Venerati stronzi
Ci sono tre tappe fondamentali nell'esistenza dell'intellettuale medio italiano: la prima è quella della “giovane promessa”; la seconda è quella del “solito stronzo”; se poi uno riesce a rimanere a galla così almeno per qualche anno (e per gli stronzi, si sa, non è difficile rimanere a galla), il gioco è fatto: egli assurge finalmente al rango di “venerato maestro”, posizione consolidata da cui nessuno lo scalzerà più, fino alla morte e anche oltre, necrologi commossi compresi.
I tre momenti sono stati individuati alcuni anni fa da Alberto Arbasino.
Edmondo Berselli, in omaggio all'aurea sentenza del Maestro di Voghera, riunì nel 2006 sedici capitoli (più uno di “backstage”) sugli “intelligenti d'Italia” sotto il titolo di Venerati maestri e, parafrasando Leopardi, aggiunse il sottotitolo “operetta immorale”.
Ora, a quindici anni dalla morte dell'autore, l'editore Quodlibet ristampa meritoriamente il testo.
Nauseato dal conformismo dominante e dall'ammirazione fiduciaria, o addirittura dovuta a priori, a molti di questi venerati maestri (in realtà ancora pienamente fermi allo stadio della stronzaggine consueta), Berselli dichiara in apertura di aver trovato, seguendo l'istinto, un nuovo criterio estetico: film, opere teatrali, canzoni, romanzi, saggi, racconti eccetera, tutto andrà diviso semplicemente tra ciò che ingenera “fastidio” e ciò che non lo ingenera. Cosa lo ha indotto a operare tale distinzione fondamentale? Il “malumore” (p.7, declinato anche come “cattivo umore”, p.53 e portato al livello di “malumore grave” a p.110).
Il re è nudo. E bisogna non solo proclamare al mondo la sua nudità. Bisogna anche sputargli in faccia.
In nome di questo scatto e scarto dall'opinione corrente Berselli massacra svariati idola fori o theatri, oggetto di ammirazione incondizionata e indiscriminata da parte del grande pubblico.
Nanni Moretti, ad esempio, uno che viene nominato sempre così, nome e cognome (perché Moretti solo evocherebbe piuttosto il famigerato brigatista rosso, quello del caso Moro nonché collega di Morucci), uno che faceva urlare a un suo personaggio: ve lo meritate Alberto Sordi! Ma forse siamo piuttosto noi che dovremmo urlare: ce lo meritiamo uno come Nanni Moretti! Incarnazione tipica dell'invincibile spocchia di sinistra, quella che crede di stare almeno di una spanna sopra gli altri, tutti gli altri indiscriminatamente.
Oggetto della critica serrata di Berselli è il film Il caimano. Gli si può applicare la stessa riserva fondamentale che Adorno riferiva alla Resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht. Ossia che descrivere Berlusconi come un gangster solitario che ascende al potere non rende ragione dell'intera società di cui anch'egli è, dopo tutto, espressione. Si tratta, in fondo, dell'eterna questione (già sollevata cinque secoli or sono da La Boétie) del perché un tiranno (o un capo dalle dubbie doti democratiche) venga seguito comunque da masse adoranti. La questione della “servitù volontaria”, che peraltro non pare esser stata ancora risolta. Insomma: il problema non è il capo che fa i suoi interessi, il problema sono i seguaci, che non capiscono che i loro interessi non coincidono mica tanto con quelli del capo.
Quanto all'altro campione della sconfinata ammirazione popolare, Benigni (che, a differenza di Nanni Moretti, si può citare anche solo per cognome), Berselli si lavora qui da par suo il preteso capolavoro assoluto La vita è bella. Egli è consapevole che parlare male di un film sulla Shoah è rischiosissimo. Si può passare facilmente per antisemiti. Eppure nonostante questo il film è liquidato come “ciofeca” (p.208). E Benigni, questa “copia e involontaria parodia” di Charlie Chaplin, viene definito, sulla falsariga di certi critici americani, un “one man shoah”.
Come spiegare allora il successo dei due?
Forse con il fatto che essi incarnano due anime della sinistra italiana: una è quella popolaresca, giullaresca, irridente (Benigni); l'altra (Moretti) è inequivocabilmente quella elitaria, estremamente consapevole di sé (anche troppo).
Magari, un giorno lontano, qualche regista di là da venire, riunirà i due, in un film dal finale evocativo, nostalgico, mesto e sarcastico, un po' alla Uccellacci e uccellini, e le due figurine si allontaneranno a passi lievemente traballanti verso un orizzonte sfumato.
Il nome poco sopra citato di Brecht, induce irresistibilmente alla descrizione di un altro venerato maestro, Giorgio Strehler, regista di dispendiosissime messe in scena di Brecht, per l'appunto, dove la noia è almeno pari ai costi di allestimento. L'unico punto a favore delle varie Madri Coraggio o Cerchi di gesso del Caucaso o Opere da tre soldi (anche da quattro o quattrocento) è la presenza, quando c'è, di Milva, l'immortale Pantera di Goro dalla rossa capigliatura e dalla voce inconfondibile.
Con Strehler Edmondo Berselli introduce, quasi di soppiatto, una quarta categoria; accanto a quelle già acclarate di giovane promessa, solito stronzo e venerato maestro, compare qui (p.113) la figura del “Cazzone” (maiuscolo), benché, sottolinea l'autore, le differenze tra Cazzone e venerato maestro siano, a rigore, impalpabili. Forse per questo, nel corso del testo, essa risulterà godere di ridotta applicazione.
Non vengono risparmiati nemmeno alcuni celebri chansonnier italici, detti anche, più popolarmente, cantautori.
Di Battiato Berselli deplora, diciamo così, l'inspiegabile esaltazione, da parte del cantautore siciliano, della “voce tantrica” di Adamo, inteso come cantante, il siculo-belga Salvatore Adamo, “che da anni porta un parruccone da fare invidia a Lucio Dalla”. Quanto a Guccini, ne intraprende una storia, ma “raccontata al suo cane”, ossia il labrador femmina di nome Liù (il cane era di Berselli, che gli dedicò anche un libro poco tempo dopo). Da cui si evince che Guccini più che un anarchico è “un mezzo socialdemocratico” e incline dal punto di vista poetico più a Carducci che a qualche lirico incendiario successivo. Qui peraltro Berselli emette alcuni memorabili apoftegmi: “De André piace a tutti perché parla della figa”. De Gregori, “quel coso là”, è del tutto incomprensibile, ma almeno questo, rendiamogliene merito, l'ha detto chiaro e tondo anche lui: “e non c'è niente da capire”.
Si comprende che un posto privilegiato, tra le figure di riferimento di questo libro, lo ha Alberto Arbasino. Berselli, anche solo seguendo la sua storia editoriale, ne fa il vessillo di un tipico cambio di paradigma nella cultura italiana recente. Da Feltrinelli e Einaudi (di cui viene tracciato un ritrattino al vetriolo, come editore che i libri li fiuta, li aspira, li palpa, ma non li legge) Arbasino è passato a Adelphi. Cioè, a dire, da editori “impegnati” o presunti tali, comunque legati alla sinistra, a un editore, come Calasso, dedito invece “all'epos mesopotamico, i misteri orfici, gli oracoli delfici, il sapere originario, iniziatico”, tradizionale. In sintesi icastica: dalla copertina bianca einaudiana a quella adelphiana color pastello.

Sembrerebbe, il testo di Berselli, “soltanto un cabaret”, come si autodefinisce lui stesso in conclusione (p.254). Ma a noi non pare così.
Innanzitutto: affidare al malumore o cattivo umore un criterio estetico fondamentale non è poi così lontano dall'estetica di Calasso, tanto per dirne uno. Se si leggono certe pagine di La letteratura e gli dei, si vedrà che anche lì la discriminante fondamentale, per distinguere un testo valido da uno no, è fondata sul “brivido che scende lungo la schiena” (p.146). Gli autori validi lo suscitano quelli non validi no.
Quindi Berselli e Calasso non sono così lontani: entrambi sono critici più fisiologici che filologici. (Del resto anche il magno Sainte-Beuve lo era).
Ma poi, cos'è questa distinzione fondante enunciata da Berselli, quella tra opere che infastidiscono e opere che non infastidiscono? Non pare molto lontana dal dualismo crociano di poesia e non poesia. Dal sì o no, pronunciato irrevocabilmente a proposito di un'opera.
Croce è menzionato parecchie volte nel testo di Berselli. E il suo maestro, Nicola Matteucci (ricordato varie volte con affetto) non è stato forse un crociano osservante, almeno all'inizio della sua carriera accademica?
Se poi si tiene conto dello spazio che alla nozione di “intrattenimento” viene dato da Berselli in queste pagine, nel senso che ormai tutto è ridotto ad esso e a niente altro, non può non venire in mente un'altra analogia con il pensiero crociano. Anche Don Benedetto passò dal radicalismo estremo dell'Estetica, con l'opposizione netta ed esclusiva di “poesia e non poesia”, alle più comprensive e larghe nozioni di La poesia, testo del 1936. Qui egli consentiva che potesse esistere, tra le altre, anche la possibilità della “letteratura d'intrattenimento”.
Ciò che Berselli pare deplorare è che oggi (o nel 2006) essa sia unica, che si sia mangiata tutto il resto.
Edmondo Berselli era un uomo di vasta cultura. Come tutti gli uomini di vasta cultura non l'esibiva, la faceva trapelare per indizi.
E allora facciamo ancora un altro passo in questa direzione.
Sarà solo un caso che venga evocato, anche se per antifrasi, il Leopardi (ricordiamo “operetta immorale”)?
A noi non pare. Anche per Berselli come per Leopardi ciò che conta è “lo stile”. Leopardi, ad esempio, in più punti dello Zibaldone, insiste su una sorta di estetizzazione dell'antico. Ossia dice in più d'un'occasione che Orazio era poeta unicamente per forza di stile, contrariamente all'opinione dominante che lo voleva soprattutto poeta morale, gnomico, filosofico ecc.
Anche Berselli (cfr. pp. 52 e 242 per esempio), magari a proposito di Rossana Rossanda, esalta il valore fondante dello “stile”.
Ciò vale, anche e soprattutto per il suo libro. È per lo stile di queste pagine, naturalmente, che viene ristampato. O anche per quello, supponiamo.
Parecchi dei bersagli polemici dell'autore sono scomparsi, altri si avviano a incontrare il loro destino, lui stesso se n'è andato, ma lo stile resta.
Bastino alcuni campioni minimi: “s'annoia, ripubblica cose, rose, reportage su mostre e mostri, scrive e riscrive ricordi” (p.81); oppure, anche questo molto ridotto: “un sequel, un prequel, uno spin off, un remake, va bene tutto, non potrebbe andare meglio” (p.251); o anche questo, un po' più esteso: “e ci sono passati futuristi, dannunziani, tradizionalisti, fascisti, comunisti, evoliani, una proporzione tremendamente alta di radicali e rosapugnoni, poi liberali di ogni foggia, all'americana e all'europea, quindi americanisti, antislamici, animalisti...” (p.163, a proposito dei collaboratori del “Foglio”).
Come si vede è l'elenco, la serie asindetica il tratto stilistico caratteristico della sapida prosa berselliana, evidentemente debitrice, ci sembra, di quella altrettanto folta e martellante dell'amato Maestro di Voghera.
Da non trascurare, poi, alcune perle come questa: “il divulgatore di classe è uno che vi regala il lecca lecca mentre vi infila una supposta” (p.86). O i versi di p.46: “Diciassette anni, Nietzsche, gli dèi, Atene/e il sogno apollineo di un amore/consumato sulla riva erbosa dell'Aniene”, versi apocrifi, attribuiti ai Pooh, mentre potrebbero esser stati vergati tranquillamente da un Pasolini, tra Usignolo e Ceneri, terzina metricamente instabile con endecasillabi ipermetri compresa.
Sono passati diciannove anni dalla prima uscita di questo libro. Sono passati quindici anni dalla morte del suo autore.
Massì: facciamo la domanda oscena: e oggi? Cosa scriverebbe oggi uno spirito libero come Edmondo Berselli?
Forse, constatando che i maîtres à penser di ieri erano i sarti, detti stilisti, e quelli di oggi sono i cuochi, detti chef, sintetizzerebbe il tutto scrivendo che siamo passati dalla filosofia del volant a quella del vol-au-vent. Forse.
