Speciale
Paesi e città. Sant’Agata di Militello
Dalla spiaggia, in una giornata ventosa ma di piacevole ristoro, per spiegarmi storia e realtà del posto in cui vivo, guardo verso occidente: la schiera dei golfi di Caronia, di Santo Stefano, di Cefalù; e più oltre, ma visibile solo in una giornata limpida come questa, quello di Palermo. E a Palermo, da Sant’Agata di Militello, mirava anche Vincenzo Consolo.

Da questa Finisterre, nella parte settentrionale della costa tirrenica della Sicilia, a metà strada tra due province dalle opposte parabole (Messina e Palermo), dove i segni della storia si fanno sempre più labili e a trionfare è la natura benigna e gentile della corona dei Monti Nebrodi, mentre all’orizzonte, tralucenti sentinelle, stanno le isole dolci del Dio: le Eolie. Da qui, dicevo, Consolo aveva preso a guardare verso quell’approdo di stratificazioni culturali che è Palermo, per resistere alle sirene dell’idillio, del sonno beato che imbriglia. E a Sant’Agata, già di sommesse vicende – in origine piccolo borgo di pescatori, formatosi attorno al Castello sei-settecentesco, poi luogo di consulta dei notabili della zona –, aveva saputo donare una più nobile identità, facendola entrare a pieno titolo, tra gli anni Sessanta e Settanta, nella geografia letteraria, nel novero di luoghi e di voci che s’erano intrecciati e continuavano a intrecciarsi nell’Isola, in una conversazione ininterrotta.

Accanto alle mappe di Verga e dei veristi; di Pirandello e di Borgese; dei vari Lanza, Savarese, Brancati, Quasimodo e Vittorini; accanto alla Racalmuto di Sciascia, all’Aspra di Buttitta, alla Comiso di Bufalino, alla contrada Vina di Capo d’Orlando del barone magico Lucio Piccolo o alla Cutusìu del bardo Nino De Vita – alla cartoteca dell’isola si aggiungeva così la Sant’Agata di Militello di Vincenzo Consolo. Luogo divenuto, per l’ultimo dei grandi scrittori siciliani, fulcro di legami, d’incontri e di passaggi, nei frequenti ritorni in Sicilia, nelle primavere precoci o nelle calde estati. Di quella Sant’Agata minuziosamente descritta, con occhio topografico, nel Sorriso dell’ignoto marinaio, che faceva da teatro alla formazione del giovane protagonista dell’esordiale La ferita dell’aprile; o che possiamo ritrovare, cesellata per frammenti, nella serie di racconti e schegge di memoria delle Pietre di Pantalica e di La mia isola è Las Vegas; o ancora in taluni passaggi dolenti di L’olivo e l’olivastro – sembra quasi non esservi più traccia.
Quello di Consolo con Sant’Agata fu, come scrive Massimo Onofri in Passaggio in Sicilia, un rapporto conflittuale e di «quasi rabbioso amore». Da magnifico ossimoro vivente – marxista di pensiero e barocco di penna – in effetti, i primi a non comprenderlo furono proprio i suoi compaesani. Del resto, di che stupirsi quando le élite locali, prima fasciste e poi democristiane, avevano preso il sopravvento? Per non dire di come la sua eredità sia ridotta a brandelli, polverizzata e resa irriconoscibile caricatura – ma questa è altra storia.
La vicenda del microcosmo santagatese, dal secondo dopoguerra in poi, ricalca in nuce quella della Sicilia tutta: terra dal potenziale sconfinato, ma che ancora attende un definitivo, seppur tardivo, decollo.
Adagiata tra le fiumare del Rosmarino a est e dell’Inganno a ovest, vera e propria porta d’accesso verso l’ampio e ricco hinterland nebroideo, importante centro amministrativo e commerciale, per la sua invidiabile collocazione geografica, Sant’Agata avrebbe dovuto conoscere un radioso destino di sviluppo. Eppure, a fronte di sì grandi potenzialità che l’hanno resa nel tempo capitale naturale di un territorio assai ricco di storia e cultura, a oggi è ancora un paese bloccato nel suo bozzolo d’inedia: condannato a uno stato d’inguaribile minorità, perennemente in attesa di un salvifico balzo in avanti. Caso emblematico di questo cronico ritardo, l’ingolfato completamento di quel porto turistico e commerciale che avrebbe dovuto assicurare il sospirato cambio di passo, e che è invece ancora oggi un cantiere aperto: opera in cerca di compimento da più di quarant’anni!

Sembra essersi realizzato per il paese quel timore di «scivolare nel sonno» che fu la preoccupazione prima di Vincenzo Consolo, inducendolo, alla fine degli anni Sessanta, a lasciare (con il fardello mai risolto dei sensi di colpa) Sant’Agata e la Sicilia per la non meno amata-odiata Milano. A lui è stata reintitolata la centrale piazza Vittorio Emanuele II, suscitando il mal di pancia di qualche nostalgico; e dedicata la ‘Casa della letteratura’ al Castello Gallego, dove è stata accolta la biblioteca dell’abitazione santagatese dello scrittore.

Quella stessa piazza su cui affacciava la casa d’infanzia e da cui aveva ascoltato e visto (si legga il raccontino La testa tra i ferri della ringhiera) il film della Storia che passa anche dai luoghi più ignoti e periferici («Vidi e vidi, da quel balcone, in quel lontano tempo della mia infanzia e della mia adolescenza»): adunate e parate; colonne di tedeschi prima, dopo lo sbarco di angloamericani; e i comizi del secondo dopoguerra – dei comunisti, dei socialisti, dei democristiani – in un’Italia finalmente libera…
Che paese è quello che fa fatica a tenere vivo il ricordo del suo cittadino più illustre, e non sa andare oltre un burocratico memorare? Che paese è quello che, per paradosso, non riesce nemmeno a vocarsi in pieno alle logiche dello sviluppo contemporaneo? Che paese è quello che mostra, dunque, di miseramente fallire su entrambe le sponde dell’essere e dell’avere?
Anch’io sono rimasto, silenzioso, a scrutare appeso a una ringhiera, in un luogo che continuo (ma con difficoltà) ad amare e da cui un giorno, di fronte allo sconquasso, sarei dovuto partire con un bagaglio leggero e privo di rimorsi. Intendiamoci, un buon posto dove diventare vecchi, per la clemenza del clima, per gli ampi spazi, per la soavità dell’aria; epperò bloccati sine die in un torpido svernare: culla d’inscalfibile lontananza, molle ombelico d’una impasse – culturale, storica, sociale –, divenuta oramai quasi metafisica.
A sopravvivere – figura d’utopia –, è una Sant’Agata di carta da salvare, una calviniana città invisibile che, nelle sue contraddizioni, è fatta di posti tramutati in altro o cancellati; di voci e persone troppo presto involate; di destini incrociati e ora irrimediabilmente dissolti e di sentieri biforcati, se non del tutto interrotti.
In un paese in cui sembra che a prevalere sia sempre più l’olivastro, il non coltivato che infesta e attanaglia, e a prosperare – beati – gli eterni gattopardi, a minima consolazione rimane quel miracolo di trascurata bellezza che sono gli oltre tre chilometri di litorale, simbolo forse più eloquente della dissipazione del luogo, e dominati da una procace Sirena, ninfa e insieme sbalordita testimone di un ciclopico spreco: a fronte di tanta grazia ricevuta, poca speranza.
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