Stepanova: cronache di dolori rivelati

30 Ottobre 2022

La guerra delle bestie e degli animali (Capoversi Bompiani 2022), è un volume in cui Marjia Stepanova raccoglie, espressamente per il pubblico italiano, cinque poemetti scritti fra il 2015 e il 2020. Questi i titoli dei poemetti: Il corpo ritorna, Ragazze senza vestiti, Vestiti senza di noi (tratti da Vecchio mondo rammendo della vita), Spolia e La guerra delle bestie e degli animali. Stepanova, celebre anche in Italia per il libro di prose Memoria della memoria (Bompiani, 2019; qui la recensione su Doppiozero), nasce come poeta. La sua poesia, sperimentale e rapsodica, prosegue in modo originale la tradizione russa del poema, in versi, da Blok ad Achmatova, da Cvetaeva a Pasternàk. Ma l’originalità di Stepanova consiste nel rapporto drammatico fra la materia carnale della lingua e la potenza traumatica dei temi.

“La poesia è una sostanza assurda / dai molti occhi dalle molte bocche / che al contempo si trova in molti corpi” (Il corpo ritorna). Leggere questi versi significa sprofondare nella colata lavica delle sue parole, che tessono un ordito, uno spartito narrativo, in cui le immagini di decomposizione e rigenerazione ci catturano. “Il braccio sepolto nella Marna. / Il braccio sepolto presso Narva. / Il braccio che giace nelle paludi della Galizia. / La cenere di un braccio che da nessuna parte giace. / Tutto questo tornerà” (ibidem).

Stepanova sviluppa una sua epica civile che non viene narrata dall’esterno, come tema o come idea, ma che affonda direttamente nella parola stessa che descrive la putrefazione della carne, l’orrore fisico della fine. “E quando ci avvieremo alla resurrezione, / un bosco intero di estremità staccate, / alienate, abbandonate, non riconosciute, / stormirà sopra le nostre teste, / accorrerà al punto di raccolta / come il bosco di Birnam sulle colline di Dunsinane” (ibidem). Che cosa si dipana in questa poesia? Una tragica architettura di vuoti e di pieni all’interno della materia verbale stessa, dove morte e resurrezione si compenetrano. “E gambe, gambe, gambe isolate / negli stivali putrefatti (e stivali, stivali) – / come soldatini, staccatisi dalla parte, / (in parte roccia, e in parte nuvola), – tutte queste gambe si leveranno presso le taverne” (ibidem).

La pietà per i corpi morti è anche la grottesca parata della loro apparizione terrena. Le poesie di Stepanova sono cronache di dolori rivelati, installazioni visive da cui traspare l’assurda strage quotidiana della vita, come in certe composizioni di Christian Boltanski, fatte di “vestiti senza corpi”, vestiti ammucchiati alla rinfusa che appartenevano ai corpi morti nei lager. Come non ricordare la raccolta Vestiti senza di noi, che leggiamo proprio in questo libro? “...non era ancora l’alba, ma nel buio era chiaro, / come nella stanza, che tu ben conosci perché / sei lì distesa, come nella tua testa, // e quel che era un uomo, quella che era una camicia / si abbracciano l’un l’altra come una cosa sola: / prova ora a dividerli per genere e per tipo”.

Da sottolineare la potente sicurezza della voce poetica: Stepanova non esita mai. Quando decide un ritmo, una tensione, una forma, prosegue implacabile e non indugia in lirismi disfunzionali all’etica della descrizione. La poesia talvolta trascolora nei ritmi della prosa, il verso fluisce nella sintassi narrativa. L’intero libro è realmente e solamente esigenza di scrittura-svelamento di traumi storici, di violenze sociali. In alcune di queste descrizioni ci torna alla mente il poema epico anonimo delle letterature ucraina e russa, risalente alla fine dell’XI secolo, il Cantare delle gesta di Igor’.

Stepanova è immersa nel suo tempo (parla di Ucraina, di Crimea, di Donbass) ma lo fa precipitare nell’inattuale, come ogni vero poeta. Tutti i gesti crudeli dell’uomo sono eco di altri gesti crudeli già accaduti. Il presente è il passato. Il presente è il futuro. Tutto è memoria della memoria (evocando il titolo del suo stesso libro). Ma non dimentichiamo che ogni scrittore è sempre un giusto, un eletto, è chi parla per e nelle voci dei morti: “e io elencai / e ricordai / e mi guastai / e allora morii// morii / ma non ne uscì nulla / solo i libri / che poi ne uscirono / dopo cinquant’anni” (Spolia).

Stepanova intreccia una lingua lacunosa, “disseminata di vecchie mine”, specchio della terra distrutta e dilapidata dall’uomo. Mai si discosta dalla sua visione del mondo, che è fisica e metafisica insieme, intessuta di una disperata speranza dentro il ciclo sempre vivo delle cose e degli uomini: “vita tu sei uno strappo che ha bisogno di un rammendo // morte tu sei un impasto che ha nostalgia di un ripieno” (La guerra delle bestie e degli animali). Non può sfuggire al lettore la complessità dell’ordito di Stepanova.

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Il suo libro poetico è straziato, carico di passato e di futuro, bucato, poroso, brulicante. Vi si innesta anche una certa vena sperimentale, non tanto nel gioco linguistico ma nel contrasto fra parola scritta e corpo offeso.  “Giovani soldatini / in calzoni troppo larghi / vivono come tronchi sulla strada di primavera, // Come va, tu resuscitato? / Ma, così, fratello – risponde – / come sempre. // Corpi della poesia, voi siete sparsi qui e là, / come bossoli di plastica sparati / che non sanno decomporsi // Morirai, con te non li porterai. / Risorgerai, lungo la sutura non ti spaccherai. / Volerà via, non lo prenderai” (Il corpo ritorna). I morti si mostrano ai vivi. La scena è epica, di un epos attuale.

La poesia non è lineare, si disperde in ballate, ninnananne, filastrocche, si dilata e si accorcia, si compone e scompone, esposta alla frammentazione, alla vulnerabilità, alla perdita di rotta. Ma è solo apparenza: il poeta segue con metodo il suo viaggio. Fa incursione in secoli, stragi, persecuzioni, in nomi di poeti e di eventi, non smettendo di cercare parole arcaiche e barbare, di inventare strutture formali nuove. Domina il tema della morte violenta e della resurrezione: “Morire è ben sparire, / senza tanta ostinazione / e poi: resurrezione” (Spolia). Stepanova non si arrende. La vita, attorno a lei, nella sintassi e nel mondo, continua a fermentare: “Il visibile il vergognoso / l’invisibile l’intangibile / ogni tipo di fratellanza / fermentata nell’aria / trattenuta in cammino / repressa / tra i denti / parolaimpresa / parolaalbero / che irrigidisce / che si potenzia / che non è potenza / che si tiene a stento // serbata in segreto // mezza crepa mezza umanità” (ibidem).

Già Marija Stepanova scriveva, in Memoria della memoria: “La cultura russa non è mai stata un sistema chiuso, un’isola che viveva per conto suo, staccata dal resto del mondo. […] il ricordo diventa uno spartito che nessuno canta più, frammento di memorie altrui, testi che qualcuno ha ricopiato a mano”. Parole simili potrebbero adattarsi alla sua poesia, che ispeziona uno “spartito” che nessuno canta più: il mondo devastato, i corpi distrutti, morti ma pronti a risorgere. Stepanova ne raccoglie i pezzi in forma di parole, li rimonta, li inframmezza a citazioni, rimescola i registri linguistci. Modella una poesia barbara, fatta di corpi che hanno smesso di esistere, sospesi nella memoria; li fa risorgere, tentando di riparare lacune, di correggere ingiustizie, indagando la metamorfosi della materia-carne.

La metafora della “terra disseminata di vecchie mine”, che ho già ricordato, è la più pregnante per definire la poesia di Marija. Come osserva Daniela Liberti nella prefazione al volume: “L’atto di domestica denuncia diventa un dovere civile. Dare voce a chi subisce violenza, a chi non ha più diritto alla parola, a chi ha perso la dignità umana, il messaggio è evidente: il poeta si fa partigiano; la difesa di un corpo violato, in qualsiasi epoca – la sua missione da compiere”. Nei cimiteri dei vestiti, nelle distese di corpi inanimati, nell’apocalisse della resurrezione futura, Marija Stepanova modella il suo sguardo impietoso e commosso, dove non c’è spazio per l’eros felice ma solo per un ricordo straziato: “la camicia del nonno, la biancheria di chissà chi, /  le scarpe della nonna, il vestito della bisnonna piangono / la perdita dei corpi e di una vita piena”.

Vita, morte, guerra, si susseguono come sequenze inalterabili, a cui solo la presenza della poesia restituisce la luce di una speranza testimoniale che rappresenti l’irrappresentabile dolore: “prima e seconda / patriottica e patriottica / grande e pacifica / atlantica / mondiale // cadesti a terra senza un lamento / in quell’unica, quella civile / dove l’alba brulica nella cenere // estrae le punte della lance // vecchio mio ehi / hai da accendere / dice all’ucciso l’ucciso / l’ucciso dice all’uccisore”.  

Stepanova è messaggera di una poesia che è “sostanza assurda dai molti occhi dalle molte bocche”, sostanza che si mostra, negli stratagemmi della sintassi e nelle scelte lessicali, fiore vivo e carnale, destinato a decomporsi e a risorgere, terminazione nervosa di una poesia che, da sottoterra, continua a respirare dentro di noi – materica e trasparente denuncia contro la brutalità opaca della morte violenta.

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