Se il boomer simpaminizza la ghenga

24 Febbraio 2024

Esiste una fascia di popolazione giovane che si ritiene molto giovane perché usa espressioni come cringe (imbarazzante), crushare (prendere una cotta per qualcuno/a), traiardare (da try hard, impegnarsi moltissimo in qualcosa), lovvare (amare), killare (uccidere), sciottare (sparare), floppare (fallire), senza sapere che questo giovanilese americanofilo non è nient’altro che lo stesso anglicismo usato dagli emigrati nostrani sbarcati a Ellis Island al giro di boa del Novecento, che cercavano di integrarsi in una cultura lontana e sentirsi molto ammericani quando si rivolgevano alla moglie con un: «Santina, sciatta la dora» (chiudi la porta). 

Il fatto è che, soprattutto i molto giovani – coloro che rientrano nell’arbitraria definizione di Generazione Z, i nati a cavallo degli anni Duemila (gli Alpha sono ancora imberbi) – per contraddistinguere la propria identità, tendono, per dirla con il linguista Edgar Radtke, a rifarsi a “motivazioni psichiche vicine a pulsioni narcisistiche miste a ribellione e nostalgia”. Espressioni che un altro studioso, il purista Bruno Migliorini, negli anni cinquanta, avrebbe forse definito “mostriciattoli individuali malconiati e che per fortuna non accennano ad attecchire”. In effetti, probabilmente nessuno dice più “mi piace un pozzo e mezzo” (moltissimo), “simpaminizzare la ghenga” (per riferirsi a qualcuno che è in gamba ed eccita gli amici), oppure “ho gettonato la vecchia” (ho telefonato alla mamma), anche perché i nuovi giovani non sanno neanche cosa fossero i gettoni della SIP.

Chi invece lo sa bene sono i Baby Boomer, i diversamente giovani della generazione post bellica (1946-1964) recentemente tornati agli onori delle cronache per un mímēma, o meme (miːm) – un’animazione più o meno umoristica – in cui una femmina di cane giapponese di razza Shiba Inu, e di nome Kabosu, prese a girare per il web, all’alba del 2019, con una scritta sfottente: “Ok boomer” che, a secondo del contesto, fa vagamente il paio con i nostrani ’sti ca**i (spregiativo), o me’ cojoni (ammirativo), espressioni teorizzate dal vice questore Rocco Schiavone, il personaggio boomer dello scrittore Antonio Manzini. 

Ma che necessità c’è di compartimentare le fasce di età? Sono veramente importanti queste divisioni generazionali? Perché psicologi, sociologi, antropologi, ricercatori statistici, markettisti digitali cercano di definire il più esattamente possibile i confini di età, gli atteggiamenti, le paranoie, la psicologia di giovani, giovanissimi e meno giovani? Semplice, per poter organizzare strategie di marketing per vendere più scarpe, più occhiali, più jeans, più pacchetti vacanza, più magliette. Magari con la condiscendente scritta “Ok boomer”. 

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Un tormentone, questo della scritta il cui dono, all’epoca, sembrava essere quello dell’ubiquità, che ha attraversato tutto il periodo della pandemia, diffondendosi sulle varie piattaforme sociali, musicali, video e quant’altro. Tanto in quel periodo non c’era, in teoria, molto da fare. E questo la dice lunga sugli svaghi intellettuali della Generazione Z e dintorni che, secondo la zizzania seminata in un articolo del New York Times, sarebbe entrata in guerra con i nonni boomer, accusati di cambiamento climatico, diseguaglianze economiche, e di tutti i mali del mondo contemporaneo, magari solo perché usano il cellulare con i tasti grandi.

L’invenzione dei teen-ager

«Ma è proprio così?», si chiede il giornalista Matteo Bordone che ha sentito la necessità di scrivere un libro, L’invenzione del boomer (UTET, 2023), per dirimere l’apparente vexata quaestio e, allo stesso tempo, fare il punto sulle varie generazioni: da quella “perduta” (Gertrude Stein, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, T. S. Eliot) a quella “silenziosa” (di chi è nato negli anni di guerra), ai Baby Boomer alla Generazione X, poi Y, poi Z, poi Alpha.

Il fatto è che «i boomer sono i protagonisti di un periodo storico in cui si mettono in discussione i concetti e le regole che governano la società, dalla famiglia all’educazione», scrive Bordone. «Negli anni cinquanta nascono anche i teen-ager, gli adolescenti, che prima erano solo “adulti non finiti”, e invece diventano soggetti attivi e autonomi nella società». I boomer creano subculture giovanili, nel campo della musica, dell’estetica, dell’arte, del cinema, si travestono da hippie, mod, rocker, punk, dark, inventano il rock ’n’roll. 

Negli Stati Uniti, la categoria generazionale seguita ai boomer veniva spesso indicata anche con il termine Twentysomething, e comprendeva circa 45 milioni di giovani che, per nascita, erano stati tagliati fuori dai grandi avvenimenti politici e culturali del dopoguerra. Erano nati quando John Kennedy era già morto. Erano ancora in fasce quando i Beatles rivoluzionarono la musica rock, e i Beach Boys cantavano la California, le spiagge e il surf. Dei figli dei fiori e dell’estate dell’amore avevano sentito parlare in qualche documentario. Il Sessantotto, il Vietnam e il Watergate li avevano sfiorati quando ancora indossavano il grembiule delle elementari.

L’epica dei Måneskin

È indubbio che «la cultura popolare come la conosciamo oggi», continua Bordone «nasce con i boomer che per la prima volta sono consumatori e poi protagonisti. I Beatles e Jimi Hendrix non sono boomer, ma chi strilla ai loro concerti sì. È boomer la libertà sessuale ed è boomer mettersi un fiore in bocca e andare in un prato strafatti a sentire della musica»: leggi Woodstock.

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Chiaro che con questi precedenti, alle giovanissime generazioni non resta che guardare l’Eurovision Song Contest e tessere l’epica dei Måneskin «giovani romani, bellocci e disinibiti, partiti dalla strada, passati per la giostra di X-Factor, capaci di espugnare Sanremo a colpi di sano rock’n’roll», scrive Stefano Jacoviello, docente di Semiotica della Cultura all’Università di Siena. «La loro è, in realtà, la vittoria della musica leggera italiana che ha finalmente trovato una generazione di producer competenti e musicalmente preparati come all’epoca dell’italodisco. Professionisti del sound capaci di competere sui mercati internazionali, invece di subirli costringendo una come Giorgia a cantare come la corista di Beyoncé. È la vittoria di chi ha pensato che si potesse lavorare con sonorità diverse da quelle in cui si erano fossilizzati i dottor sottili del pop nostrano e confezionare un prodotto capace di rimescolare i target, dimostrandosi allo stesso tempo molto più efficaci di tanti (non tutti) improvvisati assemblatori di campioni, affettuosamente chiamati in gergo “bimbominkia”».

Il vero nemico

Ottimo, ma non proprio abbondante. Anche perché i boomer prima di essere tali erano i sessantottini, i primi pacifisti, quelli che per primi hanno bruciato bandiere e reggiseni, cantato slogan (El pueblo unido jamás será vencido), ottenuto l’aborto e il divorzio. Insomma una generazione che ha già fatto più o meno tutto. «In fin dei conti», annota Matteo Bordone «i boomer nel ruolo dei vecchi non vogliono insegnare ai giovani come diventare adulti, ma come essere davvero giovani, davvero ribelli, davvero antagonisti, femministi, barricadieri, attivisti».

Que reste-t-il de ces beaux jours, si chiedeva il cantautore francese Charles Trenet. Forse nemmeno la Luna. Già, perché pare che si sia ristretta di ben 45 metri e chissà se anche questa colpa sarà attribuita ai boomer, e al loro gingillarsi con i Pink Floyd e The Dark Side of the Moon. 

Anche se i segnali intercettati da studiosi di reti sociali come il giornalista Bhaskar Sunkara puntano il dito non contro i boomer – non sono una generazione di sociopatici come accusa il venture capitalist Bruce Gibney, dice – bensì contro i veri nemici generazionali: «Il vero nemico è quel vostro compagno di classe che adesso lavora in una banca d’investimenti». 

Il look tricologico

Ma, alla fine, come si distinguono, fra loro, che so, un giovane zoomer nativo digitale, da un quasi vecchietto della generazione X? Come è sempre stato, fin dai tempi dei boomer: dal look tricologico. Il dettame emerso dalle più recenti sfilate di moda prescrive, per la Generazione Z che la riga (dei capelli, ovvio) debba essere portata al centro, e che si debba pertanto archiviare l’estetica – prescritta appena qualche Tik Tok fa – del cosiddetto Taglio Broccoli (alla Friedrich Nietzsche, per intenderci), del Mocio Bagnato (il taglio alla Komondor che ricorda i cani da pastore tibetani), o del Wolf Cut (alla David Bowie, anno 1977), pena l’emarginazione sociale. Quella con la “e” finale e, peggio ancora, quella senza. 

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Le grandi rivoluzioni, si sa, sono cominciate quasi sempre dai capelli: dal taglio a cespuglio con barba incorporata di Karl Marx agli inizi del Novecento, a quello a caschetto dei Beatles che ha aperto la stagione degli anni Sessanta e ha accompagnato, da allora, i Baby Boomer nel loro lungo cammino esistenziale, per passare al grunge-look e al malessere musicale di Kurt Cobain, dei Nirvana, dell’album Nevermind e della relativa Generazione X. 

A battezzarla e consacrarla con quel nome fu lo scrittore canadese Douglas Coupland, controparte letteraria di Cobain e del grunge, con il suo primo libro, Generazione X (Mondadori), in cui apparve, tra l’altro, per la prima volta il neologismo McJobs – termine che, unendo la parola Job, lavoro, con Mc preso a prestito da McDonald’s – indicava un tipo di impiego a basso stipendio, basso prestigio, basso futuro che ancor oggi imperversa.

Il romanzo, diventato un best seller mondiale, interpretava l’ansia di una generazione a cui non rimaneva più molto con cui giocare, con cui crescere, a parte una vaga curiosità per l’incombente passato e la sua irripetibile, invidiata, colonna sonora. 

Così, nel suo secondo romanzo, Generazione Shampoo (editore Corbaccio) – quello che farà da ponte e apripista ai Millennial – il protagonista spiega l’importanza, per i Twentysomething, del taglio e della cura per i capelli, dell’esigenza di trattarli con balsamo, frizione, mousse, gel. Il risultato: l’opposto delle criniere incolte del tempo degli hippie. Il ragazzo non ha dubbi: nella vita le decisioni relative ai capelli sono importanti «come il tipo di carta da usare nella fotocopiatrice. I capelli identificano la tua tribù di appartenenza, sono il tuo distintivo di pulizia. Cosa hai sopra la testa la dice lunga su cosa c’è dentro la tua testa». 

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