Da Dublino non me ne sono mai andato / Tradurre Joyce

3 Dicembre 2016

Il narratore di L’enigma dell’arrivo di V.S. Naipaul immagina la sensazione di spaesamento dalla quale potrebbe essere colto uno dei suoi personaggi – un personaggio che ha tratti vaghi nella sua mente perché il narratore sta ancora cercando di dargli vita – non appena mettesse piede in un luogo sconosciuto. Il porto nel quale il personaggio arriva è un luogo di desolazione e di mistero, la stessa desolazione e lo stesso mistero che ritroviamo nel quadro di De Chirico che ha ispirato il romanzo di Naipaul. Sia il narratore sia il personaggio sono consapevoli soltanto del vuoto e del silenzio tutt’intorno. Un silenzio denso come la foschia di un giorno di pioggia, che impedisce di vedere con chiarezza dentro di sé.

 Chi traduce vive qualcosa di molto simile a ciò che prova il narratore di Naipaul: in permanente viaggio tra due lingue e due culture, è preda dello spaesamento di chi teme di restare per sempre immobile sulla soglia, nella prigione di quello spazio liminale in cui non si è più in una lingua ma non si è ancora in un’altra. Per continuare il suo lavoro deve accettare di perdersi e di perdere, perché i campi semantici di due lingue non si sovrappongono, le sintassi non si equivalgono e spesso il retaggio culturale incombe sulla pagina senza che si riesca a convogliarlo dentro la pagina. Da una parte il testo che si traduce oppone una resistenza a farsi sradicare dal proprio terreno culturale per farsi portare altrove e dall’altra la lingua materna fa resistenza anch’essa, opponendo un rifiuto sottile di accogliere ciò che le è alieno. Solo la rinuncia al sogno della traduzione perfetta, ci ricorda Ricoeur, consente il farsi del tradurre. Solo la rinuncia al sogno onnipotente di una omnitraduzione, di una razionalità che si sottrae alle costrizioni culturali e ambisce a colmare l’assenza di una lingua universale, consente di vincere la resistenza. È a questo guadagno senza perdita che bisogna saper rinunciare, riconciliandosi nell’accettazione della differenza insormontabile fra il proprio e l’altrui.

 

Una delle resistenze più grandi da vincere nel tradurre Joyce è stabilire che l’aspetto da preservare, se non è possibile conservare tutto e quindi si deve scegliere, è quello sonoro, anziché quello semantico. Rinunciare al senso per il suono. Lavorando per Feltrinelli a una nuova traduzione di Un ritratto dell’artista da giovane ho dovuto confrontarmi con questa scelta subito nel grandioso incipit. In soccorso mi è venuta una lettera del 31 gennaio 1931 scritta da John Joyce al figlio, dalla quale si apprende che la storia della mucca che scendeva lungo la strada – la storia ascoltata dal piccolo Stephen Dedalus – è la stessa che da bambino Joyce sentiva raccontare dal padre. La stessa lettera ci informa che Baby Tuckoo è il modo affettuoso in cui il padre di Joyce chiamava il figlio. Se per alcuni illustri joyceani il sostantivo tuck rimanderebbe a cose buone da mangiare, come le paste e la marmellata, per altri potrebbe essere un’allusione al verbo to tuck, rimboccare. Se si vuole tradurre dando la preferenza al corpo semantico, la scelta da compiere è fra queste interpretazioni. Se invece si decide di privilegiare il corpo sonoro del testo ci si può muovere in una direzione diversa. 

 

Il nome Baby Tuckoo è una marca sonora fortemente tipica, una marca che in qualche modo fa gravitare intorno a sé tutte le connotazioni affettive possibili. In questo suggestivo e maestoso incipit oralità e auralità coincidono: la storia raccontata viene percepita dall’orecchio. Il narratore, cioè, ci presenta il protagonista del romanzo per mezzo del suo primo ricordo, un ricordo aurale. È per questa ragione che ho deciso di non tradurre il nomignolo di Stephen ma di far arrivare immutata al lettore la gamma sonora che il piccolo Stephen – e, a detta del padre di Joyce, il piccolo Jim – sentiva riecheggiare intorno a sé: “C’era una volta, ed era una gran bella volta, una muccamuuu che veniva giù per la strada e questa muccamuuu che veniva giù per la strada incontrò un bambino tanto carino che si chiamava Baby Tuckuuu…”. Per me il senso profondo del testo, e non solo in questo passo, è l’intreccio di oralità e auralità, e quindi nella nuova traduzione è questo aspetto – la dominante del testo per dirla con Jakobson – che ho cercato di preservare il più possibile. Decidendo di lasciare il nomignolo invariato ho accettato di far scendere un cono di opacità sul significato – che pure rimane ma non è visibile per tutti – e non la trasparenza ad ogni costo. Al tempo stesso Baby Tuckoo non è soltanto significante puro, puro suono, fa subito capire a chi legge che il romanzo è ambientato in un altrove. Inoltre, la triplice ripetizione della lettera ‘u’, che ricorre per tre volte, trasmette all’occhio del lettore italiano ciò che nel contempo trasmette l’orecchio, il che corrisponde a quanto percepisce il lettore anglofono nel leggere l’incipit. Vale per Un ritratto dell’artista da giovane – e in modo più o meno marcato per tutta l’opera di Joyce, così ricca di rimandi interni e simultanea nella sua creazione – ciò che Beckett in seguito dirà per Finnegans Wake, e cioè che siamo davanti a un libro “non solo da leggere”, bensì anche da “guardare e ascoltare”.

 

 

Tradurre Joyce non significa semplicemente tradurre dall’inglese in un’altra lingua, bensì da un inglese plasmato sull’irlandese in un’altra lingua. E quindi bisogna fare in modo di evitare l’errore dei traduttori inglesi quando traducono dall’irlandese, tutti presi a volgere l’irlandese in inglese anziché rimodellare l’inglese sull’irlandese, come ha osservato Declan Kiberd. La lingua di Joyce è sovente sintatticamente ricalcata sull’irlandese e dall’irlandese attinge lessico e sonorità, opponendo una resistenza attiva alla lingua imposta dall’invasore britannico. Tradurre Joyce significa dunque opporre lo stesso tipo di resistenza nei confronti dell’italiano, già riluttante di suo – come lo è ogni lingua perché questa è l’essenza del tradurre – ad accomodare dentro di sé ciò che gli è estraneo. Uno degli aspetti più evidenti dello stile di Joyce è la ripresa di una parola dal capoverso o dal periodo precedente per introdurre una variazione sul tema. La parola è la stessa ma va a significare altro. In Joyce, cioè, la ripetizione non è mai monotona bensì varia: dà vita a una infinita differenza nell’uguaglianza. Per questa ragione non è sempre stato possibile conservare la stessa parola in traduzione, a causa della molteplicità delle accezioni. Ma il più delle volte lo è stato e l’ho fatto per due ragioni. La prima è che la repetitio è uno degli aspetti più evidenti sia della retorica classica sia del discorso orale, uno dei cardini di Un ritratto dell’artista da giovane, basti pensare al racconto di Davin o ai lunghi sermoni di padre Arnall. Inoltre è una tradizione retorica tipica della cultura irlandese. L’attento lavoro di costruzione di questi rimandi compiuto da Joyce spazia dalla prima all’ultima pagina del romanzo e crea effetti ritmici precisi. Per esempio, ripete la parola “Dio” per ben quattordici volte in un capoverso, mentre l’aggettivo “carino” (nice) ritorna sedici volte nel primo capitolo e solo cinque nel resto del libro.

 

Talora è proprio l’effetto di accumulo a creare un marcato effetto ritmico, come in questo caso: “Sarebbe caduto. Non era ancora caduto ma sarebbe silenziosamente caduto, tra un istante. Non cadere era troppo difficile, davvero troppo difficile: e sentì la resa silenziosa della sua anima, come sarebbe stato tra qualche istante a venire, cadere, cadere ma non ancora caduto, ancora non caduto ma sul punto di cadere”. Ma al tempo stesso, qui siamo di fronte a una sorta di meccanismo mnemonico che si cristallizza intorno a un nocciolo di ossessioni del protagonista: le insidie del peccato, la perdita dell’innocenza, la Caduta. In Un ritratto dell’artista da giovane la ricorsività non si limita, comunque, a parole, espressioni o frasi, ma si estende a fatti e episodi che ritornano. D’altro canto, in alcuni casi la coazione a ripetere un certo gesto non passa solo attraverso la ripetizione, ma può palesarsi con un brusco cambio di tempo verbale e di persona. Come sulla prima pagina, quando il narratore passa di colpo dal racconto al passato al racconto al presente e da qui all’imperfetto, mentre, dalla terza persona passa alla seconda per poi rientrare nella terza: “Quando bagni il letto prima è caldo poi diventa freddo. Sua madre metteva la tela cerata”. In questo caso, più che un semplice ricordo sembra di essere davanti a una vera e propria compulsione, un gesto che si ripete infinite volte e che il ricorso alla seconda persona e al presente trasporta simbolicamente fino all’oggi. È come se il narratore non archiviasse nulla dentro di sé – un altro grande del Novecento avrebbe detto: Il passato non è morto; non è nemmeno passato –, e tutto fluisce liberamente, sempre qui e ora, nella coscienza di chi narra la storia.

 

Quando l’Inghilterra colonizzò l’Irlanda cercò di privarla della sua cultura originaria. Il primo strumento per farlo fu imporre la lingua inglese. Stephen Dedalus ne è ben consapevole. Nel dialogo con il direttore didattico del collegio in cui studia, a proposito di una parola che il sacerdote – inglese – non ha mai sentito, pensa: “La lingua nella quale parliamo è sua prima che mia. Quanto sono diverse, sulle sue labbra e sulle mie, parole come casa, Cristo, birra, maestro! Io non riesco a dire o a scrivere queste parole senza inquietudine. La sua lingua, così familiare e così estranea, per me sarà sempre un idioma acquisito”. L’edificio stesso in cui si svolge il dialogo ora appartiene ai gesuiti, e dunque a Roma. Prima apparteneva alla gentry, la piccola nobiltà che lo gestiva per gli inglesi: è un luogo simbolo del doppio impero contro il quale Stephen combatte. E poi il direttore didattico lo fa sentire quasi un estraneo quando esprime tutti i suoi dubbi sulla parola “peverino”, che il ragazzo usa al posto del più comune “imbuto”. Le due parole inglesi oggetto del contendere, tundish e funnel, sono entrate nella lingua in due epoche diverse: tundish deriva da due parole in antico inglese, tunne e disc, mentre funnel entra nella lingua inglese dal francese nel tardo Medioevo. Per ironia della sorte, la più antica è proprio la prima delle due, quella che il sacerdote inglese dice di non aver mai sentito, lasciando trapelare l’insinuazione che non faccia parte della lingua inglese.

 

La questione della lingua, che inquieta l’artista da giovane, diventerà centrale nell’opera dell’artista da adulto, poiché Joyce ha saputo trasformare l’inglese da “un’umiliazione imperiale”, come ha scritto Seamus Heaney, in “un’arma indigena”. Allo stesso modo di molti autori provenienti dalle colonie dell’Impero britannico, Joyce è un luminoso esempio di uso creativo della lingua dominante, evidente fin dai suoi primi lavori. La sua aspirazione è trovare per il suo Paese una forma linguistica e letteraria che rifletta la complessità irlandese, compresa l’esperienza traumatica di aver perso la lingua. Il fatto stesso che Stephen parli una lingua acquisita fa sì che il romanzo ritorni costantemente alle scaturigini di un popolo. L’Irlanda deve trovare la sua lingua, e con quella lingua Joyce farà entrare l’Irlanda nella Storia. Anche nella fucina della scrittura, Joyce foggia la coscienza increata della sua razza grazie a un inglese plasmato sull’irlandese. 

 

A ciò si lega una scelta interpretativa che mi è costata lunga riflessione. Nelle ultime pagine, poco prima della partenza di Stephen, Davin gli ricorda chi è morto per i propri ideali e per la libertà, chi ha messo l’Irlanda al primo posto. Stephen reagisce in modo veemente affermando: “In questo paese, quando nasce l’anima di un uomo buttano delle reti per impedirle di volare. Tu mi parli di nazionalità, lingua, religione. Io cercherò di volar via per mezzo di quelle reti.” Oltre al modo in cui ho deciso di renderla, la frase inglese I shall try to fly by those nets si può interpretare anche nel senso di “cercherò di volare via oltre quelle reti”, perché la preposizione by può essere interpretata sia come “per mezzo di” sia come “al di là”. Ogni traduzione è sempre preceduta da un’interpretazione, e questa è la ragione per cui il tradurre può essere visto come un atto di interpretazione critica, ma mentre il critico, pur sostenendo la propria ipotesi, può avanzarle entrambe nei suoi scritti, chi traduce è costretto a scegliere. Le ragioni che mi hanno portato a tradurre in questo modo sono varie. Con la decisione di andarsene dall’Irlanda, Joyce quelle reti non se le lascerà alle spalle: diventeranno la sua materia narrativa, romanzo dopo romanzo, scritto dopo scritto. Quelle reti le avrà sempre addosso, perché anche nella Trieste del 1914 continuerà a raccontare la Dublino del 1904, quasi Trieste fosse una Dublino ‘tradotta’ sull’Adriatico. Non solo.

 

Quando a Trieste qualcuno domandò a Joyce se avesse intenzione di tornare a Dublino, lui rispose scettico: “Non me ne sono mai andato”. Sono proprio quelle reti, quella gabbia di costrizioni, a sostenere il volo di Stephen Dedalus – e l’intera opera di James Joyce –, a dargli sempre rinnovato vigore creativo. Infine, anche una ragione linguistica mi ha spinto a privilegiare questa interpretazione: esattamente come tundish è parola più antica di funnel – e lo si è ricordato nel rievocare il dialogo tra Stephen e il direttore didattico –, by nel senso di through the agency, nel senso cioè di “per mezzo di”, è il significato più antico di questa preposizione.

Un altro punto controverso, secondo la critica, è il significato da attribuire al verbo to forge, che si può rendere con “foggiare”/“forgiare” o “contraffare”. Secondo alcuni critici, la duplicità del linguaggio potrebbe portare a interpretare il verbo nel senso di “contraffare”, poiché l’artista crea qualcosa che non c’è nella realtà, qualcosa a imitazione del reale. Nel romanzo il verbo compare tre volte: la prima, è legato al simbolo dell’artista che nella sua officina foggia dalla materia pigra della terra un nuovo essere; la seconda è evocato in rapporto alla teoria estetica cui Stephen cerca di dar forma; la terza nell’ultima pagina del romanzo, quando Stephen, presa la decisione di andarsene dall’Irlanda, afferma nel suo diario di voler foggiare nella fucina dell’anima la coscienza increata della sua razza. Con quest’ultima affermazione, in particolare, Stephen mostra l’entusiasmo e il sincero desiderio di voler creare qualcosa per il suo popolo e la sua nazione e di volerlo fare nel luogo più intimo del proprio essere, l’anima. L’area semantica di impiego del verbo è la stessa in tutti e tre i casi (il rimando all’officina prima e alla fucina poi lo confermano) e pertanto credo si possa ragionevolmente escludere l’ipotesi della contraffazione e avanzare la congettura che le intenzioni del testo – in questo testo almeno – confermino in tutte e tre le occorrenze la scelta del verbo “foggiare” e il senso di responsabilità dell’artista verso la sua vera vocazione, la sua etica di scrittore.

 

L’edizione Feltrinelli è l’unica, fino a oggi, ad avere come titolo Un ritratto dell’artista da giovane. L’articolo indeterminativo, come nel titolo inglese, precede il sostantivo “ritratto”. Ho proposto all’editore di lasciare l’articolo perché i ritratti dell’artista di Joyce sono almeno tre. Nel gennaio 1904 Joyce comincia a scrivere un saggio autobiografico di andamento narrativo intitolato A Portrait of the Artist, che sottopone ai direttori di “Dana, a magazine of independent thought”, ma che non venne pubblicato. Irritato dal rifiuto, Joyce decise di trasformare il saggio in un romanzo incompiuto dal titolo Stephen Hero, uscito postumo nel 1963. Scritto alla terza persona e nella tradizione naturalista, il romanzo ha come protagonista un giovane, Stephen Daedalus, che per molti aspetti assomiglia all’autore e il cui nome – dittongo del cognome a parte – è lo stesso di Un ritratto dell’artista da giovane. Nel 1905 accantonò il progetto e si mise a lavorare ai racconti di Gente di Dublino. Due anni dopo lo riprese in mano: mentre ancora risente dei postumi di una febbre reumatica, Joyce trova un principio strutturale per il suo lavoro e decide che il nuovo romanzo avrebbe coperto l’arco temporale di Stephen Hero e sarebbe stato diviso in cinque capitoli come i cinque atti di un dramma. Nell’aprile del 1908, dopo averne ultimati tre, interruppe di nuovo il lavoro per ritornarci sopra solo su incoraggiamento di Italo Svevo, del quale Joyce era diventato amico durante il soggiorno triestino. Nel 1911, in un accesso di collera dovuto alle difficoltà incontrate per la pubblicazione di Gente di Dublino, con gesto intemperante Joyce gettò nella stufa uno dei manoscritti – non è ben chiaro se quello di Stephen Hero o quello del nuovo romanzo –, che per nostra fortuna fu strappato alle fiamme dai famigliari. Al titolo originario del 1904, A Portrait of the Artist, si aggiunse la specificazione As a Young Man, “da giovane”.

 

L’articolo indeterminativo rimase. Un ritratto dell’artista da giovane uscì a puntate su “The Egoist” a partire dal 2 febbraio 1914, il giorno del trentaduesimo compleanno di Joyce, e fu pubblicato in volume nel 1916 negli Stati Uniti, mentre in Inghilterra venne dato alle stampe l’anno successivo. A cento anni dalla sua pubblicazione, decidere di conservare l’articolo indeterminativo nell’edizione italiana significa anche riconoscere che un ritratto non può essere che soggettivo, contingente, legato a una percezione mutevole, sottolineare come la raffigurazione sia solo una delle tante possibili. Come questa nuova traduzione è solo una delle tante che di un’opera si può fare.

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