Speciale

Obblighi privati e pubblici privilegi

16 Gennaio 2012

In architettura lo spazio vuoto rappresenta il vero oggetto della progettazione: il fine di qualunque progetto architettonico è essenzialmente riducibile al vuoto, alle sue dimensioni, alla forma che lo delimita, alla luce e al colore che rifletterà al suo interno e che irradierà nel suo intorno, poiché costituisce ciò che, di fatto, viene effettivamente utilizzato.

Il senso più autentico dell’abitare, dunque, è riconducibile al particolare modo in cui gli oggetti e i soggetti, con la loro presenza ed esistenza, occuperanno i vuoti di una delimitata porzione di spazio, conferendole il carattere di dimora. Nel Tao-Te-Ching, il Tao, la Via, indica il vuoto come il Grande Principio, da cui tutto si muove e ha origine, ragion per cui, ribadisce  Lao-Tze, rappresenta ciò che è più vitale. Per rendere più efficace ed immediata l’importanza di questo concetto egli richiama il lavoro del mantice, che, mentre produce il vuoto dà l’essere alla corrente della vita dei “diecimila esseri”, espressione con cui si indica la totalità degli esseri viventi.

 

 

Questi spunti teorici sembrano cadere a fagiolo, come si usa dire, a proposito del progetto sull’area ex ENEL realizzato dall’architetto Giancarlo Perotta nella zona antistante il Cimitero Monumentale di Milano. Su questo progetto sono state sollevate critiche molto dure relativamente alla sua mancanza di bellezza, ma anche delle motivate perplessità sull’opportunità di destinare la riconversione di queste aree dismesse alla costruzione di edifici così estranei alla tipologia delle architetture esistenti e non rispondenti alle inderogabili esigenze di riqualificazione di un quartiere “occupato e soffocato” dall’attività di commercio all’ingrosso della comunità cinese. Gli amministratori e gli urbanisti, prima di decidere cosa e dove costruire, cosa ancora aggiungere rendendo il già pieno ancora più saturo e ripercorrendo gli errori di uno sviluppo edilizio del territorio soltanto verticale, dovrebbero imparare dalla millenaria cultura cinese quanto il vuoto sia particolarmente vitale e urgente proprio nelle nostre asfissianti e congestionate città. Dopotutto lo stesso programma elettorale di Giuliano Pisapia conteneva l’indicazione urbanistica di riconvertire le aree dismesse in parchi e/o aree verdi, al fine di riqualificarle e di renderle più vivibili. Invece siamo costretti ad assistere a un indesiderato, e tutto sommato non necessario, edificio dall’ingombro spaziale prepotente e d’impatto, oltreché in netta rottura con lo spazio circostante.

 

Non di recupero intelligente di un’area si tratta, ma di una smaccata “periferizzazione” di un quartiere, attuata con strutture architettoniche trapiantate a forza in un contesto abitativo nel quale, con un’evidenza sorprendentemente ignorata, risulterebbero del tutto estranee. Non si comprende poi la necessità di costruire un edificio di tale imponenza, le cui dimensioni, posizione e orientamento finiranno inevitabilmente per costituire una sorta di barriera-diga la cui incombenza limiterà non solo la visuale ma anche una più salutare circolazione dell’aria.  Questo, come altri insediamenti della stessa portata, scatena l’avversione dei cittadini che si vedono costretti a subirlo, e sebbene non ne comprendano la necessità, ne avvertono, però, l’incongruenza con le architetture esistenti. Gli stessi cittadini che, se volessero chiudere una finestra sulla parete del proprio appartamento, o se volessero aprirne una nuova, si vedrebbero bocciare il progetto in quanto ritenuto una alterazione dell’architettura della facciata dell’edificio.

 

 

Ma come può, ciò che in ambito privato costituisce un vincolo insormontabile, non avere più valore per i progetti di edifici pubblici? O si vorrà forse far credere che il quartiere non possiede una propria immagine, non ha una propria identità urbanistica da rispettare e preservare? Dobbiamo forse credere che i nostri progettisti considerano l’area in questione alla stregua di un “non-luogo”, di un’area anonima, composta cioè da quei luoghi che l’antropologo Marc Augé definiva  privi di anima? Se così fosse, dimostrerebbero non soltanto una mancanza assoluta di sensibilità e di rispetto per gli abitanti del posto, ma anche una colpevole ignoranza, dal momento che la maggioranza degli edifici della zona sono stati costruiti da più di un secolo e in gran parte nello stesso periodo. Diversamente, con risentimento non inferiore alla delusione, ci toccherebbe prendere atto di essere incappati davanti all’ennesimo caso di “obblighi privati e pubblici privilegi”.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO