Eve Arnold: da Hollywood alla Mongolia

22 Marzo 2023

Quando la fotografia di reportage funziona si ha una duplice sensazione: che non servano parole aggiuntive per spiegare cosa è rappresentato, e allo stesso tempo che invece servano. Eve Arnold – nome nobile della storia della fotografia – e la sua produzione fotografica conducono a questo insolito finale gli occhi dello spettatore, soprattutto se fruita in senso espositivo e non giornalistico. Arnold è nota per essere stata la prima donna, insieme a Inge Morath, a entrare a far parte dell’agenzia Magnum e per essere stata testimone dei maggiori eventi e personaggi della sua epoca.

Dalle immagini iconiche di altrettante icone del mondo del cinema come di quello politico, ai reportage sulle battaglie afroamericane guidate da Malcolm X, Eve Arnold si è mossa tra le distinzioni cui l’umanità tocca piegarsi, sia nel verticalismo sociale, sia nell’internazionalità in cui può esprimersi, dando fiducia unicamente all’occhio in grado di imprimerne il segno. Nelle sale di Camera, a Torino, l’omaggio alla fotografa è onnicomprensivo, e riesce a toccare tutti i grandi temi che nel corso della sua lunga carriera, seppur iniziata tardivamente alla soglia dei quarant’anni, l’hanno resa figura di riferimento per il ricordo e la comprensione delle epoche trascorse.

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La mostra, curata da Monica Poggi, si intitola “Eve Arnold. L’opera, 1950-1980”, e mette di fronte a quanto detto inizialmente con rigore tematico. Si avvia la narrazione da quella New York che le impartisce l’insegnamento principale: “osservare, imparare, muoversi velocemente, reagire immediatamente o aspettare il momento giusto.” I night club nascondono la vera vita dell’America, quella che può comprare il compiacimento del consumatore con appena due centesimi per qualche immagine pornografica: Jacob Riis, uno dei padri della fotografia cosiddetta “sociale”, attenta ovvero al popolo nascosto agli occhi del prossimo, alla fine dell’Ottocento fotografava i ristoranti proprio detti “dei due centesimi”, coi quali allora, anziché rapide soddisfazioni, ci si poteva permettere di dormire appoggiati al tavolo del ristorante.

Il senso del reportage, pare suggerirci un primo sguardo agli scatti di Eve Arnold, è forse proprio il paragone: tra tempi e usanze, tra pensiero e leggi, permettendo di cogliere ciò che anche nel corso degli anni, nello stesso luogo geografico, si è trasformato senza estinguersi. Per questo motivo la sala dedicata alla ribellione del popolo afroamericano pare inserirsi in un contesto per nulla lontano da quello odierno, e vedere i volti dei primi insorti e dei primi leader permette alla coscienza storica dell’osservatore di rendersi più ampia e più vigile. 

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Malcolm X appare nel famoso scatto della Arnold intriso di quell’aura cara alla fotografia capace di immortalare i miti del proprio tempo, nel gesto e nel bianco in un paio di scatti di un rullino. L’allestimento comprende infatti, fortunatamente, le stampe dei provini di intere pellicole scattate dalla fotografa, specialmente quando in essi si sono trovati nascosti, per poco, i risultati che l’hanno resa velocemente celebre. Oltre ai provini delle pellicole, in mostra alle immagini vengono affiancate anche le riviste che per prime hanno accolto gli scatti che ora siamo soliti vedere incorniciati e appesi, e che venivano accompagnati da articoli scritti dalla stessa Arnold.

Questo connubio immagine-testo non era totalmente raro – anche Lee Miller firmò molti dei suoi reportage sulla Seconda Guerra Mondiale – ma getta una luce sulla fruizione odierna della produzione di un autore. La consacrazione a opera d’arte degli scatti giornalistici apre molte porte, oltre che di mercato, anche alla concezione della fotografia e di ogni suo campo, rendendola giustamente meritevole di quell’attenzione che sui giornali si perderebbe, così come un tempo è possibile che si sia persa. Allo stesso tempo, è utile ricordare quanto la prima vera accoglienza dei reportage sia stata la carta di giornale, e dunque l’edicola, e dunque lo sguardo quotidiano dell’occhio attento o distratto nella misura in cui l’argomento suscitava interesse.

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Questo discorso ovviamente non vale soltanto per il lavoro di Eve Arnold, sebbene la presenza in mostra delle riviste sotto teca, anch’esse ora designate alla funzione di reperto da valutare a distanza, aiuti a penetrare nell’ottica di questo pensiero. Non la quotidianità del popolo generico interessava Eve Arnold, quanto la quotidianità di un popolo investito di un ruolo, anche negativo, nella sua contemporaneità: la femminilità è stata sicuramente un tema caro agli occhi della Arnold, in ogni forma in cui potesse manifestarsi.

Gli scatti dedicati ai cinque minuti dopo il parto – che paiono la diretta conseguenza alle immagini del parto di Lisetta Carmi – segnano il burrascoso punto di partenza dell’uomo (tra misurazioni, manipolazioni e sofferenze) di quel percorso che può prendere direzioni e avviarsi verso esiti così contrastanti da rendere necessario il lavoro dei grandi fotografi che hanno sentito il bisogno di registrarlo. L’inizio dell’uomo sta nei pochi centimetri che indica un metro da sarta, la sua evoluzione è il lavoro rimasto impresso sulle pellicole della Arnold. 

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Hollywood appare come il mondo della fragilità: le sue dive, donne torturate dai trattamenti di bellezza, come Joan Crawford, e dall’ansia di non ricordare bene le battute; le donne, persone curiose di leggere opere ardite come l’Ulisse di Joyce o di giocare alla roulette la sera, come vediamo fare Marylin Monroe. La fragilità sembra possa essere recitata e reale allo stesso tempo, mentre entrambe le possibilità possono essere immortalate su una pellicola, e quindi essere ricordate, viste e comprese. Marilyn Monroe è la grande sfida di Eve Arnold, per due mesi sul set di Gli Spostati, in Nevada, per volontà dell’attrice stessa per immortalare lei che tutt’ora è rimasta incomprensibile: l’intimità è un territorio che riesce bene alla fotografa, così come la caparbietà in merito al suo operato. 

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Prima di Marilyn, Eve è a New York per fotografare Marlene Dietrich negli studi di registrazione della Columbia Record, e nel rifiutarsi di ritoccare come l’attrice desidera gli scatti che la ritraggono, segna la sua vera nascita come professionista, ovvero come autrice in grado di assumersi dei rischi per affermare ciò che deve essere visto, e come. L’excursus sull’opera di Eve Arnold è complesso e tocca vertici distanti, l’interesse trasversale della fotografa riesce a conferirle una strana ubiquità per riuscire a vedere coi propri occhi i grandi sconvolgimenti sociali del suo trentennio di attività: nel 1958 Robert Frank – col quale Arnold condivide la fondamentale conoscenza di Alexey Brodovitch, Art Director di Harper’s Bazaar – parlava al pubblico di un’America strana, pericolosa, a volte poverissima, ovvero di quell’America rifiutata dagli americani stessi, impietosi di fronte a quelle immagini rivelatrici. 

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Eve Arnold abbraccia il viso americano per intero, quello del motto “Black is beautiful” – riuscendo a portare a galla il mondo sepolto della moda afro attraverso gli scatti delle sfilate alla Abyssinian Baptist Church del quartiere di Harlem – come quello della sua gioventù impegnata a esercitarsi per la guerra del Vietnam in un campo ricostruito nel North Carolina. “Attraverso la vita di persone comuni ho cercato di mostrare la mia America e ho scoperto che la ‘normalità’ non esiste” viene citata Eve Arnold nel catalogo che accompagna la mostra, pubblicato da Dario Cimorelli Editore.

L’America della Arnold contiene in seno i misteri anche del resto del mondo, incomprensibile come la stessa Marilyn di fronte al suo obiettivo: il miracolo statunitense si muove impavido di fronte agli occhi di chi lo cerca senza afferrarlo mai del tutto, e la fotografia non può far altro che dichiarare il suo aspetto multiforme in frammenti consegnati a chi verrà dopo di lei. Anche la tecnica della Arnold pare seguire il flusso eterogeneo dell’umanità che trova sul suo cammino, e tra formati e pellicole la sua opera si muove dal bianco e nero al colore così come dal quadrato al rettangolo. La malleabilità nella tecnica conferma la capacità della Arnold di accogliere e tradurre in lingue diverse il messaggio dei suoi soggetti, le risposte che portano con sé. Ed è sempre l’America a chiedersi della libertà nel resto del mondo.

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Per questo Eve Arnold parte alla volta del Medio Oriente nel 1969 per capire la libertà celata dietro l’uso del velo imposto alle donne: il colore è la scelta che riesce a svelare l’usanza, ed è il modo per vedere il bianco e il nero senza poterli confondere con altre tonalità. Così si può capire davvero lo sporco scuro sotto le unghie smaltate di rosso mentre impugnano una sigaretta, in Afghanistan, come pure i contrasti variopinti che circondano i nuovi soggetti della fotografa, in Turchia, in Cina, in Mongolia. L’America in cui rientra Eve Arnold, negli anni Ottanta, è il Ku Klux Klan, è l’Università, sono gli spogliarellisti e nuove lotte. Il resto del mondo è l’unico contraltare dell’America, che, per contro, diventa l’unica terra del ritorno: Hollywood, il Vietnam, Malcolm X, sono ora diventati il tempo di cui si ha memoria. 

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Celebrazioni di nozze, Emirati Arabi Uniti, Dubai, 1971.

Eve Arnold. L’opera 1950-1980, Camera, via delle rosine 18, Torino, fino al 4 giugno 2023.

Catalogo Eve Arnold, edito da Dario Cimorelli editore.

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