Oltrefotografia

13 Luglio 2022

Nell’epoca dell’infosfera e della sovrabbondanza di immagini Mauro Zanchi, nel suo ultimo libro La fotografia come medium estendibile (Postmediabooks, Milano, 2022, pp. 186, € 19,00), riflette su come sia possibile andare «oltre la postfotografia e la furia delle immagini», affinché la fotografia possa tornare a vedere e a mostrarci ciò che ancora non vediamo e non sappiamo. Spinte da un intento etico, le sue argomentazioni non mirano – come potrebbe ambiguamente far intendere il titolo del libro – solo ad analizzare in che modo la fotografia possa inglobare e ibridarsi con altri media per sfidare i suoi limiti e rimetterli in discussione.

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Zanchi si interroga in particolare sulle modalità e i percorsi grazie ai quali le immagini contemporanee riescano a ritrovare un’alterità enigmatica e una forza evocativa capaci di coinvolgere e toccare lo spettatore avviandosi in direzioni molteplici (scientifiche, oppure sociali, politiche, psicologiche, antropologiche, etc.). lI suo discorso non è mai passatista: per lui non si tratta di contrastare il proliferare delle immagini – tra selfie e social di ogni tipo – non scattando più fotografie per contrastare (invano) l’inquinamento visivo che impera, e neppure di andare contro le nuove tecnologie e scoperte scientifiche per ritrovare visioni contemplative e del profondo capaci di opporsi alla superficialità e all’affermatività che dominano i media contemporanei.

 

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Alain Resnais, L'Année dernière à Marienbad (1961).

A suo avviso, senza dimenticare il passato né rinnegare il valore della memoria, ci si può anche immergere nell’intermedialità, entrare e usare diversamente le nuove tecnologie digitali, da Google Street View agli universi sintetici della Second Life, dalla Rete internet ai dispositivi di sorveglianza, dagli algoritmi all’intelligenza artificiale. Solo o anche grazie a tali nuove possibilità la fotografia e l’arte potranno estendere le loro potenzialità, far emergere ciò che è invisibile o le possibilità latenti del vedere. 

L’«oltrefotografia» e la «metafotografia», di cui parla Zanchi nel suo libro, hanno appunto l’obbiettivo di andare oltre per contrastare l’uniformità dilagante dei media visivi, di inoltrarsi oltre il già noto, oltre il puramente visibile, oltre il semplicemente retinico di cui parlava Duchamp. Grazie a un cortocircuito con altri codici, e soprattutto grazie a un’investigazione dentro il visibile e il medium fotografico, tali nuove immagini si potrebbero aprire all’esperienza dell’incanto, potrebbero divenire un’epifania o qualcosa di enigmatico capace di sollecitare livelli profondi dell’immaginario degli spettatori. «La metafotografia – scrive Zanchi – può lavorare sulla reinvenzione della realtà, agire entro uno spazio di confine tra l’empirismo e la metafisica, tra oggettività e incontrollabilità, tra ricerca rigorosa della scienza e le emozioni».

 

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Baran bo Odar e Jantje Friese, Dark. I segreti di Winden (2017-2020).

Che il suo discorso sull’oltrefotografia non voglia andare nella direzione di un invisibile puramente metafisico, l’autore lo chiarisce bene quando evidenzia come gli scienziati attualmente riescano a intervenire sulla luce, a modificarla o a rallentarne il corso abituale, o quando – a partire dagli studi della fisica quantistica – fa notare che finora siamo riusciti a vedere solo il 4% della materia esistente, mentre il 96% di ciò che costituisce il mondo e l’universo è classificabile in parte come materia oscura, in parte come energia oscura. Certo tali scoperte scientifiche non è detto che possano avere un ricaduta immediata sulla fotografia, ma sicuramente – sostiene Zanchi – potrebbero fondarla su altre leggi, potrebbero spingerla a non limitarsi più a essere la classica “scrittura di luce”, analogica o digitale che sia, per divenire magari anche un’esperienza tattile, o registrare in termini visivi informazioni inedite attraverso algoritmi, o ancora riprodurre situazioni olfattive-sonore, coinvolgere la meditazione, la telepatia. 

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Faccio un primo esempio tratto dal passato della storia della fotografia anche perché lo stesso autore, fin dalle prime pagine del suo libro, fa notare come la metafotografia e la reinvenzione del medium abbiano impegnato molti fotografi fin quasi dai suoi albori, tra visioni di tipo spiritista (come quelle di William Hope degli anni Venti) o le rotture degli schemi visivi abituali degli autori delle avanguardie, dai Futuristi ai Surrealisti, da El Lissistzky a Moholy-Nagy. Mi riferisco quindi alle straordinarie immagini, peraltro poco conosciute, che Étienne-Jules Marey dedicò allo studio dei movimenti dell’aria tra il 1899 e il 1901 e che mi paiono poter essere intese come un’anticipazione simbolica e rappresentativa della metafotografia di cui parla il libro di Zanchi.

 

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Lamberto Teotino, Sistema di riferimento monodimensiona le SDRM19, 2011, Courtesy dell'artista e mc2gallery, Milano.

Grazie all’uso di una innovativa machine à fumée, della sua invenzione della chronofotografia e all’uso di un flash sincronizzato, le immagini di Marey ci mostrano infatti l’invisibile, ciò che l’occhio umano non potrebbe mai vedere, e tutto questo attraverso immagini semplici e dirette, capaci di sfruttare le innovazioni tecniche dell’epoca, ma al contempo cariche di un lirismo straordinario dove l’aria appare come un fluido danzante. Nate cioè con l’intento scientifico di studiare i movimenti dell’aria quando incontrano degli ostacoli, si caricano al contempo di una forza allusiva che agisce sull’immaginazione.

Addirittura Nadar, vedendo le sue opere, lo descrive più come un mago che uno scienziato, più come un genio alla ricerca dell’assoluto che come un fotografo attento alla precisione scientifica. Georges Didi-Huberman (Georges Didi-Huberman, Laurent Mannoni, Mouvementes de l’air. Étienne-Jules Marey, Photographe des Fluides, Gallimard, 2004), non a caso scrive di questo suo lavoro: «Noi dovremmo accettare questo paradosso: gli aspetti fissati qui da Marey per ragioni scientifiche e storiche precise, lasciano apparire un flusso di analogie e risonanze tali da lasciarci improvvisamente disorientati, affascinati, pervasi di poesia, come se facessero emergere reminiscenze o anticipazioni di qualche cosa che esse stesse cercavano di ignorare e che tuttavia mettevano in atto».

Ma non è forse proprio questa anche la riflessione solo in apparenza paradossale sostenuta da Mauro Zanchi? Ovvero come la tecnologia, se usata in modo riflessivo o sperimentale, possa estendere la visione per incamminarla verso territori inesplorati? Terre incognite, mobili, capaci – come le immagini di Marey – di disorientarci grazie al loro potere evocativo, dove s’intrecciano latenze e preveggenze, tracce di una realtà visibile e invisibile al contempo. Ma c’è di più. L’oltrefotografia di cui parla Zanchi intende anche superare e mettere in discussione non solo la logica dell’istante decisivo, che vede il fotografico legato a un “è stato” preciso e definitivo, ma anche la convinzione comune che esista un unico tempo lineare, teso dal passato verso il futuro.

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Ebbene, incredibilmente, le stesse immagini di Marey non fissano un determinato momento, ma accolgono una articolazione del tempo e delle forme sulla superficie delle immagini. L’istante cronologico non è infatti lo stesso da un punto all’altro dell’immagine che si presenta come una scrittura nel tempo, nutrita dal tempo. 

Tornando a Zanchi, le sue riflessioni sottolineano come le fotografie possano anche nascere da visioni che vanno al di là del soggetto umano che vede. Possono cioè essere frutto di un uso particolare della tecnologia, un po’ come fece Marey registrando in modo non-soggettivo il flusso dell’aria con la sua innovativa machine à fumée, ma forzando «l’apparato a produrre qualcosa impossibile da prevedere, qualcosa di improbabile, di informativo», per usare le parole di Vilém Flusser, a cui il nostro autore fa più volte riferimento.

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L'ultimo Dio.

Claudio Beorchia, ad esempio, nel 2013, dopo aver scoperto che a Shanghai, ad ogni accesso alla metropolitana, bisognava far passare i propri bagagli attraverso uno scanner, decide di sfruttare “artisticamente” l’esito meccanico di tali immagini intrusive, rese affascinanti grazie ai loro colori accesi e sintetici. Su dei vassoi trasparenti ai raggi X compone così delle simil-classiche nature morte con frutta, brocche e stoviglie che fotografa quando apparivano sullo schermo dello scanner.

Una macchina preposta al controllo veniva così beffata e usata per realizzare una colorata e decorativa natura morta così come “essa” la vedeva. Poi nel 2017, negli Stati Uniti, lo stesso Beorchia «forza l’apparato» delle videocamere posteriori delle auto (quelle che si attivano allorché s’inserisce la retromarcia per aiutare a parcheggiare), quando scopre che con il portellone del retro aperto non riescono più a vedere asfalto e marciapiedi ma inquadrano il cielo. Così, racconta l’autore in un’intervista realizzata da Sara Benaglia e dallo stesso Zanchi: «Ho utilizzato queste videocamere per fare un reportage on the road del paesaggio statunitense (…) il tutto restando in auto e fotografando direttamente lo schermo del cruscotto». (Metafotografia. Le mutazioni delle immagini, Skinnerboox, 2020)

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L'ultimo Dio.

Anche le immagini trovate, quando guardano indietro, dentro e oltre loro stesse, possono offrirsi a riletture capaci di sollecitare nuove e più profonde interpretazioni. Per rimanere vicini all’attualità, Paolo Ciregia – che nel 2014 stava documentando come fotoreporter gli scontri a Kiev dell’Euromaidan (che porteranno alla caduta del governo e alla fuga del presedente Viktor Janukovyč) – nel 2017 parte da alcune sue immagini d’archivio, dove sono presenti poliziotti ucraini con scudi antisommossa, per creare le sue nuove opere Shield I e Shield II. Scansiona le porzioni di questi scudi antisommossa, li ingrandisce e li trasforma in opere inquietanti e potenti, dove i segni della lotta emergono come tracce luminose.

Nel caso di questo autore l’operazione autoriale è così un mix tra una fotografia scattata dall’autore stesso e dalla memoria tecnologica dello scanner. Lamberto Teotino, nella serie L’ultimo Dio (2013-2013), occulta invece i volti dei soggetti, che sceglie tra immagini in bianco e nero recuperate da archivi, attraverso un codice di riproducibilità: il frattale, forma geometrica che si ritiene abbia corrispondenze con la struttura della mente umana e con il genoma. Partendo da una fotografia reale, egli arriva a comporre una figura grottesca, dal volto al contempo cancellato ed espanso, trasfigurato verso una sorta di tridimensionalità misteriosa.

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Paolo Ciregia, ShieldaII, dalla serie125, 2018.

Il suo intento – come racconta in un’intervista proprio a Mauro Zanchi, è quello «di rigenerare il passato, fornire uno spostamento di senso al preesistente, per azionare un ribaltamento compositivo e trasformativo con lo scopo di alterare il pensiero di chi guarda» (Metafotografia. Dentro e oltre il medium nell’arte contemporanea, Skinnerboox, 2019). Nuovamente ci si trova di fronte ad opere più costruite in seconda battuta che scattate direttamente dall’autore. 

Come scrive Zanchi, parafrasando la famosa frase pubblicitaria della Kodak «Voi premete il pulsante e la fotografia farà il resto» in «Voi non premete il pulsante e la metafotografia farà il resto», ciò che conta realmente è questo “resto”, ovvero ciò che è ancora ignoto, che è rimasto inesplorato, che ancora può costruire un nuovo rapporto con il fruitore e mettere in discussione le sue certezze trasformandosi in una alterità enigmatica.

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Claudio Beorchia, Natura morta per scanner, 2013, Bergamo, Collezione BACO.

«Ciò che intendo per oltreimmagine è solo un passo ulteriore verso qualcosa che non abbiamo ancora visto, sentito, percepito, ascoltato, immaginato. E’ forse solo un salto nel buio. Sarà solo la storia a chiarirlo» – scrive lui stesso. Certo le sue riflessioni hanno qualcosa di utopico, ma di utopie oggi c’è bisogno per immaginare un diverso futuro dove si potranno relazionare immagini anacronistiche con immagini preveggenti per mettere in azione nuove dinamiche, percezioni e riflessioni. 

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