Generazioni / Fedeltà e La straniera

18 Marzo 2019

I due libri di cui si parla di più in queste settimane sono Fedeltà di Marco Missiroli (Einaudi, pp. 224, € 19) e La straniera di Claudia Durastanti (La Nave di Teseo, pp. 286, € 18). Si tratta di opere assai diverse fra loro. Un romanzo d’invenzione e un’autobiografia; una narrazione in cui s’avvicendano i punti di vista di una pluralità di personaggi, e un discorso che si attiene a una prospettiva unica; una trama conclusa, che definisce i destini di tutti, e un percorso impregiudicato, aperto verso il futuro; una vicenda statica, ordinaria, quasi puntigliosamente verosimile, e una storia di nomadismi dal forte sapore picaresco. Alcune opposizioni discendono direttamente dalla differenza di genere; altre sono frutto di scelte d’autore. L’identità degli autori rappresenta il più evidente punto di contatto fra i due libri. Missiroli (classe 1981) e la Durastanti (1984) appartengono alla medesima generazione; hanno esordito abbastanza precocemente, sono cresciuti in fretta, hanno riscosso una buona accoglienza. Su Fedeltà, in particolare, si è ora accesa una discussione critica vivace; alcuni recensori hanno tessuto generosi elogi, altri hanno avanzato chiare, talora aspre riserve. 

 

Fedeltà è ambientata a Milano, una Milano topograficamente dettagliata, e copre due segmenti temporali distinti, 2009 e 2018. Protagonisti sono Carlo e Margherita, marito e moglie, poco più che trentenni all’inizio della storia. Lui lavora nella redazione di un periodico e ha un contratto universitario per l’insegnamento di Tecniche della narrazione; lei, architetto, possiede una piccola agenzia immobiliare. Carlo è attratto da una studentessa, Sofia, con la quale viene casualmente sorpreso in una posa equivoca; in realtà non è successo quasi nulla, ma l’episodio getta un’ombra sulla sua unione con Margherita, la quale, per parte sua, ha un fugace rapporto con un giovane e aitante fisioterapista, Andrea. Un ruolo significativo hanno anche i genitori: la madre di Margherita, Anna, da poco vedova, appare in grado di dare sicurezza a tutti, anche se scopre tracce di un possibile tradimento del marito (con cui pure è stata felice); i genitori di Carlo, di una classe sociale più elevata, patiscono l’incerto status socio-professionale del figlio, così come le scelte personali della figlia Simona, che ha avuto un bambino da un immigrato africano. Benché combattuta, Sofia si sottrae alle avances di Carlo, depone le ambizioni di scrittrice e ritorna nella nativa Rimini. Nove anni dopo, Carlo e Margherita, che hanno avuto un figlio, abitano in uno spazioso appartamento, acquistato sottocosto raggirando la proprietaria; e Margherita, ora dipendente di un grande gruppo immobiliare, legge in ogni evento negativo il segno di una nemesi. Andrea si è scoperto gay e ha un fidanzato (cui non sempre è fedele); Carlo non ha più rapporti con l’università, ha passato la quarantina ed è in cerca di un impiego. Sofia, che lavora nel negozio di ferramenta del padre, cerca di riallacciare i legami con lui; dopo l’ennesimo colloquio di lavoro – ma forse stavolta è quello buono – Carlo va a Rimini a trovarla. Il romanzo termina, senza colpi di scena, con la morte di Anna.

 

Tra le linee minori della trama andrà ricordata la segreta attrazione di Andrea per la violenza: nella prima parte lo vediamo padrone di un cane da combattimento, nella seconda lui stesso combatte in un Fight-club clandestino. E un luminoso flashback riguarda l’incontro di Anna con una signora dell’alta società, in cui non è difficile riconoscere Marella Agnelli: sarta abilissima, Anna era riuscita a riparare in extremis prima d’una festa uno strappo in un modello di Yves Saint-Laurent. La narrazione ha un impianto intimista: i fatti sono pochi e di scarso rilievo, la psicologia dei personaggi è ben tratteggiata, il ritmo narrativo è garantito dalle frequenti transizioni di prospettiva da un personaggio all’altro per il tramite di abili ganci tematici. Nell’insieme, insomma, Fedeltà è un romanzo ben fatto, e avrà i lettori che si merita. Se non finisce di convincere, è perché, alla fin fine, questi personaggi non sono poi così interessanti; né si possono dire inedite le idee che un tradimento non consumato possa essere più insidioso e compromettente di un adulterio vero metabolizzato in fretta, o che ci possano essere vari modi di essere fedeli o infedeli, a prescindere dalle azioni effettivamente compiute. Le accurate simmetrie della costruzione attestano sicurezza tecnica, certi aspetti della storia possono dirsi senz’altro riusciti (penso soprattutto alle differenze tra le generazioni), i dialoghi fra Margherita e Carlo sono più che credibili. Ma quando in un romanzo alla componente drammatica è messa la sordina, si vorrebbero poi trovare superfici meno levigate, passaggi più urticanti o abrasivi, affondi esistenziali più destabilizzanti; altrimenti il lettore rischia di arrivare all’ultima pagina compiaciuto e immune – cosa che di solito accade quando un libro manca di un’intima necessità. Non dico che questo sia il caso di Fedeltà, che inscena (cito un autocommento di Missiroli) un «valzer di fragilità» tipico dei tempi nostri; ma di certo, è nel grado di intrinseca necessità generativa che si misura la differenza rispetto al libro della Durastanti.   

 

   

«Mio padre e mia madre si sono conosciuti il giorno in cui lui ha cercato di buttarsi da ponte Sisto a Trastevere». Così inizia La straniera. Un attacco efficace, ne converrete. Ma anche per la prosa si può ripetere quello che si dice accada con la poesia: a volte il primo verso è un regalo della fortuna, il problema è come andare avanti. In questo caso, la rievocazione dell’episodio del salvataggio si conclude così: «Il giorno dopo, quando era uscita dal portone della scuola insieme alle amiche, lo aveva visto appoggiato a una macchina che non era la sua con le braccia incrociate, e in quel momento aveva capito di essere spacciata. Ho sempre invidiato l’espressione mistica e funesta con cui lo racconta, sempre stata gelosa di quell’apocalisse».

 

Da molto tempo non mi capitava di leggere un libro di autore italiano in cui la forza dello stile fosse così palese e sicura. La Durastanti non è un’esordiente, è al suo quarto libro (non ho letto i primi tre); ma la sua padronanza del ritmo della prosa, la capacità di animare i periodi calibrando le scelte lessicali, le variazioni indotte da impennate analogiche, tutto questo mi pare abbia radici profonde: non discende da studio e pratica di scrittura, quanto da un intimo rapporto d’interrogazione con il linguaggio. E questo stesso libro, in verità, fornisce al riguardo indizi preziosi.    

 

Un’autobiografia, dicevamo; scritta a un’età relativamente precoce, ma giustificata sia dalla singolarità del percorso vissuto, sia da uno snodo esistenziale (la fine di un amore importante), che si direbbe il movente più ravvicinato dell’impresa di narrare la propria vita. L’autobiografia, afferma l’autrice a un certo punto, è «la bastarda dei generi letterari, perché abbassa la soglia: è in mano a rifugiati, donne, disabili sopravvissuti all’Olocausto, sopravvissuti a qualsiasi cosa». Che lei si riconosca in questa definizione non c’è dubbio. Nel mondo vegetale, la simbiosi – come quella dei licheni, che sembrano un organismo solo ma in realtà sono l’unione di due, un’alga e di un fungo – è ammirata come un miracolo; fra gli umani invece la simbiosi è considerata con riprovazione, come una colpa o uno stato di minorità. Ebbene, uno degli insegnamenti cruciali della madre è che «anche da soli si sopravvive, ed è questo che temiamo di più […] scoprire che davvero, da soli e distanti, sopravvivremo lo stesso». 

 

Tuttavia l’impianto tematico (anziché cronologico) dell’indice suggerisce anche un’idea diversa: quella d’una sorta di auto-etnografia, che compensa e corregge la tentazione della confessione. E ciò nonostante i titoli delle sei parti – Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei – appaiano poi negli occhielli in dimensione ridotta, quasi volessero nascondersi dietro alle epigrafi. Tutte ben scelte, per parte loro, e tutte di scrittrici (Emily Dickinson, Ursula K. Le Guin, Virginia Woolf, Lorrie Moore, Antonella Anedda, Jean Rhys): dettaglio che pure avrà una sua pertinenza autobiografica. La generalità quasi trattatistica dei titoli delle parti (almeno delle prime cinque) trova riscontro nei titoli dei capitoli; i quali tuttavia, dopo un inizio così referenziale da suonare atarassico (Mitologia, Infanzia, Adolescenza, Gioventù, Matrimonio, Divorzio), acquistano animazione e varietà, fino a raggiungere, verso la conclusione, esiti quasi da rubrica, o da didascalia, come L’amore che sarebbe durato per diciotto anni, ma forse di più, ebbe inizio; o Gli innamorati hanno fede, ma tremano.  

 

A caratterizzare l’esistenza della protagonista sono due elementi: l’avere entrambi i genitori sordi, e l’essere cresciuta un po’ in Italia e un po’ in America. Ma bisogna precisare. Oltre ad essere sordi, i genitori sono abitati, ciascuno a proprio modo, da una propensione all’impulsività, alla marginalità (né l’uno né l’altra ha mai voluto apprendere il linguaggio dei segni), a una creativa bizzarria che a conti fatti non li avvicina più di quanto non li divida, e che li porta a vivere all’insegna d’una precarietà sbilenca, d’una febbrile inoperosità, associata nel padre a una tendenza all’improvvisazione arrischiata, e nella madre a una trasognata (più che imperturbabile) vena di saggezza. Controversa fin dall’inizio, la loro unione è destinata a fallire, ma rimarrà un sotterraneo legame, che chiamare «amore» sarebbe un’arbitraria semplificazione («L’amore fra sordi non esiste, è una fantasia da udenti»). Poi, l’America: dopo la nascita del primogenito i genitori decidono di raggiungere il resto della famiglia materna a New York, o meglio a Brooklyn (indicando nel risvolto Brooklyn come proprio luogo di nascita, l’autrice ne sottolinea la differenza rispetto alla New York più ovvia, Manhattan). Quando la protagonista ha sei anni i genitori si separano, e la madre torna con i due figli in Italia, nella Val d’Agri, pur seguitando a trascorrere le vacanze oltreoceano. D’acchito, la distanza fra l’America e la Basilicata parrebbe vertiginosa, ma la bambina ha un’impressione diversa: «a me pareva di stare in un posto simile al New Jersey dove abitava mio zio Paul, un luogo di rotonde e strade laconiche privo di centro».  

 

La straniera è in primo luogo la storia di una formazione, o meglio, una storia di formazione, in cui hanno un posto privilegiato i familiari; ed è un peccato che, a parte nonna Rufina e nonno Vincenzo, non ne vengano citati i nomi propri, li si vorrebbe poter chiamare in un modo più diretto. Oltre ai genitori, andrà ricordato il fratello, cui la protagonista deve molto anche in termini di apprendimento linguistico: «Quando mi chiedono chi mi ha insegnato a esprimermi, tra nonni immigrati che parlavano una lingua tutta rotta e genitori che non sapevano correggere i miei errori di pronuncia, mi rendo conto che la prima lingua che ho parlato è stata quella della prima persona che ho amato: l’italiano di un ragazzino di sei anni più grande di me, melodico e privo di intoppi, difeso con ostinazione quando nessuno attorno a noi lo parlava senza un’inflessione pesante, in una regione in cui l’uso del dialetto coincideva con la cittadinanza». 

 

In secondo luogo, come già si è visto, La straniera contiene un discorso sulla disabilità dai connotati fortemente originali, che nulla concede a edificanti luoghi comuni. Inoltre – come annunciato dal titolo – questo libro è anche una riflessione sull’essere straniero, condizione suscettibile di molte declinazioni diverse. Straniera è la figlia di emigrati a Brooklyn, americanizzati in maniera approssimativa e esposta agli stereotipi; straniera è la rimpatriata che in Basilicata mescola inglese e italiano e ignora il dialetto; straniera la giovane laureata in antropologia, ora giornalista, che si trasferisce a Londra – e dove, possiamo arguire, forse non rimarrà a lungo. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il titolo La straniera non allude al romanzo di Albert Camus, ma riprende quello d’una scrittrice polacca, Maria Kuncewiczowa (1895-1989), scritto nel 1936 e tempestivamente tradotto in italiano da Renato Poggioli per la «Medusa» Mondadori. Ma sottotraccia c’è anche la citazione da una serie televisiva degli anni Novanta, Beverly Hills 90210, dove un personaggio di nome Dylan McKay veniva spesso salutato con l’espressione «Hey, stranger»; nel non ineccepibile doppiaggio, la frase diventava «Ciao, straniero». Ma lui stesso usava quell’espressione con le ragazze che amava: per questo «grazie a Dylan McKay mi convinsi che l’amore venisse da quel principio di estraneità, di non detti cristallizzati tra amanti […] il mio modo di innamorarmi si è fatto di lontananza e ho provato di tutto solo per sentirmelo dire, un giorno, fuori dal finestrino abbassato di una macchina, con un’espressione particolarmente felice, prima di salire le scale di corsa e tuffarmi sul letto nascondendo la faccia sotto il cuscino». Esiste insomma un’accezione estesa del termine «straniero» che potrebbe riguardare ciascuno di noi.   

 

Verrebbe da aggiungere: «De perto ninguém é normal», come cantava il Caetano Veloso di Vaca profana (ognuno ha le proprie citazioni): da vicino nessuno è normale. E per analogia potremmo dedurne che, da vicino, straniero è chiunque. Con l’avvertenza che La straniera di Claudia Durastanti – narrazione che spesseggia di asserti, pareri, giudizi, valutazioni e autodefinizioni – contiene anche un caveat, insinuato nel capitolo Italia (Viaggi): «io di errori nella traduzione ne facevo sempre e continuo a farli, perché nessun significato assume una forma stabile in me, e tutto quello che penso, e quello che poi dico, soffre nella trasmigrazione tra paesi diversi, sanguinando proprio come gli astronauti che hanno trascorso troppo tempo nello spazio e quando tornano a casa hanno continue epistassi sotto il sole». 

La figura della protagonista emerge in maniera graduale, quasi svincolandosi a fatica dal bozzolo dello scombinato ambiente familiare di origine. Un ruolo decisivo nella sua maturazione è svolto dalle letture; fin dall’infanzia, essa dimostra una vera vocazione di lettrice. Ma numerosi sono anche i riferimenti a canzoni, film, telefilm, con una notevole varietà di autori e di generi; l’impressione è di un vivo, spontaneo e assai contemporaneo disordine. Non meno sintomatica è la dimensione geografica, o topografica, che risulta mobile, imprevedibile, costantemente decentrata, eppure spregiudicatamente aperta. La straniera è anche (come forse inevitabile per un’autobiografia) un discorso sulla contingenza e sulla necessità, e il suo tratto distintivo è la connessione – starei per dire: il cortocircuito – fra inappartenenza e possibilità. Da questo punto di vista, Claudia Durastanti ha scritto non solo la vita sua o della sua famiglia, ma un libro generazionale.

 

Il punto d’arrivo, inevitabilmente provvisorio (per di più in tempi di Brexit), è una Londra difficile e molto personale. Una città carica di storia – il primo alloggio è legato ai nomi, a loro modo complementari, di Mary Wollstonecraft (1759-1797), l’autrice di Rivendicazione dei diritti della donna (trent’anni dopo la sua omonima figlia scriverà Frankenstein), e di Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII, madre di Elisabetta I, giustiziata nel 1536. A Londra, i primi luoghi che la protagonista dichiara di aver amato davvero sono un cimitero (l’Abney Park Cemetery), un cinema (Rio) che proiettava vecchi film anche alle due di notte, e una pista per skateboard (lo Stockwell Skatepark). Come dire: una Londra atipica, etimologicamente re-inventata. Che è forse la condizione distintiva della generazione a cui appartiene la Durastanti: non c’è luogo che non sia carico di passato, ma che non nello stesso tempo non debba essere ridefinito. L’identità è un flusso, e non solo per gli individui. A quale velocità scorra, non si può che scoprirlo via via.

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