Ugo Mulas, dentro il linguaggio fotografico

5 Aprile 2023

Un omaggio a grande autore, ovvero Ugo Mulas (1928-1973), per la prima grande mostra di un nuovo vasto spazio espositivo, “Le stanze della fotografia”, dedicato appunto alla fotografia, all’interno della Fondazione Giorgio Cini, sull’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Ugo Mulas. L’operazione fotografica (fino al 6/8/2023) è il titolo di questa importante mostra, curata da Denis Curti, direttore artistico dello spazio, in collaborazione con l’Archivio Mulas e il suo direttore Alberto Salvadori. L’occasione è data dal cinquantenario della scomparsa di questo autore diciamo pure “titanico” oltre che trasversale, capace di affrontare il reale nella sua dimensione d’immagine in tutte le sue declinazioni: dai ritratti al reportage sociale, dalle fotografie di moda a quelle per l’industria e l’architettura, da quelle per il teatro a quelle analitiche sulla fotografia che sfociano nelle sue famose Verifiche. Non mancano poi le molte, moltissime immagini e ricerche dedicate al mondo dell’arte e agli artisti più espressivi di quei decenni (fra i Cinquanta e i Settanta): artisti ripresi spesso nei loro studi, al lavoro, per evidenziare il dialogo tra le opere e i loro autori: ecco Lucio Fontana e Alexander Calder, ecco Alberto Giacometti o Fausto Melotti, come pure il vasto universo degli artisti statunitensi quando – a metà anni Sessanta – New York primeggiava come una Mecca dell’arte contemporanea e pure della fotografia. Incontriamo quindi Andy Warhol e la sua Factory, Roy Lichtenstein, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, George Segal, Frank Stella, Jim Dine... e Marcel Duchamp. A lui, infatti, Ugo Mulas dedica un’ampia ricerca, che non a caso aprirà il suo libro La Fotografia (Einaudi, 1973) dove presenta pure quelle Verifiche del 1971-72, di cui più avanti scriveremo.

Ugo Mulas insomma non rifiutava nessun tema: ogni soggetto era un’occasione e uno stimolo per riflettere, per pensare a come affrontarlo con la fotografia, ma avendo sempre presente che il reale ti deve e lo devi guardare in faccia, e che ogni momento ha e deve avere un suo valore. Di conseguenza questa mostra, pensata come una ricognizione su tutta la vasta produzione di Ugo Mulas, risulta gigantesca: circa 300 immagini (tra cui 30 mai esposte prima) che si snodano attraverso 14 sezioni, e in aggiunta documenti, libri, filmati. Il tutto in uno spazio di quasi 2000 mq. Eppure Melina Mulas (figlia di Ugo, fotografa lei stessa ma anche membro dell’Archivio) ci racconta che era impossibile realizzare una vera antologica con le opere del padre: troppe immagini, troppi percorsi, occorreva per forza scegliere e purtroppo anche tralasciare. Certo molte ricerche famose sono esposte in modo esaustivo, ma di altre i curatori hanno dovuto necessariamente e con sofferenza fare solo un accenno ragionato. E questo anche nel caso di opere poi sfociate in libri come, ad esempio, New York: arte e persone, Vent’anni di Biennale, fino ai più recenti Danimarca (Humboldt books, 2017), Cirque Calder (Corraini, 2014), Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70 (Johan&Levi, 2010). 

Dentro questi “troppi percorsi”, accenniamo rapidamente alle sue prime immagini degli anni Cinquanta: ovvero quelle dedicate da Mulas al mitico bar Jamaica, luogo d’incontro e confronto di artisti e scrittori, dove lui conosce il fotografo Mario Dondero che gli mette in mano la sua Leica e gli dà qualche rapida istruzione sull’uso della fotocamera. Troviamo pure quelle, immancabili per ogni fotografo impegnato, dedicate alla periferia milanese dove stanno crescendo a ritmo vertiginoso condomini su condomini che divorano la campagna. Qui Mulas evita quelle scenette in stile finto neorealista con coppie che si baciano davanti a tali monumenti di edilizia anonima, ma ritrae un gruppo di operai che, nella neve fangosa, segnata dalle ruote delle auto, tornano nelle loro case dormitorio. Certo, in questi suoi primi passi dentro la fotografia il nostro autore si esprime secondo la poetica neorealista di quegli anni, ma già si manifesta in lui il bisogno di guardare in faccia la realtà e al contempo di interrogare tenacemente, incessantemente, il linguaggio della fotografia senza mai tradirlo. 

Ma concentriamoci ora sui suoi ritratti, molti dei quali esposti qui per la prima volta: guardiamoli come un punto di partenza per iniziare una riflessione su alcuni snodi centrali del lavoro di Mulas attorno all’Operazione fotografica. In mostra si vedono una serie di ritratti in primo piano che lui dedicò a Renato Guttuso, Mario Schifano, Arnaldo Pomodoro, Emilio Vedova, Maria Callas, e a uno straordinario Alberto Moravia che intensamente scruta Dacia Maraini, ripresa di profilo, con lo sguardo volto verso chissà dove… Si tratta di fotografie dirette, frontali, dove Mulas non chiede ai suoi soggetti di “essere naturali” perché è consapevole che questo sarebbe un inganno. Il soggetto ripreso – ragiona Mulas – messo davanti a una macchina fotografica non potrebbe sentirsi e apparire intimamente naturale, ma solo fingere di non sapere che il fotografo è lì davanti a lui. «Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina, e non fa altro che posare (…) Nessuna finzione verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile» – racconta. Uno di fronte all’altro, da una parte sta il guardato dall’altra il guardante che si pone come un testimone neutro, né eccessivamente empatico, né eccessivamente distante. Il risultato sono immagini dove il soggetto non appare colto in un attimo “ispirato”, bensì pare come sprofondare al proprio interno, mentre al tempo stesso ci guarda negli occhi. Questi volti non si mostrano nella loro apparenza mutevole, ma divengono presenze, apparizioni. 

E quando Mulas fotografa, tra il 1961 e il 1962, gli spettacoli teatrali del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler, ecco che si rifiuta ugualmente di puntare su una verosimiglianza illusoria o su immagini espressive dei gesti o dei volti degli attori. Come rappresentare in fotografia un’illusione scenica, una finzione che si manifesta? – si chiede lui stesso. Così nel fotografare L’opera da tre soldi, Galileo e Schweyk nella seconda guerra mondiale, di Bertolt Brecht, decide di scegliere uno sguardo “impersonale” e lasciare che la macchina registri ciò che “vede”, posizionando la fotocamera con cavalletto nel centro della platea, tra l’ottava e la dodicesima fila di poltrone, là dove in genere si dispone il regista stesso quando dirige le prove. Usa cioè la fotografia per quello che è: un apparato prospettico con un unico punto di vista che, nell’immagine ottenuta, indica anche l’altezza dello sguardo e la distanza dal soggetto. Il tutto realizzato come se stesse seguendo un manuale del perfetto prospettivista rinascimentale: punto di vista centrale privo di fughe prospettiche, ad altezza d’uomo, con una distanza né eccessiva, né troppo ravvicinata, così da evitare aberrazioni visive.

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Come scrive Elio Grazioli (Ugo Mulas, Bruno Mondadori, 2010) egli trasforma la sua fotografia «in un “quadro” cioè nell’immagine completa, incorniciata, di ciò che vede (…) In questo “non aggiungere nulla”, in questo star fermi, è il teatro e solo il teatro a muoversi, a parlare». D’altra parte la teorizzazione dello straniamento da parte di Brecht non implica un banale allontanamento, ma vuole imporsi come una critica dell’illusione. Ai suoi attori Brecht non chiede di immedesimarsi completamente con i personaggi della storia recitata perché non devono mentire in merito alla loro posizione d’interpreti. «Mai, nemmeno per un attimo, egli si trasformi interamente (…). Egli deve limitarsi a mostrare e a rendere artistico anche l’atto del mostrare» (in: B. Brecht, Breviario di estetica teatrale). Ma non è forse quello che fa anche Ugo Mulas con le sue immagini? Ovvero creare “buone” fotografie che mostrano quello che stanno mostrando per non mentire sullo statuto epistemico della rappresentazione: fotografie dunque che s’impegnano a fare dell’immagine una questione di conoscenza e non d’illusione. 

Un aspetto, quello dell’immagine che si autodichiara come inquadratura, sottolineato anche – come mi ha spesso raccontato la fotografa Paola Mattioli, una delle sue ultime assistenti – dalle sue stampe riquadrate da un righino nero, nato in fase di ripresa a indicare la fine del fotogramma. Tale righino indica che la fotografia «non è modificata nella stampa con ingrandimenti di dettagli o tagli posteriori, si mostra tutta sin nella sua fine; e in più il righino – raffinatamente sottilissimo (…) costituisce una chiusura, un non dimenticare di aver scelto quel taglio nella discontinuità, quel frammento, quel gesto fotografico» – scrive Mattioli nel suo recente libro L’infinito nel volto dell’altro (Mimesis, 2023). Ma c’è di più: Mulas impaginava le sue fotografie su carta sensibile in modo in apparenza anomalo: stampava le immagini verticali su fogli orizzontali, e viceversa, anche nel caso delle fotografie quadrate. Tale rovesciamento contro-intuitivo del campo bianco che accoglie l’immagine, aggiunge a sua volta una tensione perché non “accompagna” o rafforza il formato dell’inquadratura fotografica, ma la contraddice creando una relazione di disgiunzione visiva. Certo, tale aspetto può apparire oggi marginale, ma non dobbiamo dimenticare che negli anni in cui lavorava Mulas simili attenzioni e riflessioni, relative al campo visivo e percettivo, erano ampiamente dibattute e analizzate dalla psicologia della Gestalt, all’epoca considerata centrale.

Non a caso, questo tema del formato viene indagato anche nella ultimamente ritrovata Verifica 10. Il formato. Una Verifica curiosamente assente nel libro di Mulas La Fotografia, che passa dalla n. 9, “Il sole, il diaframma, il tempo di prova – dove presenta i 36 scatti della pellicola eseguiti dalla notte al giorno e dal giorno alla notte – alla n. 11 L’ottica e lo spazio, Ad A. Pomodoro”. Dunque che cosa appare in questa preziosa e misteriosa Verifica 10? Niente, e tuttavia molto, perché anche qui, come nella Verifica 11, la prima frase scritta è “Foto non fatta”, ovvero fotografia solo pensata e progettata, ma non scattata. In sintonia con Duchamp, quindi, Mulas mette in atto un’operazione assolutamente “anti retinica”, anti visiva, puramente concettuale. Egli scrive: «Stampare una fotografia in un formato anziché in un altro vuol dire […] aggiungere qualche cosa a questa immagine, cioè non è indifferente che una foto sia stampata molto piccola o media o molto grande». E certamente all’epoca in cui scriveva Mulas non poteva sapere quanto questa sua riflessione sul formato fosse anticipatoria rispetto al lavoro di molti autori contemporanei – soprattutto della cosiddetta “Scuola di Düsseldorf”, ma non solo – per i quali il grande formato diviene basilare per il senso delle loro opere. Basti pensare alla serie Tripe di Thomas Ruff, in cui l’artista parte dai vecchi e danneggiati negativi su carta in formato 30,5x 38 cm che Linnaeus Tripe (1822-1902) realizzò in Birmania e a Madras, per rielaborarli e soprattutto ingrandirli fino a portarli a una dimensione di oltre 80x103 cm. Un’operazione, quest’ultima, che trasforma le sue opere in una riflessione soprattutto sui segni del tempo che si sono incisi su tali storici negativi e meno sul soggetto che le fotografie mostrano. 

Ma torniamo alle Verifiche, che costituiscono una basilare riflessione e analisi sull’operazione fotografica, dove ogni opera s’interroga sui suoi elementi costitutivi. «Che cosa è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o il grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia?» – scrive Mulas nell’introdurre questa sua serie di opere accompagnate da riflessioni e titoli che sono spesso omaggi ad autori fondamentali per la storia della fotografia. Una ricerca – questa di Mulas – che potremmo definire “rivoluzionaria”, tanto diventerà un punto di riferimento per gli autori successivi. Dato che gli storici della fotografia si lamentano sempre di quanto la fotografia sia relegata in un angolo, anziché essere inserita nel mondo della storia dell’arte, proviamo a riflettere su Le Verifiche alla luce di quando stava accadendo, appunto, nel mondo dell’arte. Un mondo, per altro, che Ugo Mulas conosceva benissimo come dimostrano le sue innumerevoli fotografie, presenti in mostra, dove si documenta proprio la sua relazione con l’arte. Ebbene, giusto negli anni delle Verifiche, accanto a movimenti come la Narrative Art, l’Arte Povera o il Minimalismo, si stava imponendo all’attenzione quella che il critico d’arte Filiberto Menna chiamò, in un suo celebre libro, La linea analitica dell’arte moderna, cioè un’arte che riflette su se stessa. Non è quindi un caso se nella mostra dedicata a Mulas, Qu’est ce que la photographie? (a cura di Clément Chéroux e Karolina Ziebonska-Lewandowska, Centre Pompidou, Parigi, 2015) accanto a varie opere tratte da Le Verifiche, si trovasse anche una serie dell’artista Giulio Paolini, per l’esattezza Sette fotogrammi della luce, del 1969. Qui l’artista, come viene scritto nella presentazione dell’opera «ha ingrandito le sue fotografie al massimo fino a far apparire la grana dell’immagine. Egli dimostra così che l’immagine fotografica è essenzialmente costituita da cristalli di alogenuro d’argento (…) Penetrando nel cuore della fotografia egli ne distrugge allo stesso tempo la funzione principale: le sue immagini divengono astratte. Esse non rappresentano più nulla se non il principio fotografico stesso». 

Ebbene, tale opera di Paolini non può non ricordarci la Verifica n.5, L’ingrandimento. Il cielo per Nini (sua moglie Antonia, grande fotografa lei stessa). Mulas prima fotografa il cielo con i 36 fotogrammi della pellicola; poi ne ingrandisce uno al massimo fino a mostrarne la grana; e nella terza operazione prende un piccolo particolare e di nuovo lo ingrandisce fino a far sparire il cielo e a far emergere solo i coaguli di sali d’argento. Certo, è facile che Mulas non conoscesse per nulla quest’opera di Paolini (per altro di proprietà del Centre Pompidou e poco nota) eppure, com’è facile intuire, il ragionamento di base, per Paolini e per Mulas, risulta simile: più la fotografia s’ingrandisce, meno si avvicina alla realtà, ma anzi la fa sparire in un insieme di coaguli, rivelando solo la materia di cui è composta la pellicola. In ogni caso, è certo che Mulas conoscesse altre opere di Paolini: nell’attuale mostra di Venezia sono infatti presenti varie opere della sua serie Vitalità del negativo. Si tratta di immagini dedicate alla mostra del 1970, con titolo identico, curata da Achille Bonito Oliva per il Palazzo delle Esposizioni e che presentava molti dei principali artisti dell’epoca, compreso Paolini. Qui dunque vediamo, tra varie immagini di Mulas, anche uno scatto – come sempre pensato e non casuale – proprio dedicato a un’opera di Paolini, artista che – come abbiamo appena visto – in quegli anni compiva un’analisi strutturale della fenomenologia del dipingere e del visivo, trasformando così il suo fare artistico in una grammatica di operazioni che avevano per soggetto il quadro. Proprio in occasione di quella mostra del 1970, nasce non a caso la Verifica 3. Il tempo fotografico. A J. Kounellis (che è anche la fotografia della copertina del libro di Johan & Levi di Vitalità del negativo) in cui Kounellis esponeva un pianoforte suonato da un pianista alcune ore del giorno. Con i suoi trentasei scatti del rullino, Mulas mette a confronto il dipanarsi della musica con quello ripetitivo e immobile del tempo fotografico: infatti, ciò che vediamo è sempre e solo un pianista seduto davanti a un pianoforte in un grande spazio neutro. Ed eccoci così di nuovo in sintonia con gli insegnamenti dell'amico Duchamp: quest’opera di Mulas infatti si presenta come un prelievo simile a un duchampiano ready made. Si tratta in fondo di qualcosa di elementare – praticamente una fotografia in apparenza sempre uguale ma scattata in tempi diversi – dove il prelievo fotografico, fatto in modo perfettamente neutro, si offre però come un’apertura dialettica della differenza, si apre alla riflessione, alle molteplici riflessioni che ogni Verifica ci invita a compiere. 

Ugo Mulas. L’operazione fotografica

Fino al 6 agosto 2023. Le stanze della fotografia, Isola di San Giorgio Maggiore (Venezia) 
Catalogo: Marsilio Arte, € 55,00

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