Sergio Luzzatto. Partigia

6 Settembre 2013

Oltre che un brillante e acuto storico, Sergio Luzzatto possiede anche molte qualità di un vero narratore. Tutti i suoi libri, dedicati a temi storici, a partire almeno da Il corpo del duce, evidenziano spiccate capacità affabulatorie. Per questa ragione non sorprende che Partigia, pubblicato di recente da Mondadori, oltre che un libro di storia, si faccia leggere anche come un racconto. Meglio: un romanzo a riquadri, una sorta di retablo storico-narrativo. Lo dichiara subito l’autore stesso nella prima pagina, scritta in prima persona: “Conservo un ricordo netto, preciso, di quando ero ragazzo…”.

 

Il libro ha dunque un personaggio, Sergio Luzzatto, di cui l’autore segue i movimenti e racconta la ricerca. Una doppia personalità: lo storico, da un lato, che è poi l’autore stesso, e un personaggio, Sergio Luzzatto, che è parte della narrazione medesima. Il pronome “io” è presente nel volume almeno una decina di volte in modo esplicito, e altrettante, se non di più, in modo implicito.

 

L’autore racconta la ricerca che Luzzatto compie intorno a un oscuro omicidio di due giovani partigiani (Fulvio Opezzo e Luciano Zabaldano i loro nomi, che non ci sono nel risvolto editoriale di presentazione). Del resto, il primo capitolo o introduzione, “Partigia”, si apre con un racconto autobiografico, che riguarda quelle che Luzzatto definisce le sue due ossessioni: la Resistenza e Primo Levi. Ossessioni che poi, subito dopo trasforma in “una forma di curiosità intellettuale”, ma che, nel corso del racconto, restano ossessioni, ragione per cui quella che leggiamo in Partigia è una sorta di autobiografia dell’autore stesso, meglio del personaggio che dice io, e che corrisponde al nome e cognome di Sergio Luzzatto.

 

 

Questa divisione in due, o moltiplicazione, non è un fatto meramente letterario, un espediente narrativo che dà al libro una forza e gli infonde un abbrivio davvero notevole, ma è il risultato stesso di una strategia espositiva, e anche di ricerca, e persino di scrittura: è lì che il libro si fa, dopo la ricerca storica di cui l’autore dà conto attraverso Sergio Luzzatto-personaggio. Si tratta infatti di un libro diviso nel suo profondo, tra una devozione di fondo ai due temi-personaggi (la Resistenza e Levi) e l’ossessione stessa dei medesimi.

 

Ma se questo è un pregio dal punto di vista narrativo, perché fornisce carburante alla scrittura del libro, dall’altro lato è un aspetto ambivalente, se non a tratti ambiguo, rispetto al risultato stesso della ricerca storica, al cui ambito l’autore dichiara più volte di appartenere, ribadendolo con forza nel volume. La riuscita del libro, la sua capacità narrativa si appoggia proprio su questa ambivalenza, sulla ossessione/curiosità, mentre l’aspetto della ricerca storica, il suo risultato finale dovrebbe essere invece netto e preciso. Ma così non è, perché la tesi su cui s’impianta il libro – le ragioni e i modi dell’uccisione dei due ragazzi: perché, come, chi – non sono illuminate in modo attendibile e completo alla fine della lunga ed elaborata ricerca di cui dà conto. Resta in piedi la struttura narrativa del racconto, costruito appunto per tavole e riquadri mobili: un retablo.

 

Vale la pena di dire, per chi ancora non lo sa, di cosa parla il libro, esporre la sua fabula, ovvero il riassunto della trama. Due giovani ragazzi, parte di una piccola banda partigiana, sono uccisi dai loro stessi compagni, con un’esecuzione a freddo nell’autunno del 1943, in Val d’Aosta. Di questa banda fa parte anche Primo Levi, catturato subito dopo insieme a altri membri, e finito ad Auschwitz perché ebreo nel 1944. La traccia per l’indagine di Luzzatto la fornisce Levi stesso in un racconto comparso nel volume Il sistema periodico (1975), intitolato Oro. L’autore parte da lì, da quello che Levi definisce “segreto brutto”, e cerca di ricostruire le vicende che portarono all’uccisione dei due giovani, dopo la fine della guerra trasformati in partigiani caduti per mano dei fascisti; per fare questo descrive l’intero campo delle operazioni partigiane e fasciste nella zona, individua personaggi, ricostruisce biografie e forme di partecipazione agli eventi. Come in un vasto romanzo storico, all’inizio del volume ci sono i personaggi principali: quarantasei. Un vero affresco scritto con piglio energico ed elegante.

 

Il riassunto che fornisco – la fabula – è molto sommaria, perché il libro attinge a molte fonti scritte e orali davvero notevoli, e tuttavia non arriva al suo punto cruciale: perché e come furono uccisi i due giovani? Cosa avevano commesso di tanto grave da dover essere mitragliati dai loro stessi compagni? Nel libro non c’è la risposta definitiva. Ci sono ipotesi (8 chili di farina), si parla di “sproporzione tra i delitti e la pena”, ma non si dice quale sia il delitto commesso dai due (vero o presunto). Se questo era il compito storiografico del libro, lo scopo dell’indagine sul campo a settanta anni di distanza, almeno da questo punto di vista, non è raggiunto; resta invece un libro appassionante, ben scritto, un’autobiografia intellettuale e umana dell’autore e del suo stesso personaggio, Sergio Luzzatto, che non figura tra nell’elenco dei personaggi principali di Partigia, ma lo è, e con una presenza notevole.

 

Delle due “ossessioni”, voglio limitarmi alla seconda, quella della figura di Primo Levi, anche lui diviso in due nel libro: il testimone Primo Levi e Primo Levi testimone. Anche se credo che la vera ossessione, che ha dato il via al libro, sia in la prima, quella della Resistenza, cui Luzzatto ha dedicato già un bel libretto, La crisi dell’antifascismo. Nella prefazione, o primo capitolo, “Partigia”, l’autore scrive che “lungi dall’esserne il protagonista, Primo Levi è un comprimario della storia”. Vero. Appare evidente al lettore sin dalle prime pagine che questa storia, simile ad altre storie della Resistenza, di uccisioni oscure nel corso della guerra civile tra il 1943 e il 1945, e anche oltre, non avrebbe una particolare importanza se non vi fosse coinvolto uno dei principali testimoni mondiali dei Lager nazisti (uso Lager e non Olocausto o Shoah a ragion veduta), lo scrittore italiano oggi più noto nel mondo. Senza Levi partecipe della vicenda, il libro perderebbe un forte motivo d’interesse. Se invece di Primo Levi ci fosse un altro scrittore, meno noto, oppure oscuro, o un chimico italiano qualunque, la forza persuasiva di Partigia sarebbe minore: uno dei tanti, purtroppo terribili, episodi di una guerra che si è combattuta tra italiani. Il binomio Resistenza e Levi, agganciati a una vicenda in cui partigiani uccidono partigiani, per di più giovanissimi, dà all’intero racconto un peso maggiore. Non solo editoriale, intendo, ma anche narrativo e persino storiografico: prendere due piccioni con una fava.

 

Luzzatto ha scoperto la “lettera rubata”, che stava proprio lì, davanti agli occhi di tutti, ovvero la dichiarazione di corresponsabilità di Levi in quella uccisione. Sta scritta in Oro, ma anche in una poesia del 1952, Epigrafe, comparsa nelle varie edizioni delle poesie di Levi, da quella privata del 1970, distribuita agli amici, a quella del 1975 uscita da Scheiwiller, e poi in Ad ora incerta del 1984, raccolta pubblicata da Garzanti. Su questa poesia l’autore di Partigia si sofferma poco. Vi parla invece, come in una poesia di Spoon River, un morto che ricorda: “Da molti anni qui giaccio io, Micca partigiano,/ spento dai miei compagni per mia non lieve colpa”. Bisognerebbe leggerla tutta per capire quale sia l’atteggiamento di Levi verso quella “esecuzione”, di cui parla poi nel 1975 in Oro. Ma anche qui, come in altri punti della sua opera letteraria (letteraria, insisto!) Levi non dice quale sia stata la “colpa” (come non lo dice, lo ripeto, l’autore di Partigia).

 

Detto questo bisogna aggiungere che un personaggio importante del libro, insieme allo storico Sergio Luzzatto che sta facendo ricerche, c’è, ed è ben maggiore come personaggio, per ruolo, personalità, e spazio dedicato, di Levi stesso. Si tratta della spia fascista che tradisce Levi e compagni, Egidio Cagni, vero alter-ego del narratore, suo avversario, che l’autore pedina a decenni di distanza, senza tuttavia raggiungerlo (ne perde le tracce negli anni Settanta dopo che è stato anche spia per gli americani, o giù di lì, e l’ha fatta franca nel processo di defascistizzazione del Paese). Bisogna dire che l’autore Sergio Luzzatto è affascinato da questo genere di personaggi, dei “maledetti”, truffatori, ambigui, avvolti nel mistero, a loro modo leggendari. In Padre Pio (Einaudi), altro grande affresco dell’Italia, c’è un altro Cagni, Brunatto, mestatore, spia, commerciante e altro ancora. Personaggi che affascinano Luzzatto, come, a suo modo, Bonbon Robespierre (Einaudi).

 

Ma torniamo a Levi, perché qui sta, a mio avviso, una questione importante che il lavoro di Luzzatto solleva. Prima di tutto le tracce che utilizza per fare di Levi un comprimario provengono da testi letterari. Lo è Oro, un racconto dell’affresco autobiografico del Sistema periodico, cui rimando per una lettura dettagliata, non senza aver detto che in quel racconto si mescolano cose vere e “invenzioni” letterarie: non è affatto un testo testimoniale. Levi “arrotonda” spesso, come lui stesso dice, le sue storie, perché è uno scrittore e non un testimone, almeno in queste pagine. Ma su questo, il rapporto tra lo scrittore e il testimone, fondamentale in Levi, torno alla fine.

 

C’è un contrabbandiere che fa anche il cercatore d’oro, che gli permette di dare al racconto quel titolo, e di inserirlo nel libro costruito intorno alla Tavola di Mendeleev. Ma quanto c’è di vero nel racconto, quanto di testimoniale? Certo, si parla del “segreto brutto”(“lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di esistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era via d’uscita se non all’in giù”). Tuttavia non si può non constatare che il tono dell’ultima parte del racconto è più arioso, fitto di dialoghi, con un personaggio, il cercatore d’oro, leggendario e decisamente letterario.

 

L’autore di Partigia si fonda su questa frase e la cuce con un’altra, che si trova in Se questo è un uomo, proprio all’inizio nella nuova versione del 1958 del libro, quella che ora leggiamo: “A quel tempo non mi era stata ancor insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare nel Lager e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti”. La citazione non è considerata per intero nel libro di Luzzatto, ma scorciata, e quel “conforme a giustizia” viene a collegato a “segreto brutto”, nel senso di “fare giustizia”, ovvero rinviando all’esecuzione dei due giovani partigiani, mentre in realtà il senso del brano riguarda l’impreparazione della banda che li ha esposti alla cattura, e nel caso di Levi alla deportazione ad Auschwitz. Anche il “chi sbaglia paga” è riferito a Levi stesso, e non ad altri. Questo non significa che lo scrittore ridimensiona la sua esperienza di partigiano, ma, come ha detto e scritto varie volte in interviste e interventi, la giudicava “schiappina”, cioè non adeguata alla situazione, qualcosa che ai suoi occhi non aveva avuto il medesimo valore della esperienza ad Auschwitz, per lui fondamentale anche per l’origine della sua stessa attività di scrittore.

 

Ci sono altri punti del libro dove l’autore forza la mano, in particolare nella poesia che dà il titolo al suo stesso libro: “Partigia”. Un testo del luglio del 1981 che Luzzatto interpreta dentro il recinto del “segreto brutto”, ma che invece va letta nel contesto di quello che Levi poi scriverà nei Sommersi e i salvati: la “zona grigia”. Nel 1981 il tema era già stato elaborato, anche se il libro esce del 1986. I versi finali recitano: “Ognuno è nemico di ognuno, / Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,/ La mano destra nemica della sinistra./ In piedi, vecchi nemici di voi stessi:/ La nostra guerra non è mai finita”.

 

Nella zona grigia non c’è netta separazione tra vittime e carnefici, ma ci sono infinite gradazioni di coinvolgimento; nel Lager i deportati più vecchi sono, ad esempio, i “carnefici” dei nuovi, ciascuno sperimenta questa difficile situazione che sconcerta chi separa tra nemico/amico in modo netto: il nemico-amico è dentro ciascuno. Nel libro dello storico non c’è alcuna indicazione riguardo a questo tema della “zona grigia”, a questa straordinaria chiave di lettura, che ci permette di rileggere invece l’intera vicenda seguente l’8 settembre in modo diverso (e anche il contemporaneo, in cui i Lager esistono ancora). Non se ne parla.

 

Levi partecipò alla uccisione dei due ragazzi? Non si sa, né Luzzatto-autore lo dice. Non ci sono testimonianze, non ci sono prove. Levi tuttavia se ne assume nel 1975 la responsabilità: “eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna”. Noi tutti, io stesso; “e l’avevamo eseguita”. Il senso di sconcerto, e forse anche di colpa – uccidere non è mai facile, e poi uccidere dei compagni… – è ben espresso in Oro, ma non torna più nelle opere di Levi se non in quel “dell’inizio torbido e disperato della resistenza partigiana”, di cui in “Storia di dieci giorni”, ultimo capitolo di Se questo è un uomo, Levi racconta ai suoi compagni di prigionia dopo la partenza dei tedeschi e la salvezza nel Ka-be. La vergogna di cui parla più volte nei suoi libri non riguarda mai quell’episodio seppur terribile della Resistenza, ma solo il Lager, quello che hanno fatto i tedeschi; lo dice in modo netto all’inizio della Tregua: la vergogna che assale il giusto davanti a quello commesso da altri. Ora ci sono altri punti del libro dove la forzatura riguardante la lettura di Levi appare evidente, così com’è palese che senza la presenza dello scrittore, e testimone, la storia raccontata da Luzzatto perderebbe di forza, e anche d’interesse generale. E qui cade il vero problema che questo libro solleva, e che più in generale sollevano i libri di Sergio Luzzatto, libri-contro, libri polemici, scabrosi, ma anche coraggiosi, oltre che letterariamente e narrativamente notevoli.

 

Perché coinvolgere Primo Levi? Perché raccontare questa vicenda, così simile ad altre della guerra civile anche più terribili e oscure ancora? Perché Levi è Levi, verrebbe da rispondere. E questo ci riporta all’inizio del libro, al capitolo “Partigia”. Perché Levi è un mito, perché nessun mito è esente da lati oscuri, e ora, dopo questa indagine, l’ossessione di Levi manifestata da Luzzatto trova una risposta. Levi è un padre, come padri sono i resistenti, e padre che vuole, o deve, passare il testimone è Luzzatto stesso. L’inizio autobiografico del libro, evocato al principio, vede il giovane Sergio sul letto di casa, con la madre che gli legge ad alta voce a lui e ai fratelli le Lettere dei condannati a morte della Resistenza edite da Einaudi. Farà così anche lui coi suoi figli? C’è anche un pacchetto incartato in cui è racchiusa una nuova edizione del libro che il padre-Sergio deve, o vuole, passare ai figli. Resistenza e Levi sono dunque i padri da ridimensionare.

 

Questo potrebbe essere il finale del mio intervento, dove il problema si sposta dalla storia alla cronaca, dalle vicende generali a quelle particolari, della generazione di Luzzatto, e anche della mia, dove il tema diventa più personale, ma non per questo meno generale. Capire e far capire significa entrare in gioco, senza troppi indugi o difese preventive. In questo Luzzatto è bravissimo, anche se, a mio parere qui si è fermato a metà. Dove il libro sembra giocato sul doppio – doppia ossessione, doppia figura di narratore e personaggio –, in realtà risulta a metà, fermo sulla soglia da valicare con coraggio: “Spaccato ognuno sulla propria frontiera”, come recitano i versi di Levi in “Partigia”.

 

Ma non è questa la mia conclusione. Bisogna chiudere il cerchio parlando di Levi stesso, il personaggio qui in questione. La domanda importante se l’è posta Mario Barenghi in un recente libretto che raccoglie una sua conferenza: Perché crediamo a Primo Levi? (Einaudi). Perché ci racconta la verità, sempre e soltanto la verità dei fatti? La risposta che si dà Barenghi vale anche per questa storia di fucilazione alla schiena: “il criterio di veridicità, in questo caso, come in altri simili casi, non può essere costituito dalla conformità fra la rievocazione memoriale e un evento intrinsecamente informe, privo di forma, e per di più non documentabile”. Barenghi si riferisce alla vicenda del Lager, ma, come dimostra Luzzatto, ricostruendo il contesto e i singoli avvenimenti intorno all’oscuro episodio di uccisione, la frase vale anche per questa vicenda partigiana. Barenghi fa il caso di Alex, il Kapo che si pulisce la mano sulla giacca del deportato in Se questo è un uomo: il riscontro della testimonianza non solo non esiste, “ma non può esistere, proprio perché si tratta di un gesto automatico”. Se anche si trovasse Alex, se anche testimoniasse, potrebbe avere ancora memoria di quel dettaglio? E ricordarsi l’ora e il luogo?

 

In Levi “ciò che conta è il valore morale dell’esperienza, che non si dà mai tutto nell’hic et nunc (o meglio, nell’illic et tunc)”. Quello che conta è “il lavoro della memoria”. Crediamo a Primo Levi testimone perché è uno scrittore. Se questo è un uomo, intorno a cui ruota l’identità di questo scrittore-non scrittore, come si definiva con una punta di modestia, ma anche con orgoglio, è un capolavoro perché “è il prodotto di una strategia narrativa che poggia su una precisa economia della memoria”. Non è vero che Levi sia stato avaro nel raccontare la sua stagione partigiana, come scrive Luzzatto, semplicemente l’ha raccontata dentro il contesto ben più importante, ai suoi occhi, del Lager. Non perché non sentisse il peso di quella scelta di coscienza durante la sua vicenda partigiana, ma perché nell’economia della sua testimonianza, della memoria, l’accento andava sul Lager.

 

Non so quanto il libro di Sergio Luzzatto contribuisca a mettere in discussione la testimonianza di Levi, la sua stessa breve esperienza di partigiano, di cui non si è mai gloriato, anzi, ma neppure pentito. Se si legge quello che Levi ha scritto nell’aprile del 1955 in una rivista torinese, dieci anni dopo la fine della guerra, in “Deportati, anniversario”, si scopre quale sia già la sua visione dell’intera vicenda della deportazione, dove parla dei carnefici, dei tedeschi, di tutti quelli che hanno collaborato alla eliminazione di altri uomini, come appartenenti alla stessa famiglia umana, cui appartengono le vittime: “Davanti alla enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera”.

 

Nel leggere Partigia, con tutti i limiti che ho esposto, ma con anche i pregi che senza dubbio ha, ho sentito che la figura di Levi si è accresciuta, proprio perché ora più complessa e più articolata, più contraddittoria e aperta di quello che già sapevamo. Non abbiamo bisogno di eroi o di miti, altrimenti finiremo per occupare il nostro tempo per abbatterli, mentre ci serve passare ai nostri figli ed eredi l’idea di un farsi della storia e delle vicende umane più complesso e contradditorio di come sembra a prima vista

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