Visita allo studio di Nunzio Battaglia

8 Ottobre 2015

A un primo sguardo lo studio di Nunzio Battaglia sembra dominato dall’accumulo e in fondo dalla casualità, ma subito ci si accorge di zone coerenti e alla fine si scopre che, anzi, l’artista ha disposto tutto in funzione di un percorso che ha in mente e che vuole farti seguire proprio in questo modo. Anche i suoi discorsi funzionano allo stesso modo: frasi interrotte, accenni, ammicchi, gesti che sostituiscono finali di frasi che lascia sospese perché sia tu a completarle dimostrando di essere entrato nell’argomento. E del resto ci tiene molto a far capire non tanto, direi, ciò che pensa, ma ciò che “vede”, in un senso, come spero di riuscire a dire, particolare ma completo, pluridimensionale del termine.

 

 

ph. Nunzio Battaglia

 

Battaglia viene da una laurea in architettura; quello che fotografa, da sempre – cioè ormai da tre decenni –, è l’“architettura”, cioè il rapporto spazio-temporale-materico-fenomenologico con la realtà umana. Ebbene, cercherò di ricostruire il percorso che mi ha prospettato ieri. Mi aveva detto che questa estate aveva fatto un giro in alcuni parchi nazionali degli Stati Uniti, dallo Yosemite allo Yellowstone, e che era stato un viaggio bellissimo, durante il quale aveva scattato a non finire, quindi io gli ho chiesto di parlarmene. Prima del viaggio americano però, mi dice Battaglia mostrandomi una “zona” di provini appesi, era stato a visitare il Museo Egizio di Torino, dove ha trovato delle cose stupende e inattese. Una sono gli occhi udjat dipinti sui lati di un sarcofago come fosse sulla prua di una nave, che hanno la pupilla bucata per permettere al morto di guardare fuori durante il viaggio! Poi questo altro tipo di “sarcofago” sui generis, diviso in quattro scomparti, in ognuno dei quali andava stipato un organo, i quattro ritenuti essenziali – cuore, fegato, intestino, credo, e polmoni; il cervello proprio no! –, come una dotazione, un kit di montaggio per l’aldilà.

 

Dettaglio dello studio. ph. E.G.

 

Dunque parte per gli Stati Uniti con questa idea di viaggio. Nell’aldilà? In un certo senso sì, perché scopre un mondo altro, una natura fuori dal tempo, un paesaggio estremo, senza interventi di “geometri”, dice, dove “l’orizzonte è sempre stato così, per cui tu hai un confronto… cioè la scala dello sguardo è completamente diversa da quella cui siamo abituati: i 30 km del nostro orizzonte visivo lì diventano il doppio, 60-70 km; spazi enormi davanti, tra te e ciò che stai guardando, la dimensione delle cose cambia”. E moltiplica gli esempi per farmi capire: “Cambia la scala, la grafia dello sguardo non è confrontabile con, che so?, quella per andare nell’Oltrepo… Oppure, pensavo oggi passandoci davanti, qual è la scala del “bosco verticale” di Boeri? È il trionfo di un totem peloso, idolatrico… cioè è una vetrina: il green è rappresentato. Là no. Ecco, io mi sto coltivando coni ottici dove la scala visiva è diversa”.

 

Intanto mi ha dato una piccola scatola piena di provini delle foto scattate, che mi invita a sfogliare, in sequenza. Bisogna sapere che Battaglia, dopo essere stato per due decenni un fotografo di architettura esperto e di impostazione classica, cioè, se posso sintetizzare, finalizzata a restituire in immagine più informazioni possibili e esatte, ha cominciato negli ultimi anni a sfocare l’immagine, sia selettivamente, cioè soltanto alcune parti, sia per intero, fino al limite della riconoscibilità dell’oggetto fotografato. Perché? Diciamo, per ora, per aggiungere il cuore all’arte e alla terra – heart-art-earth, come ha scandito nel titolo di una delle serie inaugurali del cambiamento una decina di anni fa – cioè senso simbolico e insieme emozionale, estetico, sensoriale, personale, unendo all’indagine architettonico-paesaggistica una ricerca autoanalitica di sé e una di forme ricorrenti in metamorfosi di luogo in luogo, di cultura in cultura, di sensibilità in sensibilità. Quel che cioè vi è di perdita di definizione, di rinuncia di precisione della rappresentazione nella sfocatura, è diventato necessario perché a vedersi sia non la cosa rappresentata ma l’immagine stessa, il suo lato “visuale”, la logica “iconica”, come si dice oggi, in senso pieno.

 

 

ph. Nunzio Battaglia

 

Le foto che scorro nelle mie mani sono allora spesso delle sequenze in cui varia la colorazione, cioè la luce, e il fuoco, in alcuni casi proprio come se il fotografo stesse cercando la sfocatura invece che la messa a fuoco. Ma ora vedo anche la scala, la distanza – come in Giacometti, mi viene da pensare –, lo spazio che mi separa e insieme collega all’“oggetto”. E lo metto tra virgolette perché ora penso: non solo all’oggetto rappresentato ma anche all’oggetto immagine, stavo per dire oggetto fotografia (image e picture, dicono gli anglofoni). Dunque, che cosa ha fotografato? Di tutto in realtà, tutto come se fosse letteralmente in un luogo sconosciuto, dove tutto è diverso, neanche fosse un paese esotico, cioè lontano dalla nostra cultura e abitudini; certo non l’America né degli americani né dei turisti. Io direi, secondo quanto dicevo sopra, il fondo primordiale di una terra, quello che si ritrova, modificato di poco, altrove se non ovunque, cioè nel fondo di ogni earth.

 

 

Dettaglio dello studio. ph. E.G.

 

In un’altra zona dello studio mi fa allora vedere altre due immagini egizie. Una è un’ippopotama gravida, famosa mi pare, e mi dice: “Ha a che fare con il Nilo, ha a che fare con un’amplificazione dell’esistenza… È estremamente materna, ma non mediterranea; è una maternità cosmica, cioè la pancia della mamma, di ogni mamma…”. L’altra è un volto di una scultura lignea bruciata per metà, e mi dice: “Questa è svelatrice. Vedi? Nell’arte bruciata si vede l’albero di partenza, poi si vede la scultura, cioè quello che è diventato. Quindi c’è questo trapasso del trapasso…”. Accanto alle due immagini ne ha messo una di lui bambino con sua madre e dei vistosi fiori di plastica, “pop” dice. “Cioè”, dice, “il rapporto con l’immagine a questo punto non è nel rappresentato ma è… Ecco, è come la bustina del tè: la immergi nell’acqua e si spande. È un bagno ottico. Non è la dimostrazione, è un soffio caldo, è un massaggio, un massaggio senza contatto”.

 

Intanto mi mostra altre immagini americane, continuando: “E al tempo stesso, perché è la stessa cosa, è uno studio; c’è la cultura e c’è la tua storia personale; sono come dei ‘quartieri di identità’...”. Ci trovi una certa storia della fotografia, da Edward Curtis a Edward Weston a Ansel Adams, e della letteratura, da Kerouac e la beat generation, del cinema, dai film western a Easy rider a Incontri ravvicinati… “Cioè la wilderness nel suo luogo reale, che poi declini anche sulle Alpi o in Sardegna, ma lì… Mi son proprio reso conto che viaggio, cultura, luogo, ornamento, paesaggio, magia, infraumano, mondi sottili, spiritualità sono argomenti dai quali siamo attraversati. Ecco, quello che cerco è un rapporto molto diretto con il luogo. Prendi il paesaggio giapponese che ti propone uno spazio regolare di dune e sassolini e un tempio dove tu... cioè un tokonoma dove il cuore riposa. Allo stesso tempo quello che mi accorgo che si sta disegnando è una sorta di geografia delle geografie”.

 

Infine un altro esempio, dice: “Non è un caso che Spielberg abbia trovato qui la montagna di Incontri ravvicinati, perché non è come andare sul Resegone o che so io… Qui si sente l’esigenza del primordiale e del sacro. Non puoi non confrontarti con una scala del genere. È come tornare a casa, a una casa comune, primordiale. Diciamo, per tornare al nostro punto di partenza che qui, se l’egizio dentro il sarcofago guardasse fuori, direbbe: ‘Ecco, è qui dove mi fermerei’”.

 

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