Diane di Prima tra eros e poesia
Autunno 1956, New York. La ventiduenne Diane di Prima, poeta ancora in erba, era concentrata sulla cottura dello stufato di manzo che avrebbe servito quella sera a cena agli amici, «quando arrivò il sacerdote ex ladro di libri e mi mise in mano un volumetto bianco e nero dicendo: credo che possa interessarti». Era Howl and Other Poems di un certo Allen Ginsberg. Diane lesse le prime righe: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche, / trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di una dose rabbiosa...”.
Mollò il mestolo. «Ero troppo eccitata e entusiasta per preoccuparmi dello stufato». Uscì, racconta, percorse pochi isolati fino al molo che si affaccia sulla Sessantesima Strada, e si sedette lungo il fiume Hudson a leggere: “... Hanno visto tutto! gli occhi selvaggi! / le sante grida! Hanno detto addio! Sono saltati giù dal tetto! verso la solitudine! /salutando! portando fiori! Giù al fiume! per la strada!”.
«Questo Allen Ginsberg, chiunque fosse, aveva spianato la strada a tutti noi semplicemente pubblicando il suo libro. Non avevo ancora idea di cosa significasse, né di quanto ci avrebbe portato lontano. Era iniziata una nuova era». Tornata allo stufato, Diane lesse ai presenti il poema ad alta voce. Più tardi avrebbe scritto a Lawrence Ferlinghetti, l’editore libraio di City Light: «Non avevo mai sospettato che qualcuno potesse scrivere del nostro tempo con un tale grado di onestà. Sono pazza di gioia. Ringrazia Ginsberg da parte mia».

“We were girls”
Quel 1956 fu anno di spartiacque politici e culturali. Fu come se il mondo, a est e a ovest, si fosse dato una solenne scrollata, proprio come fanno i cani a pelo lungo quando escono dall’acqua. Le ripercussioni di quegli spruzzi si fecero sentire un po’ dappertutto: in Vietnam, con il boicottaggio delle elezioni nazionali che saranno la miccia del disastro che sappiamo; in Ungheria, con quei carri armati sovietici che oggi Orban si augura ritornino; a Cuba, dove Fidel Castro sbarcava con i barbudos per combattere Fulgencio Batista; a Suez, con Gamal Abdel Nasser che si alza una mattina e nazionalizza il canale, e si scatena l’Armageddon sulle sponde del Mediterraneo. A Hollywood si scioglie persino la coppia cinematografica Jerry Lewis-Dean Martin, una tragedia per lo show business. Allo stesso tempo, sulla scena musicale mondiale irrompe un fenomeno che avrebbe ridefinito il concetto di celebrità e di cultura giovanile, quell’Elvis Presley che Fernanda Pivano definiva “lo shaman del sesso psicopatico”, procacciatore di scariche adrenaliniche che, al ritmo di Heartbreak Hotel, catturarono l’immaginazione di milioni di giovani, offrendo un grido liberatorio e una fuga dalle tensioni dell’epoca.
Ma c’era anche un’altra strada che alcuni giovani, inquieti in modo più silenzioso, iniziarono a percorrere: quella tracciata dalla generazione Beat. Una scelta meno appariscente, talvolta condita di barlumi di spiritualità fai-da-te che prendeva le distanze tanto dalla società borghese quanto dalle sue forme di ribellione “senza causa”. Una protesta dell’anima, insomma. E fu come se un’altra faglia si fosse aperta nella cultura americana. Non a caso, Fernanda Pivano, nel raccontare questa nuova sensibilità, scriveva: “Venne dalla poesia la proposta di una via d’uscita... nacquero poeti intrisi dell’antica ansia libertaria”.

Quei poeti – generalmente identificati in Kerouac, Ginsberg, Corso – usavano un linguaggio viscerale, visionario, spesso frammentario e sconnesso come i paesaggi interiori che attraversavano nel loro viaggio, reale e metaforico, che passava per l’Oriente, il jazz, la droga, l’alcol, la meditazione, l’amicizia come esperienza mistica. Ma non erano soli. Avevano al loro fianco compagne di strada – poete, scrittrici, donne colte, attive e creative – ma abbandonate ai margini del mito perché gli “Uomini Beat”, come del resto gran parte della società dell’epoca (ben narrata nella serie Mad Men, due mondi apparentemente opposti, ma accomunati da una radice patriarcale condivisa), faticavano ad ammettere che una donna potesse essere artista alla pari di un uomo. L’idea stessa appariva assurda.
Una testimonianza di prima mano della marginalità femminile la troviamo ben descritta in Minor Characters (“Personaggi minori”, il Saggiatore, 1996), il memoir di Joyce Johnson che, in seguito alla sua relazione con Jack Keoruac, provò sulla propria pelle come gli uomini vedessero e usassero le donne: materiale per i loro scritti e oggetti sessuali, non come individui: “We weren’t real people to them. We were girls”, scriveva. Un’eco altrettanto amara risuona in Off the Road (“Cuore di Beat”, Savelli, 1979) il libro di Carolyn Cassady, moglie di Neal Cassady (figura che ispirò il personaggio di Dean Moriarty in Sulla strada): “They were boys playing with fire, and we were the ones who got burned”. Insomma, alle donne era riservato il ruolo di amanti, madri, muse o dattilografe. Diane di Prima era una di loro. Ma non si lasciò confinare.

I ciclostilati che cambiarono il mondo
Negli anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta, prima che la Beat Generation diventasse una definizione da quarta di copertina, la letteratura americana sperimentale – d’avanguardia, controculturale, underground, in una parola: ribelle – circolava su fogli battuti a macchina e ciclostilati, fatti girare in poche decine o, al massimo, centinaia di copie. Un’editoria senza censura, senza padrone. E anche senza denaro. Il mezzo ideale per collaudare linguaggi crudi e tematiche legate alla ribellione giovanile, alla sperimentazione di droghe, all’interesse per le religioni orientali, al rifiuto del materialismo. Erano conosciuti come little magazines, molto più di semplici samizdat casalinghi: erano il cuore pulsante dell'espressione creativa e ribelle della Beat Generation, strumenti essenziali per la diffusione di un nuovo modo di pensare e di vivere la letteratura. Il primo trampolino di lancio per autori wannabe, emergenti o poco conosciuti, la voce di una generazione che rifiutava le norme sociali e culturali dell’America del dopoguerra. Il loro impatto fu notevole, influenzando non solo la letteratura, ma anche la musica, l’arte e i movimenti sociali a venire: dall’opposizione alla guerra del Vietnam al movimento hippie. E fu in quel circuito semi-clandestino che Diane di Prima mise radici.
Poeta, non poetessa
Diane di Prima nacque a Brooklyn in una famiglia di origini italiane, e cresciuta nel mito del nonno materno, l’anarchico Domenico Mallozzi, che le leggeva Dante quando aveva solo quattro anni. Sarà a lui – oltre che a Bob Dylan – che Diane dedicherà The Revolutionary Letters (“Lettere rivoluzionarie”, Il Nuovo Melograno, 1990), uno dei testi più emblematici della sua produzione. Fu a quattordici anni, mentre leggeva indifferentemente Keats e Platone, Schopenhauer e Nietzsche, che la giovane decise che, da grande, sarebbe diventata poeta. Non “poetessa”: poeta.
In un ambiente editoriale in cui la poesia difficilmente garantiva una sostenibilità economica (come in tutto il mondo), e in cui le voci radicali faticavano a trovare spazio, di Prima co-fondò con LeRoi Jones (che in seguito assunse il nome di Amiri Baraka nel contesto del suo avvicinamento al nazionalismo nero e alla Nation of Islam) The Floating Bear, molto più di un little magazine. Fu una zona franca per la poesia radicale, una casa per outsider, emarginati, visionari, freaks e ribelli, i cui testi poetici, recitati nelle caves del Village, affrontavano tematiche politiche, sessuali e sociali con un linguaggio esplicito e privo di compromessi, tanto da attirare spesso l’attenzione delle autorità.
Nel novembre del 1961, Diane di Prima venne arrestata dall’FBI insieme a LeRoi Jones per aver pubblicato, nel numero 9 di quella gazzetta, poesie che contenevano descrizioni sessuali esplicite. Un impiegato postale a New York aveva intercettato la pubblicazione e, segnalatala ai superiori, fece scattare l’accusa federale di diffusione di materiale osceno tramite posta.
Il fermo non portò a una condanna penale seria, ma rappresentò un’intimidazione concreta e un monito politico. Diane di Prima non si lasciò intimidire: anzi, l’episodio consolidò la sua reputazione di figura ribelle e coerente, pronta a difendere la libertà artistica e il diritto delle donne di scrivere del proprio corpo e del proprio desiderio senza censura.

Olympia Press: pornografia, letteratura e rivoluzione
C’erano due modi per diventare (veri) scrittori negli anni Cinquanta: pubblicare con una grande casa editrice americana o andarsene a Parigi. Chi non disdegnava di stare fuori dalle regole, finiva quasi sempre nella Ville lumière. Ed è proprio lì che nacque la Olympia Press. Il suo fondatore, Maurice Girodias, era un editore visionario e spregiudicato, figlio di un altro editore altrettanto leggendario, quel Jack Kahane, che nel 1929 aveva dato vita alla Obelisk Press, un marchio il cui catalogo includeva libri che nessun altro avrebbe osato pubblicare, roba come Tropico del Cancro di Henry Miller, e L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence.
Girodias si distinse, a sua volta, per aver mandato in stampa Lolita di Vladimir Nabokov, Naked Lunch di William S. Burroughs, e persino diverse opere di Guido Crepax, come la celebre Histoire d’O, adattamento grafico di un classico della letteratura erotica. Non erano romanzi per tutti: erano opere che sfidavano la morale, la sintassi, la narrazione lineare. Pornografia? Forse. Dipende da chi guarda. Ma anche alta letteratura mascherata da editoria da contrabbando.
Fu in questo contesto che, a fine anni Sessanta, Diane di Prima ricevette da Girodias la proposta di scrivere le sue Memorie di una Beatnik (appena ripubblicate in Italia da Quodlibet, per la traduzione di Ilide Carmignani). L’editore le chiese un romanzo erotico e lei, bisognosa di soldi, accettò. Ma lo fece a modo suo: non cedendo alla pornografia da scaffale, né imitando l’ossessione maschile per il corpo femminile come oggetto. Scrisse invece un libro dove mescola desiderio e poesia, autobiografia e invenzione, lasciando che il sesso fosse una chiave per raccontare, in modo seppur crudo, la vita di una comunità beat.
Il libro, romanzo erotico in piena regola, nato come potboiler – scritto principalmente per ragioni economiche, per “far bollire la pentola” e guadagnare denaro, piuttosto che per valore artistico – diventò ben presto il lavoro più letto e citato di Diane, anche se l’autrice lo considerò sempre un’opera “di mestiere”. Ma proprio grazie a quella gabbia forzata, al fatto che all’epoca la cultura ufficiale temeva la parola “clitoride” più della bomba atomica, di Prima riuscì a trasformare le sollecitazioni editoriali di Gioridias – che richiedeva more sex, sempre più sesso, ogni volta che Diane consegnava un nuovo capitolo – nella testimonianza di una stagione irripetibile.

L’FBI cominciò a farsi vedere tutti i giorni
Al solstizio d’estate del 1968 Diane di Prima lasciò New York per San Francisco, il nuovo centro di gravità Beat, «con un bebè che strillava a squarciagola» e con al suo seguito un branco di quattordici “adulti” con altrettanti figli, animali, fucili, macchine per scrivere e strumenti musicali. Nessuno di loro lavorava. Proprio come nessuno del branco di “adulti” californiani che si erano uniti a loro nella casa di quattordici stanze, affittata a mo’ di comune fra il beat e l’hippie – o quel che era. Già, perché il mondo della controcultura stava cambiando pelle, la scena beat si stava trasformando nella galassia psichedelica controculturale californiana dove di Prima frequentava il mondo di Timothy Leary, attenta alle visioni espanse offerte dall’LSD, ma critica verso ogni forma di guru-ismo.
A differenza di Ginsberg, che fu allievo diretto di Trungpa Rinpoche, filosofo e maestro di meditazione, partecipando attivamente alla diffusione del buddhismo tibetano in America, Diane di Prima si orientò verso forme di spiritualità più arcaiche e pagane. Nella sua opera e nella sua vita si avvertono influenze alchemiche, neoplatoniche, tantriche, femministe – un ritorno alla “grande madre” più che al “vuoto” zen. Il suo buddhismo è sotterraneo, presente ma decostruito: una delle tante influenze che convivono nella sua visione poetica del mondo. È soprattutto in questo che si differenzia dai suoi compagni maschi, spesso più dediti a un ascetismo mistico, o a una ossessiva ricerca di illuminazione “alla Kerouac”. Di Prima, invece, cerca il sacro nell’immanenza: nel corpo, nella maternità, nella scrittura come rito, nell’amore e nella rivolta. Per lei, ogni atto poetico è anche un atto magico.
Rimane solo da chiedersi come facesse a vivere in quella casa di San Francisco dove ogni tanto faceva capolino la polizia e si portava via uno degli “adulti”; dove, oltre a fare sesso, scriveva, scriveva, scriveva. Chissà, forse perché – come per i mistici o gli alchimisti del passato – credeva che scrivere fosse un atto capace di mutare la realtà, non solo di descriverla. In fondo tutto quel furore creativo le serviva per pagare cibo e alloggio al branco di “adulti” che meditava, faceva cose, vedeva gente, «ballava sul tavolo della sala da pranzo con indosso gli stivali, mentre Pantere Nere e Bianche, Hells Angels, pappagalli, complessi rock, spacciatori assortiti cinesi e indiani d’America, e bambini senza pannolino entravano e uscivano».
Poi il libro finì. Arrivò l’assegno. Annota Diane: «L’FBI cominciò a farsi vedere tutti i giorni, e mi sembrò che fosse venuto il momento di chiudere bottega. Ma questa è un’altra storia». D’altronde, come aveva scritto nella Revolutionary Letter # 1: «Ho appena realizzato che la posta in gioco sono io / non ho altro».
