Per la vivibilità del pianeta / Creare un mondo di molti mondi

23 Febbraio 2020

“Il nostro obiettivo è capire come il mondo si stia muovendo di fronte a una congiuntura necessaria, che non è altro che il prodotto di una contingenza”. Se la contingenza è la crisi ambientale e climatica, come ci stiamo muovendo in questa situazione che ci pone di fronte a una necessità di agire? Ovvero, disponiamo di una teoria e di una prassi politica del nostro futuro planetario? Queste sono le domande da cui prendono le mosse Geoff Mann e Joel Wainwright in un libro che ci riguarda tutti e sollecita le nostre responsabilità rispetto alle profonde trasformazioni in corso negli ambienti delle nostre vite, [Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, Treccani, Roma 2019, edizione originale 2018].

 

Il contenuto del libro è così documentato e stringente da sollecitare in noi un cambiamento di posizione e prospettiva: da una posizione e un atteggiamento da padroni e spettatori sul pianeta Terra, a un’assunzione di responsabilità come attori coinvolti, complici e principali soggetti della crisi in corso. Quando Nietzsche, in Genealogia della morale, § 6, deve fare i conti con l’idea kantiana del bello associata al buono, mette in campo proprio l’esigenza di andare oltre il cosiddetto piacere estetico disinteressato, per giungere a richiamare la centralità dell’esperienza personale dell’artista, cioè del creatore, il suo interesse e la sua responsabilità. Solo se dismetteremo la posizione di padroni e spettatori potremo mobilitare e potenziare i valori vitali necessari a sviluppare una teoria e una prassi politica del cambiamento climatico. Soprattutto perché “la teoria politica che si occupa di queste istanze è parecchio indietro rispetto alla chimica atmosferica e all’oceanografia fisica” [p. 13]. Le conseguenze politiche del cambiamento climatico sono da analizzare almeno con la stessa attenzione con cui si cercano azioni di mitigazione su grande e piccola scala, in quanto l’ambiente globale radicalmente mutato che la scienza climatica lascia prefigurare avrà un impatto enorme sul modo in cui la vita umana è organizzata sul pianeta Terra. Gli autori del libro sono direttamente impegnati e coinvolti nella questione e lo stile e la posizione determinata con cui documentano il testo sono del tutto eloquenti. Geoff Mann, infatti, è Direttore del Centre for Global Political Economy alla Simon Fraser University, in Canada, dove insegna, ed è specializzato in rapporti economico-politici tra Stato e crisi ecologica. Joel Wainwright è professore di geografia alla Ohio State University e conduce ricerche sul rapporto tra economia politica, teoria sociale e cambiamento ambientale. I contenuti del libro mostrano con evidenza che non è vero che non ci sono risposte in atto alla crisi climatica. È possibile constatare risposte dirette e indirette che stanno effettivamente cambiando il mondo.

 

Quelle dirette riguardano tutte le azioni di autotutela che le parti più ricche e potenti, spesso numericamente molto contenute della popolazione mondiale, stanno mettendo in atto per salvaguardare i propri privilegi. Le indirette sono documentate ampiamente dalla crescente disuguaglianza che si manifesta nel mondo e che si esprime nella concentrazione del reddito e della ricchezza disponibili e nell’impoverimento progressivo con le migrazioni di massa dovute principalmente alla crisi climatica e alla desertificazione. Continue ondate migratorie aprono scenari a cui non eravamo preparati, e paiono il preludio a esodi di interi popoli. Le aree dove questi sommovimenti si originano hanno tutte qualcosa in comune: il clima che cambia, il deserto che avanza e che sottrae terreno alle colture mettendo in ginocchio le economie locali. "A tre anni dalla prima edizione di questo libro" osservano gli autori del libro Effetto serra. Effetto guerra, pubblicato ora da Chiarelettere, G. Mastrojeni e A. Pasini, nella nuova introduzione, "è per noi una magra consolazione trovare conferma delle dinamiche preoccupanti su cui avevamo cercato di attirare l'attenzione". Il cambiamento climatico contribuisce al disagio e all'aumento della povertà di intere popolazioni, esposte più facilmente ai richiami del terrorismo e del fanatismo. In tutto questo, l'Italia è in prima linea: lo sanno bene a Lampedusa. Gli autori sono un climatologo e un diplomatico che giungono alle stesse conclusioni: se abbandoniamo i più poveri al loro destino non solo facciamo finta di non capire ciò che ci insegnano la moderna scienza del clima e l'analisi geopolitica - che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi sono interconnessi e hanno una dinamica globale -, ma lasciamo crescere un bubbone di conflittualità che prima o poi raggiungerà anche noi; i primi migranti del clima lo sanno bene. Prendere coscienza dei rischi di un clima impazzito è la sola condizione che può favorire un'operazione di pace, integrazione e giustizia di portata inedita.

 

 

Condizione per accedere a orientamenti e comportamenti diversi è la conoscenza necessaria degli effetti dell’antropizzazione massiccia del pianeta che si è verificata in maniera progressiva da circa dodicimila anni a questa parte. Mentre abbiamo sviluppato tecnologie sempre più potenti e capaci, aumentando le nostre prestazioni fisiche e mentali, abbiamo piegato l’ecosistema ai nostri bisogni alimentari, di movimento, e per soddisfare le nostre ambizioni di dominio e di potere. Secondo una puntuale e lucida analisi realizzata da tre studiosi italiani, Paolo Vineis, Luca Carra e Roberto Cingolani [nel libro Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica, Einaudi, Torino 2020], mentre tutto ciò ha indubbiamente migliorato la qualità della vita di noi umani, ha generato tre debiti. Un debito è quello economico e sociale, noto e sotto gli occhi di tutti. Quel debito si esprime soprattutto in disuguaglianze sociali che non riguardano solo le condizioni socioeconomiche ma coinvolgono la speranza di vita. Soprattutto perché le disuguaglianze nella salute iniziano fin dalla prima infanzia e si protraggono per tutto il resto della vita. I dati di ricerca mostrano l’azione di meccanismi epigenetici di regolazione da parte dell’ambiente del funzionamento dei geni. “Nel complesso queste ricerche suggeriscono che esiste una transizione dal sociale al biologico che va al di là dei fattori di rischio comportamentali” (p. 59). Nelle situazioni di impoverimento, di gravi disuguaglianze, di marginalità, per ragioni epigenetiche, riguardanti l’incidenza di fattori ambientali sui geni, si producono alterazioni e accelerazioni dell’età, in quanto fattori chimici ambientali alterano il rapporto fra età anagrafica e età biologica, peggiorandolo. L’ambiente interagisce con la biologia, “penetra sotto la pelle, ‘si incorpora’”.

 

 

Le strette connessioni tra il debito socioeconomico e l’altro debito, quello ambientale, riguardano ormai ogni ambito della nostra vita e le alterazioni che si sono prodotte e si producono ad ogni livello. Viviamo in un pianeta affollato in cui la nostra specie è sempre più energivora. Il confronto fra le dinamiche in corso e i risultati delle ricerche che provano a stabilire i limiti dello sviluppo che sarebbero necessari, evidenzia progressive problematicità. Un caso emblematico è quello della teoria dei confini planetari, elaborata nel 2009 con una ricerca pubblicata da “Nature”, svolta da un gruppo di studiosi guidato da Johan Rockström, che ora dirige il Resilience Centre di Stoccolma. Quella teoria si propone di definire uno “spazio operativo sicuro” in cui poter agire senza compromettere il futuro del pianeta. Certamente una delle compromissioni più evidenti di quello spazio è l’emissione di gas serra. Un dato tra i tanti, può forse aiutarci a comprendere meglio la portata del problema: i mammiferi sul pianeta costituiscono una biomassa in carbonio di soli 7 milioni di tonnellate; contro i 100 milioni di tonnellate degli animali da allevamento, e i 60 milioni di tonnellate di umani. “La massa della plastica prodotta all’anno nel pianeta è di 300 milioni di tonnellate, il che dà un’idea della portata dei problemi: «big data» forse, ma anche «big problem». Insomma, è evidente che Homo sapiens – un peso mosca rispetto a piante e microrganismi – ha colonizzato estesamente il pianeta e imposto il proprio dominio sulla Natura” (p. 4). È il debito mentale, probabilmente, quello a cui si riconducono tutte le questioni climatiche e ambientali, di prevenzione e di rischio. In una parola la criticità complessiva si riconduce ai paesaggi della nostra mente. Senza ubbidire a un’eccessiva deformazione professionale, in base a molteplici verifiche e analisi sui vincoli e le resistenze a cambiare idea e comportamenti riguardo alla vivibilità sul pianeta per Homo sapiens, pare che siano proprio i paesaggi della mente a costituire il principale vincolo, mentre, ovviamente, sono la principale possibilità.

 

Alle tradizionali forme di resistenza a cambiare, si aggiungono oggi i vincoli derivanti dalle psicopatologie derivanti dall’uso quotidiano della rete e dei social. Per ora, a prevalere, sono gli effetti disorientanti dell’infosfera (cfr. U. Morelli, Infosfera tra conoscenza e libertà. Facebook, copiare gli altri). Il debito mentale ha a che fare principalmente con il depotenziamento delle identità dei soggetti connessi e, allo stesso tempo, con l’ipersollecitazione dei sistemi digitali per scopi prevalentemente commerciali e politici, confinando adolescenti e adulti nel conformismo delle «camere dell’eco» (p. 83). Recuperando un’espressione di particolare importanza di Gregory Bateson, che era anche il titolo di un suo importante libro [Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977], gli autori sostengono che “L’ecologia della mente dovrà promuovere il bene pubblico dell’infosfera, aumentando il grado di «infodiversità», proprio come si fa – o si dovrebbe fare con gli ecosistemi.” (p. 83). La cosiddetta robotica sociale e l’intelligenza artificiale possono essere orientate a trasformare la tecnologia da potenziale acceleratore patologico a supporto essenziale per la cura delle malattie dell’anima. Inevitabile a questo punto è porsi una domanda: siamo nella condizione di essere preparati ad affrontare i tre debiti considerati? O, per dirla con Mann e Wainwright, siamo in grado di “creare qualcosa di nuovo”, perché “continuare sulla stessa strada non è un’opzione che possiamo considerare”? (p. 306). Sarebbe necessaria quella “coscienza enorme” di marxiana memoria [K. Marx, Grundrisse, Einaudi, Torino 1976; p. 441] per muoversi collettivamente nel riorientare molti aspetti dello status economico, tecnologico, ambientale.

 

Per ora l’umanità sembra divisa in due fazioni: da un lato la ricerca scientifica che segnala i problemi, li evidenzia e poco si occupa dell’adeguata divulgazione dei risultati, delle resistenze e difese, e di come rendere efficace la comunicazione e l’educazione. Dall’altro lato, molto più della scienza funziona un “naturalismo magico” che si affida all’omeopatia, all’agricoltura biodinamica o ad altre simili e irresistibili soluzioni. Considerando il Rapporto Rockefeller sulla salute planetaria, come fanno Vineis, Carra e Cingolani, vi sono tre deficit con cui facciamo i conti, che ci rendono ancora carenti nell’affrontare questi problemi complessi: un deficit d’immaginazione (stiamo ancora misurando la salute del pianeta con il Pil); un deficit di conoscenza (incapacità ad esempio di fare buona ricerca interdisciplinare); un deficit di implementazione (strumenti di governance inadeguati) (p. 84). Tutti e tre questi deficit si ravvisano con evidenza in un’analisi di particolare lucidità riguardante un evento catastrofico come Vaia, la tempesta che ha coinvolto i territori dolomitici, in Italia. Diego Cason e Michele Nardelli conducono un approfondimento appassionato sul messaggio di Vaia. Si tratta di un monito principalmente per la nostra mente e il nostro comportamento, per noi che mostriamo di avere “sguardo miope e memoria corta” (p. 50). Il titolo del libro, Il monito della ninfea [Lineagrafica Bertelli editori, Trento 2020], è ispirato a una riflessione di Remo Bodei, in quel piccolo importante libro che è Limite [Il Mulino, Bologna 2016]. Scrive, infatti, Bodei: «... resta pur sempre valido il monito espresso dall’immagine della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che, il giorno che precede la copertura dell’intera superficie dello stagno la metà ne resta ancora scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all’imminenza della catastrofe».

 

Gianfranco Bettin, nella prefazione, associa Vaia alla recente crisi dell’acqua alta a Venezia e sottolinea la rilevanza del libro come “un affascinante quadro delle culture che si scontrano sulla scena del mondo attuale, la dissipativa, estrattiva, arrogante e incurante che è all’origine della crisi ambientale e climatica e del dissesto degli ecosistemi e la ricca, complessa, articolata, stratificata e decentrata cultura fatta di saperi radicati nei luoghi, di pratiche sviluppate per tentativi e osservazioni lungo i millenni, che dell’equilibrio con la “casa” comune, e al suo interno, ha fatto sempre il proprio centro (il proprio cuore e il proprio cervello). Una lotta che, in particolare da due secoli, vede prevalere la prima di queste opzioni, potente e priva di lungimiranza, schiacciata sull’interesse breve, sul calcolo ottuso, predatorio. Una cultura che decide, legifera, pianifica. Che plasma il mondo; cioè, in realtà, la sua superficie, lo strato sottile in cui viviamo, ognuno nel nostro microcosmo, ognuno connesso – spesso senza neppure sospettarlo – agli effetti d’area vasta e a quelli globali di ciò che avviene, di ciò che produciamo, negli spazi circoscritti del nostro quotidiano”.

 


 

Evidenziando le responsabilità umane, gli autori considerano il modo in cui le condizioni naturali si combinano con le scelte e i comportamenti. Emerge così, nel caso di Vaia, il rapporto tra le condizioni meteo e la struttura e composizione dei boschi, e quello tra la topografia dei luoghi e le pratiche colturali forestali. Del resto, quella dell’incidenza delle scelte e dei comportamenti umani è una questione che fino a un certo punto è stata dibattuta, nel tentativo di ricondurre a fattori naturali quello che accade, assolvendo l’azione dell’uomo. Si tratta di una tendenza alla deresponsabilizzazione che, insieme al negazionismo e alla dissolvenza rapida delle emozioni provocate dalle catastrofi, è tra le principali ragioni della nostra difficoltà a cambiare idea sulla crisi ambientale e climatica e sulla perdita di biodiversità. Eppure oggi sappiamo con evidenza non falsificata, come emerge dagli studi di molteplici centri di ricerca internazionali, che l’azione umana è al centro delle cause della crisi in corso; sappiamo altresì che agisce in noi un processo sistematico e costante di dissolvenza della compassione (compassion fade) che ci porta a normalizzare qualsiasi discontinuità e ad assuefarci, facendo prevalere la forza dell’abitudine; sappiamo, inoltre, che tendiamo a rinviare alle responsabilità di altri e non alle nostre, le cause della crisi, rinunciando così all’azione principale per affrontare i problemi, che è quella politica. Come sostengono Mann e Wainwright, “la priorità dev’essere organizzare una rapida riduzione delle emissioni di carbonio attraverso un’opera collettiva di sciopero e boicottaggio. Utopia? Probabile, ma non è necessariamente così. Stiamo parlando della X climatica (dell’incognita climatica) e qualunque forma assuma ha lo straordinario merito di essere del tutto necessaria. Dobbiamo creare qualcosa di nuovo. Continuare sulla stessa strada non è un’opzione che possiamo considerare” (p. 306). Appare evidente, infatti, che un certo keinesianesimo verde pallido, la finanza climatica, e le politiche elitarie di adattamento, che finiscono per tutelare i privilegi dei garantiti facendo pagare i costi della crisi ambientale a chi dai vantaggi del modello di sviluppo dominante non ha tratto alcun vantaggio, non possono più essere la priorità. Si configurano oggi come dissipatori di energia utile e necessaria al cambiamento. Come appare ad ogni evidenza, non siamo di fronte a un problema qualsiasi, ma un problema globale e controverso per il quale non esistono soluzioni univoche e lineari e, soprattutto, non abbiamo attrezzature conoscitive e metodologiche già disponibili. Allo stesso tempo, come argomentano Cason e Nardelli, nulla è più incerto del nostro destino. Forse proprio la convinzione di essere in un destino è, alla fine, uno dei principali vincoli. Non esiste alcun destino già scritto. Siamo noi a procurarci certi esiti con le nostre scelte e i nostri comportamenti, e questo vale anche per il modello di sviluppo che più o meno consapevolmente abbiamo creato. Il peso del turismo, così come è oggi organizzato, sulle Alpi dolomitiche o a Venezia, è il risultato di un certo modello di sviluppo e delle difficoltà a riconoscerne i limiti. Anche quando quegli stessi limiti rischiano di mettere in discussione le stesse possibilità di continuare a praticare quelle attività economiche così come sono state impostate, in quanto l’uso indiscriminato delle risorse, senza preoccuparsi di tutelarne la riproducibilità, finisce per essere autodistruttivo. Il nostro modo di considerare gli alberi e di collocarli nelle nostre prospettive di vita, nella maggior parte dei casi mostra di non tenere conto dell’interdipendenza tra noi e loro e della necessità che abbiamo di loro per vivere.

 

Senza per questo giungere a una “religione” degli alberi o di altre componenti della natura di cui siamo parte. Molto opportunamente, nella parte conclusiva del loro lavoro, Cason e Nardelli richiamano il contributo anticipatore di Nicholas Georgescu Roegen [Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino 1998] che nel 1973, insieme a non pochi economisti, aveva posto la questione fondamentale di fornire agli studi economici un paradigma biologico evolutivo, uscendo dal determinismo meccanicistico. 

L’analisi delle condizioni di sostenibilità e la proposta di sviluppare una cultura del limite sono senz’altro processi necessari da attivare su larga scala. A fare da fattore critico fondamentale è, secondo la serrata analisi di Mann e Wainwright, l’azione politica. A partire dalla considerazione che non possiamo sostenere che non vi siano e non vi siano decisioni in corso riguardo all’ambiente, alla crisi delle risorse e alle questioni climatiche. Si tratta di questioni eccezionali e l’atto di decidere l’eccezione – determinare cioè cosa costituisca una crisi e cosa no – è il modo a cui ricorre chi dispone della sovranità in un dato periodo storico. Ciò accade, come ha sostenuto chiaramente Giorgio Agamben, persino nelle forme di governo democratiche e nazional-popolari. “Come nel caso di alcune guerre civili, il cambiamento climatico comporta problemi politici per i quali l’ordine corrente non ha risposta. Come Hobbes, stiamo vivendo un periodo in cui la concezione immanente ed egemonica del mondo richiede l’emergere di un nuovo tipo di sovrano, un nuovo ordine che però ancora non può essere realizzato” (Mann e Wainwright, p. 44). È stato Antonio Gramsci a identificare con essenzialità la dinamica di una crisi: 

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” [Quaderni dal carcere, 3, (XX) § 34].

 

I cambiamenti nella geografia politica mondiale stanno generando, in risposta alla crisi delle risorse, alla crisi energetica mondiale e alla crisi climatica, almeno due sviluppi significativi. I “vincitori” di questo gioco geopolitico, che già oggi sono le nazioni più potenti del mondo, aumenteranno il proprio potere attraverso la concentrazione delle risorse energetiche e militari. Già oggi Stati Uniti e Cina hanno sviluppato le più imponenti industrie di fracking (estrazione di idrocarburi mediante l’uso dell’acqua per scopi di pressione), e dispongono dei più importanti giacimenti di gas da argille (shale gas). Il secondo sviluppo significativo riguarda il fatto che il fracking e i processi estrattivi connessi comportano consumo di carbonio in misura di gran lunga superiore alla trivellazione del petrolio saudita. Nel frattempo, la concentrazione delle risorse energetiche aumenta e con essa la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e delle opportunità di vita. Si arriva addirittura a concepire, a fronte dello scenario di progressiva ed esponenziale combinazione tra disuguaglianza e distruzione degli ambienti di vita, la creazione di “oasi di opulenza” permanentemente verdi e recintate su un pianeta altrimenti derelitto. L’ipotesi che Mann e Wainwright formulano, a proposito politico economico futuro e dell’ordine della forma che può assumere il potere negli scenari globali di risposta alla crisi ambientale, energetica e climatica, è basata su due traiettorie. La prima dipende dalla possibilità che la formazione economica dominante continui o no ad essere capitalistica. La seconda riguarda la possibilità che emerga una forma di sovranità planetaria organica, cioè che la sovranità venga o meno ricostituita con l’obiettivo di una gestione planetaria. La combinazione fra le due traiettorie può dar vita, in base al modello di Mann e Wainwright, a quattro possibilità: un Leviatano climatico capitalista; un Mao climatico, statalista e anticapitalista; un Behemoth reazionario e anticapitalista; una X climatica, anticapitalista e antisovrana. “La nostra tesi”, scrivono gli autori, “è che il futuro del mondo sarà definito da queste quattro forme”, nonché dai conflitti tra loro. “Ciò non significa che la politica futura sarà determinata interamente e unicamente dal clima, ma piuttosto che la sfida del cambiamento climatico è talmente cruciale per l’ordine globale che le complesse e svariate reazioni che comporterà riconfigureranno il mondo lungo una di queste traiettorie. Come minimo, l’attuale egemonia della democrazia capitalista liberale non può essere data per certa.” (p. 53). 

 

L’incertezza rispetto al futuro non può essere risolta neppure dalla prevalenza della versione più auspicabile tra quelle previste dagli autori, come loro stessi sostengono. La stessa X climatica, infatti, dipenderà, nella su evoluzione possibile, da almeno tre principi ritenuti essenziali. Il primo è l’uguaglianza. Durante il ventesimo secolo il principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani è divenuto appannaggio del liberalismo e “la richiesta di riscatto dice che possiamo riaverla indietro, ma solo se rinunciamo a opporci al capitalismo.” (p. 309). “Questo non possiamo farlo.” La rivendicazione dell’uguaglianza umana si traduce necessariamente in critica del capitale. “Se davvero siamo uguali, allora la Terra appartiene a tutti”. Il secondo principio è l’inclusione e la dignità di tutti. “La democrazia non è la regola della maggioranza e ha ben poco a che fare con il voto. Piuttosto esiste nella misura in cui chiunque ha l’ipotetica facoltà di governare, nonché di elaborare risposte alle istanze collettive.” (p. 311). Il terzo principio è la solidarietà, volto a creare un mondo di molti mondi. È necessario contrastare il principio secondo il quale, per salvare la vita sulla Terra, molte comunità e molti modi di vivere andranno perduti, proponendo questo come un sacrificio necessario e inevitabile. Il principio di solidarietà è il solo che può trovare le vie perché le preoccupazioni planetarie convivano e coevolvano con quelle delle varie comunità e dei vari popoli che abitano il pianeta.

La via per comporre vivibilità e giustizia sociale Mann e Wainwright la cercano avvalendosi con profondità e cura delle indicazioni di Antonio Gramsci e, in particolare, la sua ricerca delle condizioni per superare la clausola di esclusione liberale che separa l’umano dal non umano. “Gramsci ci ricorda senza indugi che ogni volta in cui ci si confronta con la questione del politico si solleva il problema della ‘unità della storia e della natura’ [Quaderni dal carcere, Quaderno 4, (XIII), § 45]” (p. 152). “Siamo messi di fronte alla consapevolezza – il cambiamento climatico ne è un esempio perfetto – che domandarsi cosa fa accadere la storia significa anche domandarsi cosa fa accadere la natura” (p. 152). 

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