Rifondare la saga / Il mondo capovolto di The Batman

7 Aprile 2022

C’è un’inquadratura in The Batman, visibile anche nel trailer, già diventata cult. Al termine di un inseguimento per le strade di Gotham che – per ritmo e iperrealismo – sembra uscito da un poliziesco, la batmobile, definita da un design molto concreto e poco futuribile, sperona la macchina guidata da Oswald Copplebot, il Pinguino, il mafioso interpretato da un irriconoscibile Colin Farrell, e la fa ribaltare. A questo punto, come spesso accade nel film, veniamo “incastrati” nella soggettiva del villain: il mondo ci appare capovolto e il cavaliere oscuro, a testa in giù, si avvicina minaccioso nel frame ribaltato, sullo sfondo di una città in fiamme, accompagnato dalla poderosa marcia funebre di Michael Giacchino. È facilmente l’inquadratura che rimane maggiormente in testa di tutto il film, ma al di là della sua efficacia estetica essa sembra dire che le coordinate del genere cinecomic sono qui violentemente ribaltate e reinventate, senza multiversi e invasioni aliene. In altre parole, The Batman è un oggetto culturale meno posizionato all’interno del mondo DC e più brutalmente calato nella contingenza storica. In questo scenario, non c’è altra via se non quella di smantellare e interrogare il concetto stesso di supereroe.

 

 

L’interrogazione può partire provocatoriamente dal titolo: “The” Batman, con l’articolo davanti, come se questo film fosse “l’unico” Batman possibile in questi sciagurati tempi e la sola via sensata alla ri-narrazione della saga dell’uomo pipistrello. Una rifondazione che passa soprattutto dalla costruzione di uno sguardo e di un tono cupi e realistici, che fanno tesoro di quanto di buono c’era nell’operazione (sopravvalutata) del Joker di Todd Phillips, per declinarla in modo più saggio e consapevole. Non è, quindi, tanto la necessità di aggiornare il franchise rispetto agli ultimi controversi tentativi dell’era Snyder a guidare l’operazione, quanto la volontà di adeguarlo al mondo, che nel frattempo si è letteralmente capovolto. E in questo capovolgimento, l’idea del supereroe è diventata assai problematica e delicata. Posto che il vigilante è per definizione colui che presume di saper distinguere il bene dal male, un moralista che agisce sopra la morale sulla scorta di uno sguardo univoco e mai ambiguo, che usa la paura come arma e che vegliando paternalisticamente sul popolo lo rassicura e lo tranquillizza, forse, nel mondo complesso della pandemia, dell’assalto a Capitol Hill e del fantasma incombente della terza guerra mondiale, il suo sguardo è eticamente “fuori luogo”, segnato da una sorta di impossibilità, quella di rimanere “uno”, saldo e composto davanti alla complessità ingovernabile.

 

Nell’incipit del film risuona proprio questa rottura. Sul sottofondo straniante dell’Ave Maria di Schubert, entriamo nella storia aderendo alla soggettiva di “qualcuno” che sta osservando con un binocolo una villa lussuosa. Le coordinate pre-testuali di cui siamo in possesso ci suggeriscono che il “soggetto scopico” con cui coincidiamo non può che essere Batman, cioè colui che vigila sulla città corrotta. Un respiro faticoso, mescolato alla musica sacra, fa da elemento di disturbo, ma in fondo non ci badiamo, perché la nostra impressione si rafforza grazie a ciò che accade poco dopo: in una delle eleganti stanze di quella casa, una figura vestita di rosso, una specie di ninja, uccide con una spada un uomo. Un delitto, quindi, osservato dallo sguardo onnisciente del vendicatore. Invece no. Invece le certezze che cogliamo in quella sequenza si sgretolano subito: il delitto è una messinscena, l’assassino è un bambino intento a giocare con il suo travestimento di Halloween, la vittima è un padre che lo stava assecondando nel gioco. Dopo averci fatto quindi comprendere che chi guarda è “un altro”, un soggetto interessato a spiare quello che poco dopo apprendiamo essere il sindaco di Gotham, la soggettiva si rompe, e il delitto stavolta avviene davvero, e ci è chiaro che l’assassino è proprio colui al cui sguardo abbiamo inizialmente abboccato. L’omicidio è brutale e selvaggio, articolato in una messinscena da crime movie molto realistico, ma ciò che ci colpisce è che la certezza dello sguardo-che-vigila è immediatamente spazzata via da questo folgorante inizio.

 

La sequenza successiva è altrettanto importante, perché segna l’entrata nella storia dell’uomo pipistrello. Anche in questo caso, le coordinate narrative sono sorprendenti. Siamo nel mondo DC, ma c’è una voce fuori campo da hard boiled che accompagna le riflessioni del protagonista. C’è un diario, un libretto intitolato “The Gotham Project – Year 2”, che ci dice che “il vigilante” è solo un progetto all’inizio e in divenire. E poi c’è il Bruce Wayne di Robert Pattinson, che è un personaggio severo, che registra i suoi pensieri interiori in diari scritti a mano come uno degli eroi disagiati e afflitti dal senso di colpa usciti dalla penna di Paul Schrader, da Taxi Driver o da First Reformed. E ci sono le parole, dolenti e laconiche quasi fossero pronunciate proprio da Travis Bickle: «La paura è uno strumento», dice il giovane Bruce Wayne, «loro pensano che io mi stia nascondendo nell’oscurità, ma io sono l’oscurità». Mentre ascoltiamo queste riflessioni, Batman atterra su un marciapiede della metropolitana e impegna in brutali combattimenti corpo a corpo (che ricordano i videogiochi della strepitosa serie Arkham) una banda di giovani furfanti con volto pitturato in stile Joker, che stanno aggredendo un uomo asiatico. Dopo aver detto loro «io sono vendetta» e averli messi in fuga, anche la vittima viene colpita dalla paura e lo implora di non fargli del male, a ribadire che il film esiste proprio qui, sulla labilità del confine tra il vigilante e il criminale. Batman, anzi The Batman è un’entità in cerca di identità e ruolo; le logiche con cui si muove sono quelle della paura preventiva, della violenza brutale. Da quando lavora in problematica cooperazione con la polizia, ammette, i crimini aumentano e la città pare fuori controllo. Qual è allora la sua vera utilità, ammesso che ci sia? 

 

Paul Dano.


Da qui prende le mosse una sorta di romanzo di formazione di un eroe che non ha nulla di eroico, di un salvatore che non è in grado di salvare davvero nessuno, nemmeno se stesso, che si trasforma con sofferenza profonda da giustiziere a giusto. Mentre dà la caccia ad Edward Nashton, il serial killer che si fa chiamare l’Enigmista, un po’ Zodiac e un po’ Son of Sam, perfettamente incarnato da Paul Dano, è costretto a compiere una serie di “spostamenti” che lo allontanino da lui. Entrambi sono orfani segnati dal dolore e dall’ingiustizia, entrambi vogliono vendetta, entrambi sono convinti di incanalare la propria rabbia nella lotta al male per conto dei più vulnerabili, per liberare Gotham dal crimine e dalla corruzione. Dov’è quindi la differenza? La mitopoiesi dell’eroe ci risparmia il racconto diretto delle origini traumatiche e si concentra sulla sua genesi morale, in maniera assai più problematica di Batman Begins di Christopher Nolan, che pure raccontava in modo imperfetto il percorso dalla vendetta alla giustizia. Ciò che deve realmente cercare Bruce Wayne, che prima di essere (The) Batman è un giovane uomo malato e paranoico, che si aggira per la città come uno spettro, pallido e scavato, che non tollera la luce del sole e deve indossare degli occhiali da sole quando esce dall’oscurità, è una posizione diversa da quella del vigilante. Non ha certezze, non ha un progetto, ha solo una rabbia che ribolle e che non riesce a tenere a bada.

 

Per marcare questa differenza, un altro movimento che Bruce Wayne deve compiere è di carattere sociale. Per quanto orfano, ferito e abbandonato, egli è comunque un privilegiato e per la prima volta nella storia delle trasposizioni cinematografiche del personaggio creato da Bob Kane negli anni ‘30, si interroga su questa condizione e sulla compatibilità di essa con la sua attività di vigilante al servizio dei più dei deboli. Ricorrendo a un simbolismo talvolta un po’ prevedibile, la scrittura di Reeves gioca con gli spazi e i toni. La base operativa di Batman, ad esempio, non è più in una caverna sotto Wayne Manor, la villa di famiglia fuori da Gotham, ma è in una stazione abbandonata della metropolitana sotto la Wayne Tower, un grattacielo che sovrasta la città e che rappresenta proprio la condizione di superiorità della famiglia. Per quanto Bruce possa spogliarsi del suo status e muoversi nei bassifondi, non riesce davvero a entrare in sintonia con l’anima profonda di Gotham, se non quando accetta di guardare le opacità che segnano la figura tutt’altro che candida dei genitori filantropi, di spogliarsi della sua supposta supremazia morale e di scendere letteralmente tra la gente, durante la catastrofe finale che non è stato in grado di impedire. Lì, in mezzo al caos, il processo è compiuto: l’eroe non è più colui che salva il mondo dalla tragedia perseverando nel suo progetto di vendetta, ma è semplicemente chi scende tra le persone e aiuta, mentre per la prima volta nel film sulla città spunta un pallido sole.

 

Jeffrey Wright e Robert Pattinson.


Questo percorso è indubbiamente la forza di un film affascinante anche se imperfetto, talvolta un po’ stiracchiato e sotto ritmo, appesantito da una detective story che vorrebbe essere uno degli elementi originali del film ma si incarta via via in una complessità improbabile. Resta il fatto importante, però, che The Batman segna una linea di confine nel mondo DC, andando a realizzare ciò che Joker di Todd Phillips, ricalcando (male) traiettorie scorsesiane, abbozzava semplicisticamente, cioè di politicizzare la prospettiva con cui si guarda al mondo di Gotham, nel senso di provare a legarne a doppio filo le torbide vicende alla contemporaneità. Nel film di Phillips, il semplicismo di una rappresentazione del villain assolutamente scontata, che riconduceva ai traumi infantili la malvagità del protagonista, rendeva il progetto di Joker inefficace, laddove The Batman riesce a costruire un discorso coerente e a puntellarlo con due elementi fondamentali, come il tono e i personaggi di contorno.

 

Rispetto al tono, Reeves e il suo co-sceneggiatore Peter Craig costruiscono la storia intorno a questa città disperata in cui piove sempre, come in Se7en o in Blade Runner. Reeves, va detto, si era già dimostrato molto bravo a re-inventare generi e franchise. Ha fatto centro quando si è trattato di rivivificare il disaster movie, con Cloverfield, o quando ha dovuto fare i conti con un remake, come con Lasciami entrare, e quando ha reinventato la saga di Planet of the Apes. Con The Batman sceglie un posizionamento molto particolare, che oltre ai film già citati si nutre di riferimenti a cult come I guerrieri della notte o Il braccio violento della legge. Per quanto riguarda l’atmosfera, buona parte del merito però va attribuita al direttore della fotografia Greig Fraser, freschissimo premio oscar per Dune, che qui sceglie efficacemente una tavolozza di colori simile a quella che già aveva utilizzato nel sottovalutato Killing Them Softly (2012). 

 

A corredo, poi, ci sono una serie di personaggi minori che, caratterizzati in chiave iperrealistica, funzionano benissimo come contraltare di Pattinson. Oltre al già citato enigmista di Paul Dano, spiccano Zoe Kravitz, che è una Catwoman perfetta, la terza orfana del film, una combattente e una sopravvissuta con un carisma feroce; l’Alfred di Andy Serkis, finalmente liberato dalle sovrastrutture in CGI, dolente e misterioso; e infine, il pinguino di Colin Farrell, a cui verrà riservato il compito di estendere il franchise in una serie HBO a lui dedicata. 

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