Paul Schrader. The Canyons

22 Novembre 2013

In Holy Motors, la bellissima riflessione meta-cinematografica dell’anno scorso di Leos Carax, vi è una sequenza particolarmente significativa che ci può aiutare a pensare lo statuto contemporaneo del cinema. Il protagonista Monsieur Oscar, il vecchio uomo cinematografico tutto fare che viene dalla storia del cinema e dal Novecento, si ritrova faccia a faccia con un misterioso “boss delle telecamere digitali”. “Sei stanco! Molti non ti credono più quando ti vedono sullo schermo” dice quest’ultimo; a cui Monsieur Oscar risponde: “Mi mancano le macchine da presa; un tempo pesavano più di noi, poi sono diventate più piccole delle nostre teste, ora non le vedi nemmeno più”.

 

In effetti oggi, nel tempo della massificazione delle telecamere digitali e dell’esposizione di massa del proprio Io nei social network, l’occhio delle “pesanti” macchine da presa del cinema sta sempre più scomparendo. Non perché non vengano più fatti dei film, quanto perché non esiste più un luogo separato dal resto che è demandato unicamente all’atto della visione. Gli sguardi sono talmente ovunque che, appunto, “non li si vede nemmeno più”: sono diventati indistinguibili dalla realtà stessa. È per questo che il cinema, inteso come comunità che riflette sull’esperienza della visione esiste ormai solo in alcune riserve indiane. Si è disperso in mille rivoli, schermi, computer, telefonini, che costituiscono il tessuto della realtà stessa.

 

 

The Canyons infatti inizia così: con una serie di campi fissi su dei cinema abbandonati e invasi dalle sterpaglie; su dei banconi dei popcorn arrugginiti e delle sedie di velluto impolverate. I cinema sono ormai deserti. E le immagini sono ovunque.

 

Lo dice anche il personaggio interpretato da Lindsay Lohan: “i film non sono la mia cosa, non mi interessano”. La sua generazione al cinema semplicemente non ci va, perché le immagini non le guarda più, le vive immanentemente senza alcuna distanza dallo schermo del proprio cellulare o da un account di Facebook. Paul Schrader in effetti per spiegare il film usa proprio quest’immagine: “The Canyons è la storia di un gruppo di losangelini sulla ventina che si sono messi in coda per vedere un film, ma poi il cinema ha chiuso, e loro sono rimasti in fila perché non avevano nessun altro posto dove andare”. Ma che aspetto ha questa realtà che non è più capace di pensare la visione ma che è diventata indistinguibile dall’immagine stessa?

 

 

Lacan già negli anni Quaranta vedeva nell’immagine il dispositivo fondamentale di salvaguardia del proprio Io. Laddove il soggetto dell’inconscio spezza, separa, sottrae e divide, l’immagine crea invece un sentimento di continuità, di unità, di pienezza. Il mondo post-cinematografico, deprivato di un pensiero della visione, è allora un mondo schiavo del narcisismo di massa, che cerca di allontanare ogni incertezza sul proprio sé con un ipertrofico controllo delle prestazioni e della propria immagine.

 

The Canyons, scritto da Bret Easton Ellis, è infatti la storia di un uomo (Christian, interpretato da James Deen) che vuole avere il pieno controllo delle proprie relazioni; che persino nell’organizzazione delle orge insieme alla propria partner (pianificate nei minimi dettagli tramite un app del cellulare) vuole costantemente confermare la propria posizione dominante. Si tratta però di un controllo che non è mai attraversato da una dialettica di riconoscimento. Non si vuole controllare gli altri per avere da loro una rappresentazione del proprio potere: l’unico oggetto del proprio controllo è la saldezza della propria immagine narcisistica.

 

 

Lo si vede bene nella sequenza della seduta dall’analista (interpretato, con un casting non privo di ironia, da Gus Van Sant) dove l’unico momento di debolezza di fronte all’autorità dell’analista viene immediatamente rigettato con insofferenza. O dall’arzigogolata vicenda di tradimenti reciproci, che fa da fil rouge del film, e che non porta mai a un’interrogazione della propria relazione e del proprio desiderio, nemmeno di fronte al vacillare della propria identità sessuale, ma che semmai conduce sempre a una conferma narcisistica persino ulteriore.

 

 

Ma The Canyons è anche un film formalmente affatto coerente con il proprio oggetto: con la sua recitazione artificiosa, la sua fotografia significativamente deprivata di zone d’ ombra, e il suo uso ipertrofico degli sguardi in camera che ricordano l’Io di fronte allo specchio. E va letta in questo senso anche la scelta di un’attrice formidabile come Lindsay Lohan ma che – a detta dello stesso Schrader – è assolutamente incapace di fingere di fronte alla macchina da presa, o di un attore come James Deen che viene da un mondo che per eccellenza si pone al di fuori della finzione: la pornografia. Perché The Canyons sembra che voglia farci vedere un mondo che è diventato incapace di guardare negando la propria immanenza alla realtà.

 

 

Il cinema infatti, in passato, è stato capace di creare anche questo: non uno sguardo sulla realtà, ma uno sguardo in grado di sottrarsi da essa. Uno sguardo che sappia slegare i soggetti, e non solo farli stare narcisisticamente insieme. E forse, proprio per questo, pensare che ci sia bisogno ancora di un luogo dove poter pensare la visione, pare non essere così tanto una cosa del passato.

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