riconoscere che un contesto sufficientemente bello aumenta non solo la vivibilità del mondo esterno, ma emancipa la vita e la rende più degna di essere vissuta.

 

È proprio a quel livello che si pone la questione della soglia di accessibilità della bellezza. La soglia ha questo di peculiare, che è contingente: è caratterizzata dalla particolare bellezza della contingenza. È come per l’evoluzione della vita stessa. 

 

“Ogni passo procede sulla base di precise ragioni”, scrive, “ma non si può specificare un finale sin dal principio, e nessun finale si verificherebbe mai una seconda volta nello stesso modo, poiché ogni via procede passando per migliaia di fasi improbabili. Se cambia un evento remoto, anche di pochissimo e in un modo privo di alcuna apparente importanza, l’evoluzione imboccherà un canale radicalmente diverso. Questa (…..) possibilità rappresenta né più né meno che l’essenza della storia. Il suo nome è contingenza, e la contingenza è una cosa a sé, non è un’attenuazione del determinismo per opera del caso.” 

 

S. J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia. 

 

La ricerca della bellezza possiamo alfine intenderla come un sentimento particolarmente compiuto di risonanza incarnata che confermi o estenda il modello neurofenomenologico del sé, la propriocezione e il modo di essere e sentirsi. Così pare emerga, si presenti e sentiamo la bellezza. La stessa dinamica corporea e psichica può generare esperienze del terrore e dell’orrore se quelle esperienze minacciano o pregiudicano quel modello.

 

L’esperienza dinamica delle forme vitali ci mette in condizioni di avere a disposizione questa possibilità, come mostra anche D. Stern nel libro Le forme vitali, pubblicato da Raffaello Cortina Editore, analizzando i processi di arousal, cioè di attivazione o innesco, come decisivi della creatività delle forme vitali umane, Stern scrive:

 

“Molti hanno ipotizzato che l’esperienza emotiva finale (ciò che diciamo di provare) sia il risultato di molteplici processi simultanei e in sequenza, regolati da diversi fattori: arousal fisiologico, attivazione neurologica, processi attentivi, valutazioni edoniche, contesto sociale, influenze culturali, tendenze comportamentali di ‘base’, esperienze passate e così via” [p. 58]. 

 

Che cosa può favorire l’elaborazione dei vincoli e l’abbassamento delle soglie di accessibilità alla bellezza e, quindi, all’emancipazione e all’autorealizzazione?

 

È forse la minaccia alla vivibilità dell’oikos di Homo; minaccia di una catastrofe non solo possibile ma probabile, che potrebbe abbassare le soglie dell’accessibilità alla bellezza. Potrebbe dar vita all’origine di un nuovo mito che intrecci il discorso sulla tensione verticale dell’essere umano con quello sui limiti della capacità umana di vedere e prevedere attraverso le tecniche; mito che potrebbe indurre a ripensare lo spazio della politica e della paideia nelle relazioni umane.

 

Se la creatività umana e l’accesso alla bellezza sono possibili in ragione della peculiare plasticità del cervello, sembra che proprio la natura incarnata della mente, che consente forti allontanamenti dalle basi naturali, ponga allo stesso tempo dei vincoli che segnano i confini della creatività possibile. Lo spazio della creatività pare avere per ciò stesso dei limiti che, se superati, o angosciano o vanificano la creatività, rendendo non riconoscibile la possibilità di accesso alla bellezza dei suoi esiti. Oltre ad approfondire i rapporti tra creatività e bellezza, come vie per una elaborazione sufficientemente buona della propria individuazione, appare necessario studiare i confini della creatività possibile. Sarà importante per comprendere i vincoli ad elaborare le soglie dell’espressione delle proprie possibilità generative e della propria accessibilità alla bellezza, in una parola, della cura di sé e degli altri. La politica come arte del possibile deve alla bellezza la sua stessa concepibilità e ognuno di noi, rischiando o meno la ricerca della bellezza, è responsabile del proprio futuro. 

 

L'uomo della poiesis è e può essere, quindi, un creatore che assume un potere divino creativo; una scoperta in un'avventura generativa. Così fu per il rinascimento: un tempo di significativa espressione della bellezza e della centralità dell’uomo. 

 

In epoca moderna, il pensiero filosofico si sviluppa in una dicotomia profonda: il sacro è completamente distinto dal profano; quindi, la bellezza è riconosciuta nei due termini esistenziali: l'oggetto del positivismo, che diviene occasione della bellezza estetica, il visibile che sta fuori, la natura fisica, la bella forma in sé stessa; il soggetto, che vive un'esperienza bella ma soprattutto buona, cioè un gaudium interiore, un piacere. 

 

In entrambi i casi, è andata perduta l'essenza della bellezza come "simbolo", che connette il “dentro” e il “fuori”, come espressione di un'ombra ineffabile, che può però essere condivisa, comunicata appunto con forma simbolica, di bella misura. Ne consegue la brutta arte dei canoni, di una maniera, e l'arte decomposta dell'onirico, più spesso terrifica che buona; la morte della bellezza nella forma prima conosciuta. 

 

Il concetto della bellezza è invece il nucleo delle grandi opere della poesia e dell'arte. Dante racconta un viaggio intimo e immaginario che si conclude nella "visione mistica" e nella conoscenza. Goethe racconta della ricerca di Faust del momento in cui godere dell' estasi: "fermati sei bello". Mozart esprime la sua esperienza della bellezza nella composizione armonica delle sue sinfonie: il "gaudio nella musica" di bella misura. 

 

Michelangelo fissa le sue visioni nell'ordine delle sue strutture figurative, fra lo schema del non finito e la pulitura delle forme perfette, comunque "opere di giuste misure". Il concetto della bellezza, infine, emerge anche negli ultimi pensieri degli psicoanalisti, fra i fantasmi delle angosce della psiche. Spitz ha identificato il primo segno del fascino della bellezza nel sorriso del bambino di fronte all'atto della madre, alla sua immagine, al suo canto melodico; letteralmente un piacere che scorre di sotto, nel subconscio. Meltzer ha riconosciuto le origini infantili dell'angoscia, indicando l'esperienza della bellezza come essenziale per la costruzione della mente: essa esercita un fascino che attira fuori dal vissuto, che apre e orienta il sé verso l'altro e il mondo; quindi è all'origine della condivisione empatica e della comunicazione simbolica. 

 

Winnicott individua la bellezza nell'esperienza di specchio materno, che ha due connotazioni che possono essere sinteticamente espresse: "io sono la tua bella e buona madre per te", che reifica un recupero della separazione originaria; "tu sei il mio bambino bello", che reifica il compimento narcisistico, che fonda la prima struttura simbolica dell'individuazione. 

Così Gaston Bachelard indica nell'attività immaginativa, che diviene matrice delle creazioni simboliche, l'essenza e la fondazione della struttura mentale e quindi la via privilegiata per gli interventi psicoterapici. Quindi, l'immaginazione del gioco infantile, del ludus, del piacere creativo divengono il setting fondamentale della cura. In effetti, la bellezza è sommamente riconosciuta e condivisa nelle opere d'arte che realizzano le categorie del doppio, del sottinteso che si intuisce come un'allusione, del piacere di un ludus: il bello è piacevole, sorprendente, compie chi ne fa esperienza, si esprime nel sorriso. Perciò il sorriso è spesso il segno dell'esperienza del bello: il sorriso dell'artista che produce qualcosa che lui stesso non aveva voluto ma che appare compiuto; il sorriso trasfuso nelle figure, come nelle statue dei kouroi greci, nella Gioconda di Leonardo, nelle figure dei principi regali, nelle belle di Renoir. 

 

Infine, si può ben dire che l'esperienza della bellezza è fondamentale e costituisce un valore che porta vicino alla compiutezza e alla pienezza, nel momento in cui riesce ad essere presente in tutte le attività, le relazioni, i pensieri dell'uomo. 

 

A proposito di accessibilità alla bellezza come via per l’estensione e il sentimento di libertà di ognuno, oggi non si può non considerare le forme ancora più efficaci di soggettivazione e sottomissione, che creano un nuovo clima culturale in cui si ridefiniscono i vincoli e le possibilità di vivere la bellezza come risonanza sufficientemente compiuta tra essere umano e mondo. Occupandosi di crisi della libertà, Byung-Chul Han in Psicopolitica, infatti, scrive:

 

“L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione” [p. 9]. E aggiunge: “Il soggetto di prestazione che si crede libero è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone” [p. 10]. Dopodiché contestualizza l’analisi: “Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. (…) Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento” [p. 11]. 

 

 

Byung-Chul Han, Psicopolitica. 

 

Se il contesto vincola, e vincola, e i nostri margini sono limitati, la soglia della bellezza pare angusta. Eppure la bellezza emerge e perdura, ci estende ed emancipa, e combina estetica ed etica. A noi il compito di darle spazio, secondo l’indicazione di Iosif Brodskij. Le pagine sono quelle di Un volto non comune preparate in occasione del discorso per il Premio Nobel conferitogli nel 1987, dove si può apprezzare, tra l’altro, il recupero del concetto di estetica in un periodo che non aveva ancora del tutto smaltito l’ubriacatura nei confronti del dogmatismo ideologico ereditato dai decenni precedenti: "Ogni nuova realtà estetica è la madre dell’etica. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di "buono" e "cattivo" sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del "bene" e del "male". In etica non "tutto è permesso" proprio perché non "tutto è permesso" in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato".

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