Leggere la fotografia

19 Dicembre 2011

È vero che in Italia si parla poco e male della fotografia, come ha detto Michele Smargiassi aprendo la tavola rotonda, perché mancano luoghi di discussione istituzionali. Tuttavia penso che questa sia una grande fortuna; siamo fortunati che in questo paese non siano le istituzioni a occuparsi di fotografia. A questo punto della nostra storia, pensate se ci fossero davvero le istituzioni che si occupano di fotografia, e a dirigerle coloro che hanno occupato lo Stato in questi ultimi 15 anni. Per fortuna c’è un paese che sta sotto il pelo dell’acqua, per il momento, che non si vede ancora, ma che è vitale e significativo; e che fa ben sperare.

 

Inoltre, sono contento che questo paese non assomigli alla Francia, e che sia anche un paese “disunito”; questa unità nella diversità, che è poi la forma della nostra Unità, è a mio parere uno dei grandi valori che noi proponiamo, non soltanto all’Europa, ma a tutto il resto del mondo. Anche le tensioni che ci attraversano in questi giorni (la sinistra internazionalista ora è diventata nazionalista, ora ama la patria), credo siano un grosso valore per noi, o almeno dobbiamo farlo diventare tale.

Personalmente non sono uno che comunica la fotografia, come dice il titolo di questa tavola rotonda, piuttosto mi metterei in un altro campo, quello della interpretazione. Scrivo saltuariamente di fotografia (forse perché leggo i libri e, dunque, mi fanno scrivere, o voglio scrivere, di queste cose) e penso che la fotografia sia uno dei grandi sguardi che noi abbiamo sul contemporaneo, e che ci permette di capire molte cose. Questo è l’aspetto che m’interessa di più. Non amo la fotografia se non per questo: l’immagine è ferma e fissa e io, da lettore che ha consuetudine con le lettere e gli alfabeti, e lì si trova a casa propria, sono convinto che la fotografia sia uno dei grandi alfabeti del contemporaneo. Dobbiamo imparare a leggerlo.

 

Voglio presentare qui tre tesi, in modo icastico, non dettagliato, perché non ce n’è il tempo. Credo che ci siano tre grandi questioni che riguardano oggi la fotografia.

La prima è questa: non c’è più la fotografia. La fotografia è scomparsa. Esistono sostanzialmente le immagini; oggi la fotografia è soprattutto un oggetto; è il riquadro di carta sensibile, un oggetto che viene prodotto, venduto, scambiato, e ovviamente anche amato. Questo grande cambiamento è l’effetto della tecnica: il digitale ha cambiato completamente lo statuto della fotografia, e dunque anche lo statuto dell’immagine. Viviamo immersi nelle immagini. Non sono più delle fotografie quelle che ci circondano, che ci appaiono. Questo, credo, è il punto di partenza, una delle frontiere su cui occorre confrontarsi. Comunicare la fotografia, dice il titolo di questa tavola rotonda. Cosa si può comunicare quando in quest’universo le immagini, le immagini in senso lato, sono totalmente dominanti?

 

La seconda tesi riguarda la società, quindi la politica in senso forte, ed è l’effetto di questo cambiamento tecnologico. Le mie figlie fanno continuamente delle fotografie, delle ottime fotografie, rispetto a quelle che facevo e che faccio io con le macchinette, ma loro non pensano di fare fotografie usando l’iPhone o le macchinette digitali. Sono passate a un altro livello, a qualcosa d’altro. Ma cos’è questo qualcosa d’altro? Secondo me, bisogna cominciare a interrogarsi sull’aspetto ontologico, su cosa sono queste immagini con cui giocano i giovani oggi, che maneggiano con abilità e capacità estetica, perfettamente allineati al gusto dominante. Basta guardare alle foto postate su Facebook, un sistema di comunicazione e di scambio, un social network, nato proprio dalle fotografie, dalla fotografia post-fotografica.

La seconda tesi comporta una considerazione ulteriore: la fotografia si è democratizzata. Non so se è una vera democrazia, certamente questo è il problema che si pone, come una sorta di feed-back, una retroazione, sul che cos’è la fotografia dei grandi autori nel momento in cui la fotografia diventa immagine, diventa democratica, diventa di tutti, e da tutti viene usata quotidianamente. Basta vedere cosa è accaduto in Giappone in questi giorni, con la catastrofe nucleare, e pensare a quello che abbiamo visto sul web per l’ennesima volta: ovunque ci sono macchine digitali, cellulari e altri strumenti che producono immagini, sia immagini fisse che in movimento. La fotografia è diventata democratica, è di tutti (anche se poi non sappiamo più bene se è davvero fotografia). E questo pone un problema ai grandi autori, agli autori di fotografia, dai fotoreporter ai grandi protagonisti della fotografia d’autore, la fotografia artistica, ma anche ai nuovi autori che si affacciano per la prima volta in questo mondo dell’arte, della qualità visiva.

 

La terza e ultima questione riguarda il frame dentro cui ci troviamo. Perché ci sia la fotografia ci deve essere la cultura. Non c’è niente da fare! Ci vuole una cornice, e questa cornice è il vero problema che noi oggi abbiamo davanti: la definizione della cultura con cui noi conviviamo, la cultura contemporanea. Non funzionano più le definizioni tradizionali di cultura e non servono più i nostri vecchi maestri, coloro su cui la mia generazione, quella che si è affacciata al mondo adulto negli anni Settanta, si è formata (i francofortesi, ultima ondata di un lungo discorso che era cominciato meno di un secolo prima, con Benjamin, con Kracauer, o anche prima di loro). Che cosa è oggi la cultura? Dentro quale cultura noi possiamo leggere la fotografia, e dunque anche comunicarla? Ripeto: per me non è tanto un problema di comunicazione in senso stretto, dato che mi occupo prevalentemente di testi letterari, però occorre capire oggi che cos’è questo frame, definire la cultura in cui siamo immersi, che è appunto una cultura digitale, o del software, software culture, come dicono alcuni studiosi di immagini e del contemporaneo.

 

È uscito, da poco, un libro d’interviste con Carmelo Bene, che s’intitola Contro il cinema, edito da Minimumfax, che v’invito a leggere: è un testo meraviglioso, delirante ma anche straordinariamente tecnico, sul cinema e sopratutto sulla televisione. Altro argomento che bisognerebbe aggiungere qui, come quarto punto, perché, evidentemente non c’è solo il digitale, ma anche la televisione a ridefinire lo statuto dell’immagine, e poi quello che la televisione è stata ed è dal punto di vista tecnico, politico, culturale negli ultimi quarant’anni in questo paese e altrove. A un certo punto del libro Carmelo Bene, interrogato su che cosa sia fare cinema e sul perché lo fa in quel modo tutto suo, particolare, spiega che cos’è secondo lui la televisione. Dice una cosa straordinaria, parla dello sputtanamento della televisione, letteralmente; perché la televisione, dice, è diventata racconto e così facendo si è sputtanata; ormai questo tema dello “storytelling” è diventato dilagante. Per fortuna la fotografia non racconta: ha bisogno delle parole, delle didascalie, come ci hanno insegnato John Berger e Susan Sontag, e questo è un vantaggio, non uno svantaggio.

 

Viviamo in un meno: meno istituzioni, meno parole, meno racconti e questo forse può trasformarsi oggi in un vantaggio. Ecco, a un certo punto Carmelo Bene dice, naturalmente in modo provocatorio come gli è consono: Mi auguro che tutti a un certo punto impugneranno la macchina da presa e incominceranno a fare film! Bene, quest’epoca è cominciata, e quindi bisogna partire da qui, dalla situazione in cui noi siamo e pensare, dopo, solo dopo, come comunicare quella cosa che noi chiamiamo fotografia.

 

 

Questo testo è la versione integrale dell'intervento di Marco Belpoliti al convegno svoltosi a Forma (Milano) nel marzo 2011 i cui atti sono raccolti nel libro La fotografia in Italia. A che punto siamo? edito da Contrasto

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