Totem Berlusconi

17 Febbraio 2014

Su meriti e demeriti di Silvio Berlusconi l'Italia si divide da trent'anni. Fuori da tribunali e dibattiti, però, una certezza c'è: la sua vicenda ha fatto calare sulla parola pubblicità, sul suo semplice suono, un giudizio storico inesorabile, trasformandola in una nuova espressione idiomatica.

Pubblicità, cioè inganno. Quando Repubblica ha voluto attaccare Berlusconi con massimo sprezzo, l'ha definito "pubblicitario". Dal suo avvento in poi, gli atti di governo inefficaci ma spettacolari un tempo bollati per il loro "effetto annuncio", sono diventati "spot". Tutto il suo consenso è stato interpretato con un colossale vedi alla voce reclàme. A mo' di esempio, una manifestazione del 2010 contro il governo Berlusconi: prima una rappresentante sindacale dice "dalla crisi si esce investendo sul lavoro e non sulla pubblicità”, poi Vendola dichiara "Berlusconi ha sostituito i valori costituzionali con la pubblicità” e infine Bersani attacca i "miracolistici spot” dell'allora presidente del consiglio. Quell'anno, da destra, anche la convention di Futuro e Libertà dichiara la sua opposizione agli “spot del Mulino Bianco” del premier.

 



La recessione morde, lui dice ristoranti pieni. Il ceto medio sprofonda nella sfiducia, lui predica ottimismo. Per tutto questo negare rimane solo quella parola. E "Pubblicità" è una definizione dalle molte conseguenze. Scegliendola per Berlusconi non si dà solo un giudizio linguistico su di lui, ma si giudica anche la qualità del suo consenso. La valutazione si estende così fino a coprire la natura profonda della nostra sfera pubblica. Se la pubblicità è solo negazione del vero, e questa negazione è la via per il successo, nella nostra agorà non potranno che verificarsi inganni e ogni linguaggio collettivo dovrà per forza essere mistificatorio. La scena si divide dunque tra manipolatori e vittime. Nient'altro. Lo slittamento semantico che stiamo considerando è allora d'impressionante portata. Agli occhi degli italiani, si smonta la possibilità stessa di un discorso collettivo, di un linguaggio condiviso. E in una democrazia, tutto questo si avvicina al lutto.

 



Questa mutazione ha finito per riguardare anche il senso comune. A quell'idea di pubblicità, come abbiamo detto, si accompagna un'idea di pubblico. Intorno al trentennio che ha accoppiato Berlusconi a pubblicità, la cultura progressista ha consacrato, ben oltre le responsabilità del leader del centrodestra, la sua più profonda crisi di vocazione, via via ammutolendo invece di cercare parole nuove e capire i linguaggi. Accettando che la sfera pubblica diventasse pascolo altrui, ha perso ciò che era a buon diritto anche suo, ciò che aveva in altre epoche costruito, voluto e difeso.

Il bilancio

Un bilancio della vicenda berlusconiana in pubblicità non si tenta per sorvegliare i confini della nostra professione ma perché in questo tema oggi scorgiamo il territorio fondamentale di ogni futuro discorso con gli italiani. Si tratta cioè di ritrovare l'agibilità democratica per un discorso comune, togliere il linguaggio della modernità ai suoi cattivi interpreti, asserire che parlare a tutti rimane possibile in civiltà. Sottrarsi a queste analisi sarebbe abbandonare lo spazio del dibattitto ai suoi destini, allontanarsi dal cuore vivo della democrazia. Senza chiarire il ruolo svolto dal totem Berlusconi in questi anni, non sarà possibile ricostruire una lingua praticabile, civile, e rivolgersi agli italiani continuerà a essere sospetto in sé. O diventiamo insomma capaci di discernere tra manipolazione e divulgazione, tra semplicità e truffa, oppure chiunque potrà essere considerato un demagogo nel momento stesso in cui viene capito.



La diagnosi progressista del fenomeno Berlusconi ebbe il vantaggio della semplicità. Pubblicità mise insieme i due mestieri. Il Berlusconi di prima, che con le tv commerciali vendeva audience agli inserzionisti, con il Berlusconi politico, che ora conquistava elettori sul mercato del consenso. Questa semplicità fece di lui il totem della sfiducia democratica. La chiara dimostrazione che la causa popolare era persa e che la sconfitta avveniva sul piano dei media. Erano gli anni in cui Norberto Bobbio, commentando l'irrompere di Forza Italia, definiva la tv uno strumento naturaliter di destra. Secondo l'attonito punto di vista progressista, il mondo involgariva, e la sinistra era entrata nell'era del karaoke, come recitava il titolo del libro sul quale Bobbio intervenne nel 1995. Iniziò allora un dialogo a distanza che sarebbe durato per due decenni. Tra i progressisti e il totem Berlusconi.

Il totem fa paura, ma protegge allo stesso tempo. Evita il confronto, difende dalle insicurezze. Definire pubblicità il consenso berlusconiano era lecito, ma volle anche dire smaterializzarlo, negarne il contatto con la realtà, distogliere lo sguardo davanti ai problemi di rappresentanza che poneva. Significò non mettersi in discussione, considerare frutto d'ipnosi collettiva l'afflusso di voti in favore del centrodestra. La cultura italiana, tradizionalmente dedita a dibattiti spacca-capelli-in-quattro, stava ora archiviando la pratica in fretta: non solo tutto questo venne facilmente definito pubblicità, ma la pubblicità non poteva essere null'altro che questo. E qui arriva l'inghippo.

 



Per una volta non c'erano possibilità riformatrici, né servivano approfondimenti. Secondo il punto di vista nazionale, il linguaggio pubblicitario ha un'unica possibilità espressiva: il falso (e la gente vuole solo essere ingannata). Cosa non vera a sua volta e negata in tutto il mondo dagli infiniti esempi nei quali il linguaggio pubblicitario si basa su verità umane, si distingue dalla propaganda, si emancipa dal liberismo, crea civiltà e benessere, mentre da noi prevale una visione antica delle sue possibilità, propagandistica, monolitica, angusta. Per questo abbiamo sottotitolato la nostra rivista "Un'idea di pubblicità", per mostrarne le potenzialità ignorate dai più.

La sua idea

Allo stesso modo, quella di Berlusconi non è la pubblicità. E' la sua idea di pubblicità. Vediamo allora di cosa è fatta. E' stato giusto fare di lui il totem della capacità di comunicare? O è stato un altro capitolo della nostrana soggezione verso la comunicazione di massa? In questi trent'anni il fronte progressista, schiacciato da un senso d'inadeguatezza, ha via via rinunciato a occuparsi di comunicazione, a elaborare linguaggi alternativi che declinassero per tutti i propri valori. Ne ha fatto una scelta di nobiltà, considerando quello della comunicazione un mondo sporco di per sé, proprio perché identificato con il nemico storico. Il linguaggio pubblico di Berlusconi invece offriva varchi, mostrava spesso la sua schematicità, la sua povera gamma di registri. Inadatto ad attraversare la storia con parole adeguate, cadde presto in contraddizioni ben maggiori di quella dei "ristoranti pieni".

 



Nel 2001, durante il G8 di Genova, se ne ebbe un esempio eclatante. I giornali avevano preceduto l'evento raccontando, forse anche con tigna folkloristica, le ispezioni dell'allora premier: esige gerani esposti dai balconi, ottiene più limoni negli alberi, alcuni vengono attaccati a bella posta con fil di ferro. Aneddotica reale o leggenda diffamatoria che fosse, il clima era comunque pubblicitario, così come inteso dalla vulgata. Poi il dramma. L'omicidio di Carlo Giuliani. Poche ore dopo, toccò a Berlusconi prendere la parola. Per invocare ordine pubblico, infatti, si rese necessaria la registrazione di un breve messaggio televisivo. A lui si affiancò, stretto nella mesta inquadratura, l'allora presidente della Repubblica Ciampi.

La scena è memorabile. Berlusconi medita le parole giuste, subito dopo il presidente le pronuncia, le registra, ne autorizza la diffusione. Il comunicato costituisce dunque un importante documento, una fonte unica nella quale trovare le parole con cui Berlusconi affronta e definisce il tragico. In una biografia votata al sorriso (“come se aveste il sole in tasca”, suggeriva di presentarsi ai suoi promotori finanziari) eccolo pubblicamente posto di fronte alla morte. Per la prima volta. Ma le parole che soppesa risultano in surreale consonanza con la sua visione. Per definire il suo stato d’animo sceglie il verbo “Spiace”. Spiace che tutto questo sia avvenuto nel momento di un grande impegno, afferma, eccetera. E’ un esordio fulminante, nel quale si esaurisce il senso del suo intervento. Spiace. Stona. Che sia avvenuto l’omicidio non è tanto grave quanto il suo verificarsi “in questo momento”. E’ l’inopportunità, il centro del suo discorso.

Berlusconi si addolora per la disarmonia, il suo lutto è nella controversia, nella cosa storta. Spicca l’assenza del corpo del morto dal suo discorso, latita il fatto in sé. Non c’è il sangue, né la vita del ragazzo. Neanche per un attimo la sua oratoria vi si sofferma: nelle sue parole la tragedia è il mancato sereno svolgimento, in un ribaltamento totale di senso quella morte non emerge se non come inciampo. Spiacevole. Quando poi nel corso del comunicato affronta i drammi del terzo mondo per i quali i manifestanti invocano attenzione, sceglie di nuovo una parola di perfetta coerenza. Fame, guerre, povertà. Li definisce “inconvenienti”. Il terzo mondo ha degli inconvenienti.

Nel suo vocabolario c’è solo posto per categorie “positive”, la costruzione, il miglioramento, l’intrapresa, il coraggio. E per la derisione, semmai, di ciò che al di fuori delle sue categorie sopravvive, la debolezza, la marginalità, i gesti rivendicativi (propri di chi ha scelto la parte sbagliata e paga il prezzo del proprio errore). In sostanza, alla prova dei fatti, Berlusconi dimostra di non sapere definire il tragico, di non avere le parole. Anzi, ne nega l’umanità. Quando gli arriva davanti, lo descrive come stortura, incidente, come fosse un tavolo che balla. Una stramberia del caso, non un momento della vita. Egli non ha un linguaggio per la tragedia perché non ha un linguaggio per la verità.

Come uomo d’azione, Berlusconi è un sognatore. Però nel senso descritto da Simone Weil: “Sì, noi sogniamo. Gli uomini d’azione e d’avventura sono dei sognatori; preferiscono il sogno alla realtà. Ma con le armi essi costringono gli altri a sognare i loro sogni. Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui”. Così parla uno dei congiurati di “Venezia salva”. Chi vuole fare la storia, dice la Weil, non vede la realtà, tutto per lui deve prendere la forma della propria visione totalitaria, astratta, oppressiva. Quali sono allora le armi del sogno di Berlusconi? Privo di disegno ideologico, senza autentiche finalità teorizzate, il suo sogno non può che centrarsi su sé. Una proiezione della sua volontà.

 



Sotto questa luce appare diversamente il titolo di un suo volume: “L’Italia che ho in mente”. Non progetto politico ma emanazione all'esterno di uno stato interiore, di un punto di partenza privatissimo, di una motivazione personale come non mai. Egli vive per adeguare sempre più il mondo al suo beneaugurante disegno. La macchia d’olio del sorriso che festeggia la sua apparizione deve allargarsi senza sosta. Niente è considerato esente, tutto deve essere contagiato. Pochi giorni dopo i fatti del G8, l'allora capogruppo di FI al Senato concluse in aula il suo intervento a sostegno della relazione di Berlusconi dicendo: “noi abbiamo portato la logica del sorriso. Ci siamo sostituiti alla logica del cattivo umore”.

Come si è potuto pensare che questo fosse l'unico, anzi il, modo per parlare a tutti? Che questa idea di pubblicità e questa idea di pubblico non avessero alternative? Non fu, questa rinuncia, una palese dimostrazione di quanto il popolo italiano agli occhi dei colti fosse perduto, irraggiungibile, alieno? Così come per rivolgersi a dei marziani si ricorre a un codice estraneo, altrettanto in comunicazione si arriva a credere di dover parlare agli italiani esclusivamente con una lingua dell'inganno, finta, artificiale e rigida, immaginando esseri umani capaci di dire "ho voglia di qualcosa di buono, sì, ma con il giusto equilibrio".

E ora?

La réclame ha portato fortuna all'ex premier. Venticinquenne, studente di giurisprudenza, nell'anno accademico 1960-61 decide di partecipare a un bando di gara indetto dalla concessionaria di pubblicità Manzoni per la miglior tesi di laurea sull'argomento. In palio, due milioni di lire. Il giovane Berlusconi propone una tesi sui "problemi giuridici del contratto di pubblicità per inserzione", grazie alla quale vince il bando, oltre a laurearsi con 110 e lode. Dopodiché in verità si dedicherà all'edilizia, settore allora in espansione, ma già praticando la "logica del sorriso". Quando per esempio qualche anno dopo venderà uno dei suoi primi complessi edilizi, il Condominio dei Cigni, lo reclamizzerà con lo slogan "Quando a Milano piove, a Brugherio c'è sempre il sole".

Sul suo tono di voce, com'è chiamato nelle agenzie, si consuma un ennesimo equivoco. Il contrario di quel sorriso, infatti, non è la malinconia ma quell'umanità autentica che da Bernbach in poi si è dimostrata il miglior registro possibile in comunicazione. Nella vulgata berlusconiana, invece, a quel suo "sorriso" sarebbe possibile contrapporre unicamente il broncio, la noia, il grigio delle casacche sovietiche, il muso lungo dell'impegno di sinistra rappresentato in caricatura. Com'è stato sovente detto, l'odio. Anche se in tutto il mondo un'infinita gamma di espressioni umane diventavano linguaggio pubblicitario, da noi il totem intimidiva tutti, convinceva il paese che non c'erano alternative popolari a quel sorriso. Dalla sua idea di pubblicità promanava un'idea degli italiani? Diventò l'unica per tutti. Paternalismo, finzioni.

 



La logica del sorriso è autoritaria in sé. Costringe a sorridere. Lo esige. Diventa strumento di controllo. Saviano e La piovra sono cattiva pubblicità per l'Italia, disse, ma non proprio per replicare l'invito rivolto da Andreotti al cinema neorealista (i panni sporchi da lavare in famiglia). Più che del contenuto, Berlusconi sembrò curarsi anche in questo caso del tono, definendo la denuncia letteraria come indole negativa, lo scavo giornalistico come attitudine paranoica. Quel mondo andava separato dal successo popolare, doveva lasciare il palcoscenico principale ed essere confinato nei tristi ambienti dell'opposizione. Più tardi, con finalità non dissimili, invitò pubblicamente gli imprenditori a non pianificare sui giornali a lui ostili, utilizzando la pubblicità non come strumento dell'industria ma come forma di controllo. Del resto, la società per la raccolta pubblicitaria di Fininvest, Publitalia '80, sarà l'ossatura principale dell'allora esordiente Forza Italia. Quanti sconfinamenti, lungo il confine tra adv e potere.

 



Berlusconi è stato un eroe dell'analogico. Il nuovo pianeta digitale lo vede estraneo, non soltanto per aver detto Gogol quando voleva dire Google, ma perché il mondo è diventato scomodo per i totem. Non basta più irradiare, quando tutti si sono fatti media. Sorridere non funziona, quando la recessione sfonda le porte. Le televisioni perdono ascolti, il partito perde elettori, insomma il suo modello culturale non riesce a rinnovarsi perché, come nel G8, è incapace di dare parole a un'epoca segnata da dolore e paura, non più affrontabile con il sorriso e il mito del successo. Non con quella sua idea di pubblicità.

Berlusconi si è impossessato dello strumento pubblicitario con l'idea di far sognare a tutti il proprio sogno, ma ha finito per svuotarlo e oggi ci riconsegna un involucro inservibile, una parola malata. Poteva essere un'altra storia, la sua? In un paese meno indulgente, gli animal spirit dell'imprenditore potevano tradursi in ricchezza, in idee, in lavoro e basta, invece di trascinarsi in questo lungo corpo a corpo democratico? Forse, ma intanto il bilancio è nel molto lavoro che ci aspetta. Un linguaggio italiano da ricostruire, un nuovo immaginario popolare da creare, in piena recessione e per un pubblico nel quale nessuno più crede. Vivendo quella stessa storia davanti alla quale egli è privo di parole. Noi saremo capaci?

 

Dall'ultimo numero di Bill Magazine in libreria in questi giorni

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