Manodopera: vietato ai cani e agli italiani

21 Settembre 2023

Come ricostruire una storia familiare che conosciamo solo attraverso una memoria imperfetta, come tutte le memorie del resto, reticente, parziale, inevitabilmente slabbrata e discontinua? Come raccontare, rappresentare, dare corpo a quelle voci familiari che negli anni della nostra infanzia hanno costituito l’unico ponte con l’esperienza di altre generazioni – i nostri genitori, i nostri nonni, bisnonni, e giù giù all’indietro per tutti li rami? Esperienze di vita – e di morte, soprattutto di morte, verrebbe da dire – appartenenti a tempi che sembrano ormai remoti (o forse sono più vicine e attuali di quel che pensiamo: la storia si ripresenta, uguale e diversa insieme) che però fanno parte di noi, si incarnano in noi, in quanto figli, nipoti, pronipoti di quegli uomini e di quelle donne in movimento. Ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che in parte siamo, a partire dal cognome che ci tocca portare.

Se quel cognome è Ughetto e di nome fai Alain, e sei un regista ed animatore francese con ascendenza italiana, precisamente piemontese, porsi queste domande significa darsi delle risposte in forma di arte. Ed è proprio quello che fa con intelligenza il film Manodopera, produzione franco-italiana, in questi giorni ancora nelle sale, nonosrante l’inevitabile inflazione di pellicole in arrivo dal festival di Venezia. Un film impreziosito dalle musiche di Nicola Piovani e salutato da un notevole parterre di premi conquistati in questi mesi: presentato alla 75° edizione del Locarno Film Festival e scelto come film di chiusura del 40° Torino Film Festival, Manodopera ha ottenuto due ambiti riconoscimenti come Miglior Film di Animazione agli European Film Awards e Premio della Giuria al Festival International du Film d'Animation di Annecy.

m

La storia della famiglia Ughetto, partita da un paesino ai piedi del Monviso – come in una favola chiamato Borgo Ughettera, il paese degli Ughetti – e che intorno alle figure dei nonni paterni del regista, Luigi e Cesira, attraversa la storia italiana e francese dalla fine dell’800 agli anni della pace e della prosperità del secondo dopoguerra. Uomini, donne, bambini, ragazzi, anziani, che conoscevano la fame nera e la miseria contadina, la fatica e la mancanza cronica di quei territori che il grande riformista agrario Manlio Rossi Doria chiamava l’osso della nostra economia montana: luoghi e comunità dove le migrazioni, tradizionalmente stagionali poi a partire dalla fine dell’800 sempre più definitive e di lungo raggio, erano l’esito comune e naturale.

A partire erano giovani, ragazzi, ma anche bambini, i quali potevano lavorare come spazzacamini o essere comprati per i più disparati compiti. Un mondo dei vinti, per usare l’espressione di Nuto Revelli – che troviamo significativamente in esergo al film – che non rimane isolato dalle grandi scosse telluriche della modernizzazione: la richiesta di manodopera per le grandi infrastrutture, trafori e dighe sempre più colossali che trapuntano le Alpi, l’allargarsi dell’attrazione magnetica delle migrazioni internazionali e transoceaniche, la Merica sempre agognata, le guerre divoratrici di uomini che strappano giovani da tutti gli angoli del Regno – guerra di Libia, guerra di trincea, la tempesta totale della seconda guerra mondiale – il regime fascista e la sua repressione, fatta di prevaricazione e violenze che in ogni paese trovano la propria sinistra espressione, locale e minuta.   

n

“Ho pensato che sarebbe stato un bene per me offrire una testimonianza di quello che hanno passato i nostri antenati” – rivela il regista in un’intervista su CineEuropa – “Perché ci ricordiamo di nostro padre, nostra madre, un po' dei nostri nonni, ma oltre a questo non c'è niente. Scavando sotto il mio nome, ho trovato una storia. È la storia di una famiglia tra tante altre e ho potuto tornare indietro nel tempo, mescolare la storia intima con un'evocazione storica. Mi è sembrato un messaggio molto forte fare un film personale, unico, impegnato, persino arrabbiato: un film testimonianza. I testimoni di quell’epoca, la generazione nata intorno al 1870, in Italia, ormai non ci sono più da molto tempo. Nel villaggio di Ughettera, i tetti delle case sono crollati, cancellandone il passato contadino; gli alberi sono cresciuti sulle rovine del villaggio; di tutti i suoi abitanti, oggi, non resta più nulla.” 

Ed è così che inizia il film, in uno strano ibrido tra documentario e animazione a passo uno, con il regista in campo, o per meglio dire le sue mani, che dopo aver constatato che il paese degli Ughetti esiste veramente, ma averne toccato anche l’attuale desolazione, decide di ridare vita ad Ughettera, mettendosi materialmente a costruire lo scenario dove si svolgerà la storia in stop-motion di Luigi e Cesira. Utilizzando significativamente anche materiali che da Ughettera provengono: castagne, terra, foglie e verdure diventano parte del mondo contadino ri-creato nel film. Perché la realtà lillipuziana dei pupazzi di plastilina e la realtà storica che viene raccontata appartengono ontologicamente a universi differenti, come le esperienze dei nostri antenati lo sono per noi, e quindi è più onesto, ed efficace narrativamente, mettere in luce nella rappresentazione l’artificialità di questa conciliazione: artefatta nel vero senso della parola, perché costruita ad arte. 

n

Artefatta e quindi poetica e i momenti più intensi del film sono non a caso quelli in cui il regista mette in scena il dialogo impossibile tra lui adulto e sua nonna: come in tutte le favole, la nonna racconta ai nipoti quello che ha vissuto, ma il nipote-regista interviene nella storia, la mette in scena rendendola così visibile, ma inevitabilmente rendendola anche altra da ciò che era. Questa meta-narrazione arriva al paradosso che ad un certo punto, infastidita dei litigi tra i figli piccoli, nonna Cesira chiede ad Alain di occuparsi di suo padre-bambino che continua a frignare, e Alain allora prende in mano una mini-cazzuola e la dona al piccolo pupazzo animato che è suo padre. È questo un passaggio cruciale del film: mani che si passano abilità, conoscenze, saper fare. Dice sempre il regista: “Le mani di mio nonno hanno trasmesso il loro sapere alle mani di mio padre che a sua volta lo ha trasmesso a me, e oggi avevo il dovere di ricordarlo. Mio padre era molto pratico, lo sono anch'io e poiché è una storia molto personale, era quindi importante che io ci entrassi dentro e che le persone vedessero le mie mani. La mano diventa un personaggio, un personaggio che agisce su questo mondo, lavora, si interroga.” Pensare con le mani, diceva con la consueta precisione Primo Levi. 

Il titolo del film è Manodopera, ma il sottotitolo nella versione originale francese è come il cartello che la famiglia Ughetto trova all’arrivo in Francia, segno di un razzismo ed un rifiuto che oggi ci sembra anacronistico – come forse, ma non con la stessa forza di negazione purtroppo, i cartelli “Non si affitta ai terroni” con cui venivano accolti i meridionali nelle città del Nord Italia – ma che è solo la faccia dimenticata di un’epoca che rivive, con altrettanta ferocia, nell’Europa di oggi. Quell’Europa che rifiuta e lascia colpevolmente morire in mare, e in quelle stesse montagne percorse un tempo dagli emigrati italiani, i figli e le figlie sfortunate di altri continenti.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO