Unione Sovietica. Coda e Cucina

17 Novembre 2015

Pubblichiamo in antemprima due brani estratti dal libro di Gian Piero Piretto, Indirizzo: Unione sovietica. 25 luoghi di un altro mondo, un viaggio alla scoperta di 25 luoghi emblematici dell'Unione sovietica. Spazi pubblici e ambienti privati che avevano specifici significati e funzioni ai tempi dell'urss e che ora ne hanno assunti di completamente diversi, o addirittura sono stati sostituiti da differenti realtà urbane, in uscita per Sironi Editore.

 

 

Очередь – Očered’ – Coda

 

Cominciamo con un paradosso. I cittadini sovietici, ed è stata un’amica russa a darmi questa lezione alcuni decenni fa, erano contenti quando, uscendo per la spesa, vedevano le code davanti ai negozi. Nell’ambito di quell’economia così particolare, coda significava prodotti disponibili, a costo di una lunga e non sempre fortunata attesa; si trattava di un’opzione sempre preferibile alla mancanza cronica o assoluta di beni di consumo, segnalata dall’assenza di aspiranti compratori e delle onnipresenti file. Quasi assurdo e inattendibile per un occidentale nato e cresciuto nel consumismo, ma in fondo ragionamento ineccepibile e addirittura condivisibile, seppure a costo di qualche riflessione e di alcune rinunce alle proprie scontate categorie culturali. Operazione forse ancora più difficile per un italiano abituato all’assoluta mancanza di disciplina dei propri connazionali su questo fronte e disavvezzo all’idea di occupare pazientemente un posto dietro altre persone che mirano a una meta comune, dall’autobus alla cassa di un supermercato.

 

 

Molti studiosi si sono cimentati con interpretazioni socio-antropologiche di questo fenomeno, oltre a economisti e merceologi. Proviamo a considerare la coda uno spazio, un territorio culturale in cui, loro malgrado, esseri umani diversi si trovano a dover condividere tempi anche lunghi, tensioni emotive, rapporti sociali, eventuali risse o, più rare, occasioni di conoscenza e socializzazione. A farla diventare un luogo.

 

 

Le donne erano le candidate più scontate a occupare una postazione non appena scorgevano una fila “promettente”, o per il genere di articoli in vendita nel negozio in questione, o per la necessità che spingeva a tentare la sorte, proprio là dove già decine se non centinaia di altre contendenti si erano schierate. Nelle circostanze più sensazionali, quando in palio ci fossero prodotti deficitari da tempo memorabile o particolarmente ambiti, altri membri della famiglia, o amici e conoscenti, si univano alla vittima deputata per ottenere quanti più “pezzi” fosse possibile, visto il razionamento che regolava la distribuzione. In molti casi ci si aggregava alla fila senza ancora sapere che cosa ci fosse in vendita, anzi, per dirlo alla sovietica «che cosa dessero». Čto dajut?, «Che cosa danno?», non «Che cosa vendono?» e la scelta lessicale già tradiva lo stato di cose. Non si andava a comperare ma quasi a ricevere un’elargizione che stava tra la ricompensa e la beneficenza, la conquista rabbiosa di un qualcosa di dovuto e la lotta indispensabile per acquisirlo, tra la ressa, le difficoltà, il freddo. Questa era la classica domanda di chi si univa al percorso, alla frequentazione di quel luogo. Perché di un percorso si trattava, una sorta di viaggio che si sviluppava in un territorio ben determinato, da effettuare in compagnia, anche se spesso, e nel migliore dei casi, gli altri passeggeri venivano ignorati del tutto. A meno che qualcuno non trasgredisse le regole. Di vere e proprie leggi si era munita la coda sovietica, non scritte ma ben note a tutti. E, se su quel mezzo di trasporto così particolare si saliva, queste andavano rispettate. Un romanzo di Vladimir Sorokin del 1985, che proprio La coda si intitola, di inevitabile quanto gradita citazione, aiuta a scoprirle chi non ne fosse al corrente. Dall’appello chiamato più volte al giorno per verificare che nessuno di chi si era iscritto avesse abbandonato la postazione, pena l’esclusione dal posto in fila, agli svariati rapporti umani, non ultimi quelli amorosi (per lo meno nella realtà romanzesca), che potevano nascere in occasione di una coda che si snodava per ore, se non per giorni. Non si vedevano che le spalle di chi stava in piedi di fronte a sé, ci si spostava di pochi centimetri all’ora, talvolta al momento agognato in cui arrivava il proprio turno le addette alla distribuzione chiudevano lo sportello perché la merce disponibile era finita. Esperienza collettiva in cui ciascuno esaltava, se possibile, la propria individualità, armato contro tutti, rassegnato all’investimento temporale, alla fatica, alla noia ma non certo alla rinuncia o alla sconfitta. Ci si metteva in coda per tutto e non, come succedeva in Occidente, per concludere l’acquisto di merce già acquisita, ma per conquistare il diritto a ricevere qualcosa in cambio di quel sacrificio. Uno dietro l’altro. Tutto il Paese in ordinata fila interminabile, gli uni addossati agli altri, come ai russi in fondo non è mai dispiaciuto vivere. Dalle antiche izbe contadine in cui, a dispetto dell’immensità dello spazio circostante, ci si ammassava compatti, accatastandosi addirittura, in cerca di quell’intimità e di quel far fronte comune indispensabile nella mentalità di quel popolo. Gruppo, comunità, collettivo, se lo si vuol dire, ancora una volta, in lingua sovietica. Gruppo forzato in questi casi, come negli appartamenti in coabitazione, ma in qualche maniera sempre legato all’atavica necessità di stare coesi e vicini.

 

 

Sempre in coda si avanzava, ad altrettanto piccoli passi, seguendo una linea tracciata sul selciato senza sgarrare di neppure un centimetro, pena il richiamo secco e violento del miliziano di servizio, verso la mummia di Lenin conservata nel mausoleo, in chilometriche file che si snodavano sulla piazza Rossa, uniche di cui il potere sovietico andasse fiero e che mostrasse al mondo con orgoglio. Questa coda era impostata sulla fede politica, talora sinceramente spontanea, spesso oggetto di doverosa testimonianza se non obbligo istituzionale, ma con la macroscopica differenza, rispetto alle altre code, che il raggiungimento del punto d’arrivo era garantito e che i pochi secondi di visione della sacra salma sarebbero stati assicurati a tutti, senza brutte sorprese o delusioni. Il “prodotto” Lenin era inesauribile, mummificato per l’occasione.

 

In coda si stava per i biglietti per teatri, mostre o concerti. Micro viaggi quotidiani, ripetuti fino all’esasperazione ma affrontati con rassegnazione e dignità. Il punto d’arrivo non segnava la fine, caso mai una tappa, visto che altri viaggi in compagnia di nuovi o vecchi passeggeri erano incombenti e necessari. E di nuovo si partiva: con qualunque tempo, pressoché immobili, senza poter dare alcun contributo alla realizzazione o alla velocizzazione del percorso che non fosse la pazienza e la determinazione a resistere e non abbandonare. Apparentemente inerti e inattivi nel vuoto, in realtà frementi e partecipi nell’aspettativa, la grande ragione di esistere delle code.

 

Negli anni della perestrojka Gorbačëv si fece beffa delle donne che, con strategie di sopravvivenza, avevano elaborato negli anni tattiche che permettessero loro di conciliare gli impegni lavorativi con gli obblighi domestici di approvvigionamento. In altre parole, piccole o grandi fughe dai posti di lavoro per mettersi in coda e tornare a casa non a mani vuote erano all’ordine del giorno. Tra le campagne moralizzatrici della seconda metà degli anni Ottanta ci furono anche i controlli a tappeto esercitati dalla milizia per verificare se le massaie che avevano preso posto in coda fossero effettivamente libere da impegni professionali. Insomma, oltre al danno anche la beffa. L’impopolarità del leader tra i suoi concittadini fu dovuta anche a questo.

 

Una tra le code storiche più memorabili fu quella che si snodò in una Mosca ancora sovietica il 31 gennaio del 1990 in occasione dell’apertura del primo McDonald’s del socialismo. Operava in rubli, offriva cibi inauditi e sconosciuti, era un avamposto del capitalismo e degli Stati Uniti. Una coda di ore fu ritenuta obbligatoria e quasi una festa dai moscoviti che vi si assoggettarono con entusiasmo. Questa volta, a differenza delle consuetudini decennali, il risultato era garantito, un po’ come con Lenin mi viene da dire rischiando la blasfemia: McDonald’s aveva aperto proprie fattorie e proprie piantagioni in urss per assicurare la produzione di carne e verdure necessarie a far sì che le sue scorte fossero inesauribili. Una coda quasi edonistica e ludica in confronto alle migliaia già sperimentate in passato.

 

 

Nell’agosto del 2013, in seguito alle controsanzioni putiniane nei confronti dell’Occidente, il mitico locale è stato chiuso. Come la sua apertura era stata mitologicamente interpretata in chiave di distensione verso l’Europa e il resto del mondo, altrettanto la sua chiusura è stata commentata come uno dei pericolosi segnali di volontà di isolamento che arrivano dal Cremlino.

 

Una foto di Roberto Koch, tratta dall’album Istanti di Russia del 1990, documenta la reazione di due giovani soldati sovietici premiati dopo la lunga epopea: stupiti e incantati di fronte al contenitore dell’hamburger, prima ancora che alle prese con il contenuto. In un Paese dove le confezioni erano approssimative e improvvisate una tale dispendio di sacchetti, bicchieri di carta, tovagliette sorprendeva già di suo. E non stupisce che i recipienti di polistirolo che contenevano i Big Mac venissero serbati, accuratamente ripuliti ed esibiti poi a casa come trofeo.

 

 

Del resto il poeta Iosif Brodskij racconta di aver condiviso con i genitori, nell’appartamento leningradese in cui visse per molti anni, una scatoletta vuota di carne in scatola americana esposta in bella vista sul comò. E chi di noi non ha tra i suoi trofei una lattina che abbia contenuto caviale sovietico doc? Esotismo per esotismo. Anche se la fatica della conquista è stata incredibilmente impari. Concludo con l’ultima, in ordine di tempo, memorabile coda snodatasi a San Pietroburgo il 14 maggio 2015 e legata proprio a Brodskij. In occasione di quello che sarebbe stato il suo settantacinquesimo compleanno, è stata aperta al pubblico, per un solo giorno, la «stanza e mezzo» in cui visse da giovane con i genitori. L’attesa in coda è stata di circa sei ore ma i suo concittadini non hanno rinunciato a rimettersi in fila per rendere omaggio a quello spazio mitologico, per la storia della poesia russa ma, anche e soprattutto, per la storia della vita di quel Paese.

 

 

 

Кухня – Kuchnja – Cucina

 

Lo spazio reale a cui si riferiscono questa pagine era, quando esistente, angusto e ridotto al minimo. La cucina di un appartamento individuale, dunque non quella comunitaria dell’alloggio in condivisione, nella maggior parte dei casi si riduceva a quello che oggi, non senza eufemismi da immobiliarista, si chiamerebbe angolo cottura. La valenza dello spazio semiotico raccolto e intimo della cucina si allargava, anche se di pura perifrasi nella maggior parte dei casi si trattava, alla stanza che, nella più ricorrente delle accezioni, era l’unica dell’appartamento in cui si viveva, mangiava, dormiva, studiava e molto altro ancora. La sua dimensione leggendaria, a dispetto della metratura effettiva, si è però dilatata ulteriormente fino ad assumere proporzioni imponenti e a collocarsi nella mitologia culturale al posto d’onore per il significato che le serate-nottate trascorse tra quelle mura hanno acquisito. Prendiamo le mosse dal testo del 1990 di un cantautore ben noto negli anni sovietici, Julij Kim: si tratta di un poema-sceneggiatura teatrale sul genere delle song brecht-weilliane, intitolato proprio Moskovskie kuchni (Cucine moscovite). Il prologo, che apre la strada a un intreccio costruito sul ricordo di quelle serate interminabili dedicate alla memoria dei non conformisti, di coloro che la pensavano in modo diverso dalla convenzione del discorso ufficiale, offre in pochi versi il miglior ritratto che di una cucina sovietica sia mai stato scritto:

Sala da tè uzbeca, tavola calda,

studio e bettola dove si gioca d’azzardo,

e soggiorno-stanza da ricevere

una volta detta salon,

osteria per il bullo di passaggio,

asilo notturno per il poeta senza tetto.

In una parola, cucina moscovita:

dieci metri per cento persone!

Bicchieri a faccette,

fragore vetroso,

bottiglie verdi piene

di quella, di lei, della nostra amata,

oh, quante ne abbiamo vuotate

con le acciughe e i ghiozzi,

e poi ammucchiate in un angolo

per i secoli!

 

 

Là ci si ritrovava tra amici fidati a passare insieme ore che si protraevano per notti intere, a parlare, discutere, leggere, litigare, innamorarsi, cantare, ridere, piangere. Era il territorio della “protesta” più autentica e in maggiore sintonia con il più puro spirito russo: non fragorosa, non eclatante, non mirata a uscire dai confini ma a fornire a chi non sopportasse la meschinità, la trivialità, la bassezza di ogni giorno, qualche momento intenso, sincero, fuori dalla norma, dai canoni, dallo squallore. L’abitudine a incontrarsi in cucina sorse negli anni Sessanta e si protrasse fino alla perestrojka di metà anni Ottanta. Ho commentato sopra le ragioni per cui i ristoranti non erano graditi al pubblico sovietico non “accreditato”, oltre a essere per molte di queste persone inarrivabili sul fronte economico. E allora si prese a trovarsi a casa di chi disponesse di un appartamento indipendente, per piccolo che fosse. Riservando l’accesso a persone fidate e attendibili, cercando di evitare infiltrazioni strategiche, che pure avvenivano nonostante le precauzioni, da parte dei cosiddetti stukači (spioni), che poi andavano a riferire a chi di dovere informazioni e discorsi rubati.

 

 

Chi era in possesso di testi letterari, iconografici o musicali “proibiti” li condivideva, anche recitati a memoria se mancava per ovvi motivi la copia stampata o registrata. Si ascoltavano e commentavano lì le canzoni dei cantautori (Vysockij, Okudžava, Galič), le poesie dei poeti “non raccomandati” (Achmatova, Mandel’štam, Cvetaeva) o di quelli giovani e nuovi (Cholin, Brodksij, Rejn). Si commentavano le ultime notizie non convenzionali, quelle che le fonti di informazione sovietiche non facevano circolare. Ci si sintonizzava, se esisteva un apparecchio radio a onde corte, sulle stazioni non ufficiali (The Voice of America, Radio Liberty), quando gli oscuramenti e i disturbi procurati ad hoc non ne impedissero la ricezione. Si preparava e consumava cibo, si pronunciavano infiniti brindisi, si dibattevano problemi esistenziali, politici, personali, che altrove non avrebbero trovato spazio né atmosfera. Si beveva molto, moltissimo, non solo per ubriacarsi (anche se alla fine qualcuno sbronzo inevitabilmente ci finiva) ma soprattutto perché «lei, la nostra amata e cara», come scrive Kim, la vodka, era commensale imprescindibile e compagna fatale di tutte le emozioni entusiasmanti o tragiche che segnavano quei momenti.

 

Si sviluppava quello che, sempre Kim, immortalò come il russkij nočnoj razgovor (dialogo russo notturno):

“Russia, Russia, Russia” – ma è pura schizofrenia!

“Russia, Russia, Russia” – ma che razza di delirio ereditario!

È stato detto, per la miseria,

“La Russia non si può capire con la mente,

nella Russia si può soltanto credere”.

Oppure no.

 

La ristrettezza dello spazio avvicinava fisicamente, mentalmente e metaforicamente. Ci si sedeva ovunque: sulle poche sedie a disposizione, sul letto per l’occasione trasformato in divano, su sgabelli scomodissimi, sul pavimento di legno. E tutto intorno si affollavano i mobili: gli scaffali protetti da vetri scorrevoli, colmi, a seconda della tipologia dei padroni di casa, di libri in triple file o stoviglie e soprammobili.

 

 

Il fumo di mille sigarette riempiva l’aria e si mescolava agli odori di cibo, di profumi femminili, di sudore. Talora si prendevano precauzioni tattiche che lasciavano esterrefatti noi stranieri alla prime armi: musica o televisore ad alto volume per coprire i discorsi ed evitare di essere ascoltati dai vicini al di là della parete, acqua scrosciante in bagno per la stessa ragione, fino al (forse) folcloristico cuscino sul telefono per isolare eventuali microfoni.

 

Sulla tavola la kleënka (tela cerata) e le stoviglie più assortite, gli immancabili stakany granënye (bicchieri a faccette), tazze, porta bicchieri per il tè, bicchierini, piatti di ogni foggia e il cibo che definirei, a questo punto della storia, quasi rituale. Nel film forse più di culto della storia sovietica, Ironija sud’by, ili s lëkgim parom (Ironia del destino o buon bagno di vapore, 1975), la cucina è teatro di molte scene fondamentali, anche se l’intreccio rimanda a incontri più privati di quelli a cui faccio qui riferimento. Un fotogramma in particolare, dedicato al momento della preparazione della cena di capodanno, coglie il protagonista che osserva la propria madre seduta in una cucina un po’ troppo perfettina per essere pienamente credibile, alle prese con i cipollotti per l’insalata Olivier (la più vera delle insalate russe), l’uovo sodo, la scatoletta di šproty (gli spratti di Riga affumicati e conservati sott’olio), la cerata, l’invadente mole del frigorifero. Tutti dettagli che chiunque abbia passato almeno qualche ora in una cucina sovietica non potrà non riconoscere senza qualche fremito.

 

 

Non voglio però che si pensi che di sole notti da cugini carbonari fosse costituita la convivialità sovietica. Le stesse stanze accoglievano anche tavolate allegre e scanzonate, oltre che cospiratrici e alternative. Lo spazio restava ugualmente compresso e dilatato allo stesso tempo. Ci si incastrava al proprio posto, lasciando via più o meno libera alla padrona di casa che gestiva stoviglie e portate, anche se, secondo l’uso russo, all’arrivo dei convitati la maggior parte dei piatti già faceva splendida mostra di sé sulla tavola e le occasioni per alzarsi o muoversi erano davvero ridotte al minimo. In questi casi la tovaglia non era di cerata ma di lino e il vasellame più ricercato ed elegante.

 

Una gran quantità di zakuski (antipasti), caldi e freddi, tanti bicchieri e tante bottiglie: vodka, vodička (bibite analcoliche gassate di marca sovietica), Pepsi o Fanta (quanto iniziarono a essere importate, se reperibili), liquori eventualmente offerti dagli ospiti stranieri (regolarmente serviti a tavola durante il pasto che si trattasse di Amaretto o Campari), e lo champagne sovietico a coronare brindisi e celebrazioni. Quello dei brindisi era un vero e proprio rito. Non era sufficiente levare il calice e dire cin cin. Bisognava pronunciare un augurio articolato e possibilmente lungo, rispettando una gerarchia precisa dettata dalla tradizione e dal canone. I brindisi si rivelavano molto diversi a seconda delle circostanze: retorici e ortodossi se l’occasione era ufficiale o politica (alla patria, alla pace, all’amicizia fra i popoli, al partito ecc.), ma difficilmente ci si sarebbe trovati in una cucina; fantasiosi e sentimentali se la circostanza era privata, amichevole o informale (alle donne, agli amici lontani, alla bellezza, all’incontro ecc.). Nei casi più importanti (feste di nozze o pranzi al ristorante) si poteva eleggere un capotavola, detto tamada dalla tradizione georgiana, a cui spettava il compito di dirigere la scansione delle bevute. In ogni caso, secondo il galateo sovietico, non si poteva portare alla bocca un bicchierino di vodka o un calice di champagne senza aver proposto un augurio o essersi uniti a quello lanciato da altri commensali.

 

Ulteriore tipologia di incontri in cucina erano quelli solitari, a tu per tu o en petit comité, in cerchio molto ristretto. In queste occasioni non si apparecchiava la tavola; bastavano il linoleum del pavimento, la vodka, un numero indefinito di tazze di tè e qualche comprimario classico: cetrioli in salamoia, pane nero, pesce affumicato. E i discorsi, le confidenze, talora le lacrime. Ogni tanto una chitarra e canzoni. Talaltra soltanto ricordi. Altre volte dialoghi lunghi o parole d’amore. E intorno sempre la cucina: l’acquaio, il tavolino, il frigorifero, i barattoli di conserve, la finestra con fuori la neve o i profumi e i rumori dell’estate.

 

Concludo citando una delle scene più coinvolgenti della storia del cinema sovietico: una canzone, struggente e dolorosa (Belorusskij vokzal, Stazione di Bielorussia, 1970), scritta per l’occasione da Bulat Okudžava e interpretata dalla protagonista del film. La scena si svolge nella sua cucina: la protagonista, insieme ad alcuni ex commilitoni, ricorda uno di loro, il suo funerale, che li aveva fatti ritrovare, e i giorni della guerra combattuta insieme. Bevendo e condividendo ricordi, turbamenti, eroismo sincero ed entusiasmo non retorico, tra le lacrime, i vecchi compagni intonano in coro la canzone del loro battaglione. In cucina, mentre la figlia di lei, adolescente, li guarda senza capire ciò che stanno provando e ciò che li tiene e li terrà uniti per sempre.

Qui gli uccelli non cantano,

E gli alberi non crescono.

E soltanto noi, spalla contro spalla,

Mettiamo radici in quella terra.

Arde e gira il pianeta,

C’è fumo sopra la nostra Patria.

Per questo abbiamo bisogno soltanto della vittoria,

Una per tutti e non badiamo al prezzo,

Una sola per tutti e al prezzo non badiamo.

 

 

Il libro: Gian Piero Piretto, Indirizzo: Unione sovietica. 25 luoghi di un altro mondo, Sironi Editore, 2015, pp. 288, € 22,90

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