Dell’ideale enciclopedico / Sull’arte della composizione di Danilo Kiš

26 Dicembre 2018

Alla fine del 1973, un anno dopo la pubblicazione di Clessidra, riflettendo sul suo «tentativo di sostituire sul piano formale la monotonia di un determinato procedimento attraverso una strategia polifonica», Danilo Kiš afferma in un’intervista:

 

Il mio ideale era, ed è ancora oggi, un libro che dovrebbe leggersi non solo come si legge un libro la prima volta, ma come un’enciclopedia (lettura preferita da Baudelaire e non solo da lui), e cioè costruito secondo un’alternanza brutale e vertiginosa di concetti, un libro capace di obbedire alle leggi del caso e dell’ordine alfabetico (o altro), nel quale si succedono nomi di persone celebri e le loro vite ridotte al minimo necessario, vite di poeti, di ricercatori, di politici, di rivoluzionari, di medici, di astronomi, ecc., divinamente mescolati a nomi di piante e alla loro nomenclatura latina, a nomi di deserti e clessidre, di dei antichi, di regioni, città, alla prosa del mondo. Stabilire tra tutto ciò un’analogia, trovare le leggi della coincidenza.

 

Kiš propone qui il suo ideale enciclopedico. Vorrebbe scrivere un romanzo la cui organizzazione sul piano formale sia governata da una polifonia di registri e stili (Clessidra) e da un principio di condensazione e riduzione – «vite ridotte al minimo necessario» – della materia romanzesca: un compito che porterà a termine nel 1976 pubblicando Una tomba per Boris Davidovič. Vorrebbe anche stabilire, attraverso un principio analogico, alcune leggi di coincidenza fra gli elementi dispersi nel tempo e nello spazio (biografie, nomi di piante, nomi di deserti, nomi di clessidre) –, ciò che ha in parte già sviluppato in Clessidra, che si appresta a compiere di lì a qualche anno in Una tomba per Boris Davidovič e che realizzerà in modo ancora più perfetto nel 1983 con Enciclopedia dei morti.

Penso che l’ideale enciclopedico di Kiš sia intrinseco all’arte del romanzo e alla sua storia: rappresenta la sua permanente aspirazione a riprodurre in una forma – «attraverso una strategia polifonica» – la totalità del mondo.

Questo ideale non si trova forse già in Rabelais? Kiš è il primo a saperlo:

 

In Rabelais c’era già tutto: la lingua, il gioco, l’ironia, l’erotismo ed anche il famoso engagement… Poi, tutto si è disperso: qui il gioco, là l’impegno politico, qui la scrittura, là l’erotismo. Il vaso si è rotto in mille pezzi.

 

 

 

Da ciò la necessità formale di una «polifonia» di registri e stili e di un’alternanza «vertiginosa» di punti di vista.

 

Si potrebbe fare il nome di colui che per primo, secondo Kiš, ha intuito la dimensione patetica della volontà di ritrovare l’universale in un’opera romanzesca: Flaubert. È Flaubert che ci ha insegnato che «lo stile è un’entità autonoma» (la faticosa ricerca della parola giusta; l’amore per il dettaglio; la coscienza della presenza nel dettaglio della totalità del mondo). Flaubert, precisa Kiš ha anche intuito, già in Madame Bovary, ma soprattutto nella Tentazione di Sant’Antonio e in Bouvard e Pécuchet, che lo stile in quanto accanito esercizio sulla parola non era più sufficiente a superare «le peggiori e più tenaci convenzioni letterarie»: il narratore onnisciente e il ritratto psicologico dei personaggi. Da qui la sua «fuga» nella leggenda e nell’esotico, in un territorio cioè in cui «i personaggi possiedono una maggiore pienezza, una maggiore libertà di azione, poiché il lettore non è in grado di compararli con gli archetipi psicologici della sua epoca storica» (considerazione che trovo fondamentale per il romanzo del XX secolo: penso al ritorno al mito nell’opera di Joyce e di Thomas Mann e ai personaggi inclassificabili dal punto di vista storico di Kafka. Ma anche, nella seconda metà del secolo, ai romanzi di Fuentes e Rushdie il cui denominatore comune, nella grande varietà e ricchezza di concezioni formali, è proprio la ricerca di questa «libertà di azione» lontano dagli archetipi psicologici). Da qui, aggiungo, la fuga dei due compari Bouvard e Pécuchet di fronte all’abisso dell’interiorità in direzione dell’enciclopedia dei saperi. Cercano all’esterno ciò che Madame Bovary cercava all’interno della sua anima infelice. Ma sia Bouvard e Pécuchet che Madame Bovary falliscono: i sentimenti ipertrofici dell’anima (romanticismo) ci nascondono il concreto dell’esistenza tanto quanto la volontà di raggiungere l’essenziale di noi stessi attraverso l’enciclopedia (scientismo) ci allontana da quello stesso concreto. Non ci resta quindi che l’ignoranza, ignoranza del mondo e di noi stessi?

Da Flaubert in poi, la domanda che continua a risuonare nella stanza del romanziere è la seguente: come offrire una visione totale del mondo e dell’uomo quando si è condannati alla frammentazione e quando l’illusione dello sguardo onnisciente e dell’imperativo psicologico si sono del tutto consumati?

 

Kiš pensa che Flaubert non ha potuto rompere «in modo radicale con la tradizione del genere realistico». Non è quindi un caso se l’autore jugoslavo prende a modello Rabelais, nella cui opera scorge un’originaria possibilità non realistica del romanzo. Quel che Kiš cerca con il suo ideale enciclopedico non è tanto ottenere lo specchio di un mondo frammentato moltiplicando la massa dei saperi, dei metodi e degli effetti retorici (realismo), quanto il contrario: estrarre l’essenza di questa massa ipertrofica allo scopo di comprendere l’uomo che esperisce e subisce questa valanga di dati disparati.

In una nota scritta nel 1986 e pubblicata nella raccolta di saggi Homo poeticus, Kiš scrive:

 

Se Flaubert avesse riassunto la gigantesca architettura del suo romanzo esotico in un racconto che esprimesse il soggetto di un libro fittizio e complesso intitolato La tentazione di Sant’Antonio, se avesse condensato la materia di Bouvard et Pécuchet in una novella che contenesse in sé, esplicite, parti di quel materiale (cosa facile da immaginare, poiché Flaubert aveva già avuto l’idea borgesiana di far passare per vere false indicazioni bibliografiche), la letteratura non avrebbe dovuto attendere un centinaio di anni prima che apparisse Finzioni di Borges.

 

A parte la prefigurazione dell’opera borgesiana nell’opera di Flaubert, del resto molto significativa per cogliere l’origine di certi strumenti formali che Kiš utilizza nella sua opera, traggo da questa citazione una sorta di piccolo programma estetico:

– bisogna ridurre il gigantismo architettonico del romanzo del XIX secolo

– bisogna condensare la materia narrativa

– il tutto deve essere realizzato da un narratore «poco affidabile».

Secondo Kiš, il problema fondamentale per i romanzieri venuti dopo Flaubert, una volta rotto il «vaso» rabelaisiano, è duplice: ridurre e condensare. 

 

 

Ridurre l’architettura del romanzo significa renderla più astratta, lavorare sulla sua sintassi. 

Condensare la materia significa giungere alla realtà dei personaggi attraverso un procedimento indiziario: un gesto, una giornata banale, un pensiero, un ricordo. Bisogna condensare la totalità dell’esperienza umana in un dettaglio. Bisogna far passare il massimo di informazioni con il minimo di parole, far entrare una vita intera, come afferma Kiš, in una voce enciclopedica. Condensare la materia romanzesca significa inoltre che la scena tende a scomparire in quanto sfondo su cui si accampano in primo piano i personaggi. La scena romanzesca abbandona la sua epoca figurativa a favore di una nuova epoca astratta, dove ogni gerarchia tra gli oggetti e perfino tra gli oggetti e i personaggi perde valore. Nell’opera di Kiš, è vero, ci sono molte descrizioni minuziose di oggetti, profumi, colori: un’enorme e scintillante proliferazione di dettagli. Ma, a parte il fatto che Kiš utilizza nei suoi passaggi descrittivi procedimenti formali che distruggono ogni percezione realistica del mondo, bisogna ricordare che in un regime di condensazione della materia romanzesca e di riduzione architettonica della forma ogni dettaglio diventa essenziale per la comprensione della totalità. In altre parole: il dettaglio nell’opera di Kiš non fa più parte del décor, ma della scena romanzesca integrale in cui nozioni come primo piano, secondo piano e sfondo perdono la loro portata.

Ridurre e condensare esigono poi, dal punto di vista temporale, ancora una volta, uno sforzo di astrazione: all’artificio della trama, alla costruzione unidimensionale degli avvenimenti succede una pluralità di tempi di azione a cui corrisponde una pluralità di registri e di stili. L’unità dell’opera, perciò, risulterà più dai temi che dallo svolgimento temporale dell’azione (penso al tema tragico dei campi di concentramento di Una tomba per Boris Davidovič, e in particolare al sesto capitolo, «Cani e libri», novella-capitolo che è parte integrante del romanzo sebbene il tempo dell’azione sia il Medioevo). Da ciò il ruolo fondamentale nell’opera di Kiš dell’arte della composizione, dei rimandi, delle corrispondenze, del montaggio, delle ripetizioni di dettagli, motivi e temi, delle enumerazioni, delle varianti e delle variazioni, dei cambiamenti (in senso musicale) di tempo e di ritmo.

 

 

Ridurre e condensare significa poi gettare uno sguardo all’indietro: il futuro del romanzo è inscritto nel suo passato, ovvero nella novella in quanto forma breve di una sola arte, l’arte del romanzo, e in quanto precedente non solo cronologico ma estetico del romanzo moderno. Per Kiš non c’è differenza ontologica tra novella e romanzo. In un suo saggio, Romanzi in un palmo di mano, soffermandosi sull’opera di Babel’, afferma:

 

Un’edizione americana dell’Armata a cavallo di Babel’ porta come sottotitolo a novel, romanzo. Non si tratta di una semplice astuzia pubblicitaria: le novelle dell’Armata a cavallo non sono una “raccolta di racconti sparsi”, ma piuttosto un romanzo esploso, un romanzo da cui sono banditi i tradizionali rapporti di solito necessari per creare una falsa continuità temporale, i legami e i cliché così in uso nelle opere dei cattivi romanzieri.

 

E ancora:

 

Una raccolta di novelle è perciò, all’interno di tale unità tematica, solo una particolare forma di romanzo; e non c’è nulla di cui stupirsi: i classici come Le Mille e una notte e il Decameron di Boccaccio rappresentano anch’essi un tentativo di creare un racconto integrale grazie all’introduzione di un’unità artificiale…

 

Kiš conosce bene la differenza tra Le Mille e una notte e il Decameron, che consiste nell’invenzione originale e moderna da parte di Boccaccio di una cornice dove i personaggi della brigata possiedono un’autonomia sconosciuta nelle precedenti raccolte di novelle.

 

Il creatore contemporaneo – afferma Kiš – tenta, attraverso alcuni fenomeni isolati, dei segmenti di vita, di rivelare la totalità del mondo e dell’esperienza umana, di far presentire, attraverso un frammento, un’immagine, delle leggi superiori e di creare, attraverso un gesto, una giornata banale di un essere banale, grazie alla deduzione (a livello ontologico) e l’induzione (a livello di procedimento letterario), un’immagine globale del mondo e del tempo, la “totalità dell’esperienza”. È per questa ragione che la novella diventa sempre di più un romanzo breve, a short novel.

 

Tale spirito, allo stesso tempo «deduttivo» e «induttivo», proviene dalla matrice decameroniana del romanzo: è grazie al suo spirito deduttivo che il gran de precursore ha per la prima volta organizzato una vasta materia narrativa in uno spazio e in un tempo ben definiti e umani; ed è grazie al suo spirito induttivo – «a livello di procedimento letterario» – che ha potuto offrire in ogni novella un’«immagine» della «totalità del mondo».

 

Se il romanzo desidera continuare a svolgere la sua funzione estetica – oltre che quella cognitiva – malgrado la completa disintegrazione dei valori del mondo contemporaneo (disintegrazione che Kiš ha vissuto: disintegrazione politica e famigliare, pubblica e privata e perfino disintegrazione della frontiera tra pubblico e privato), deve fare suo quello che Hermann Broch chiamava «stile della vecchiaia» o «stile dell’essenziale» o «stile astratto».

Per Broch il romanzo nella sua lotta storica per superare le convenzioni dell’epoca romantica e naturalista – lotta che dura ancora oggi – deve sempre più integrare tutte le altre forme. Chiamava questa opera integrale «romanzo polistorico», di cui il terzo tomo de I sonnambuli e Gli incolpevoli sono gli esempi migliori.

Il problema estetico, la trasformazione del romanzo del XIX secolo in un’opera integrale, è per Broch una «risposta etica» a un’epoca di disintegrazione dei valori, che ha avuto inizio quando il mondo occidentale ha perduto l’unità dei valori cristiani. Gli avvenimenti apocalittici della storia occidentale della prima parte del XX secolo non hanno fatto che accentuare la dissoluzione:

 

 

Se l’arte – afferma Broch nel suo saggio Lo stile dell’età mitica (1947) – ha la possibilità o il diritto di continuare a esistere, deve assegnarsi il compito di produrre ogni sforzo al fine di raggiungere l’essenziale, di diventare il contrappeso all’ipertrofico dolore del mondo. Imponendo alle arti un compito simile, quest’epoca di disintegrazione si incarica di imporre loro lo stile della vecchiaia, lo stile dell’essenziale, lo stile astratto.

 

Per questa ragione, secondo Broch, il romanzo deve imparare dalla pittura non figurativa (Picasso) e dalla musica (Schönberg e Stravinskij), la più astratta fra le arti. Il romanzo dovrà «musicalizzarsi», arricchire cioè quella che Broch chiama la «sintassi» più che dedicarsi ai suoi «vocaboli», definire la «struttura matematica» delle situazioni umane più che dipingere i paesaggi e gli stati d’animo, cogliere l’essenza del sorriso più che riprodurre un uomo che sorride.

L’esigenza estetica del romanzo è perciò quella di ridurre e condensare la complessità del mondo. Ma tale riduzione non dovrà sacrificare la complessità del mondo e ciò grazie a una musicalizzazione dell’architettura romanzesca. Condensare e rendere essenziale la materia romanzesca è un’esigenza nata in un’epoca in cui, come afferma Broch, «i problemi privati» sono diventati ripugnanti quanto «i crimini più efferati» e soggetti «alla derisione degli dei», che hanno tutte le ragioni nel negare agli uomini la loro pietà.

 

Già nell’opera di Kafka i «problemi privati» dell’uomo avevano perduto tutta la loro consistenza. Con Broch la costruzione del personaggio diventa sovrapersonale.

Pasenow, Esch e Hugenau, i protagonisti dei Sonnambuli, sono il precipitato di un patrimonio storico e culturale che attraversa i secoli e le frontiere. Pasenow, ad esempio, è incomprensibile senza la riflessione del narratore sul plurisecolare processo che ha condotto l’uniforme militare a prendere il posto dell’abito ecclesiale. Esch è allo tesso tempo Martin Lutero, così come il personaggio Egon von Nemeth, alias Odön von Horvath, protagonista della novella di Kiš L’apolide, è allo stesso tempo la quintessenza di un destino centroeuropeo e l’archetipo dell’Uomo senza Patria.

Quando la Storia, sostenuta e alimentata dalla tecnica, mostra tutta la sua forza di astrazione (la guerra, i campi di concentramento, lo sterminio sistematico degli uomini) e la sua capacità di rendere risibile o perfino criminale ogni azione poetica, allora la rappresentazione artistica è paradossalmente costretta, se desidera rappresentare la realtà, ad astrarsi per estrarne la «struttura matematica». Per questo scopo il romanzo ha bisogno di un metodo di esplorazione sovrapersonale e transtorico dell’esistenza umana. Con Kiš: una biografia secondo una «cronologia spirituale e non storica».

L’ideale del romanzo enciclopedico di Kiš mi sembra molto più vicino all’«immagine del mondo del romanzo» di Broch che alla «biblioteca di Babele» di Borges. L’enciclopedismo di Kiš è più un’arte della composizione che un’arte della combinazione. In Kiš il gioco formale non diventa mai esercizio sulle interpretazioni del mondo. Al contrario: la sua arte è al servizio, in tutta la sua ricchezza stilistica e varietà di registri, del bisogno profondamente umano di cogliere un’immagine totale del mondo. Invece di un esercizio su un tema le cui possibilità di interpretazione sono già inscritte in un codice – religioso, filosofico, retorico –, l’opera di Kiš è una lunga e infinita esplorazione dell’uomo a partire dalle sue ossessioni, dove la frontiera tra «i problemi privati» dell’individuo e i «i crimini più efferati» della Storia ha smesso di esistere.

 

 

La Storia è la quintessenza dell’astrazione anche per un’altra ragione: è popolata da uomini senza volto. Il romanzo corregge la Storia. Il suo scopo è offrire a ogni individuo un volto. Per compiere ciò, secondo Kiš, non può affidarsi alla sola immaginazione. Deve addurre prove, scovare documenti, rinvenire tracce e disegnare, partendo da un quadro altamente incompleto, un’immagine veridica della totalità, consapevole che la sua correzione è, in ogni caso, una ricostruzione divorata dal dubbio. La Storia, infatti, si incarica puntualmente di falsificare, se non di cancellare i documenti, le prove, le tracce.

 

Nell’Enciclopedia dei morti, l’ultima opera di Danilo Kiš, dove il romanziere si avvicina di più al suo ideale artistico, i due livelli, storico e ontologico, giungono a coincidere, realizzando quella «cronologia spirituale e non storica» che Kiš aveva immaginato dopo la pubblicazione di Una tomba per Boris Davidovič.

In questa raccolta di novelle, che altro non è che una «particolare forma di romanzo», si ritrovano le condizioni fondamentali dell’ideale enciclopedico di Kiš: la riduzione architettonica (si tratta di un romanzo suddiviso in nove novelle con alla fine un Post scriptum in cui il narratore offre una serie di spiegazioni sulla genesi del libro e un elenco dei riferimenti storici e bibliografici); la polifonia degli stili e dei registri (ogni novella imita un codice specifico: leggenda, lettera, ricerca filologica, cronaca di un delitto. Ogni novella, grazie alla sua forma specifica, esplora un aspetto specifico della morte); la condensazione della materia romanzesca (la novella che, ad esempio, dà il titolo al libro è allo stesso tempo un romanzo nel romanzo, il centro gravitazionale dell’insieme e la rappresentazione metaforica dell’aspirazione enciclopedica dell’autore).

 

Ogni novella si svolge in un tempo determinato. Nella prima ci troviamo all’epoca della morte di Cristo; nella seconda, negli anni venti del XX secolo; nella sesta siamo a Praga alla fine del XIX secolo; nella terza, che d. il titolo al libro, ai giorni nostri, mentre nella quinta, nel 1858, all’inizio del regno di Francesco Giuseppe...

Quel che dà unità all’opera è il tema della morte. Inoltre, tale unità è rafforzata dalla dispersione controllata di dettagli e motivi che si ritrovano nelle diverse novelle e dal principio di contiguità che determina la disposizione delle novelle e che è parte integrante della «logica delle coincidenze», elemento strutturale dell’ideale artistico di Kiš.

Alla fine di ogni novella è possibile riscontrare un legame con la successiva.

Nella prima troviamo Sofia, una prostituta siriana, fedele compagna di Simon Mago, che dopo la morte del maestro se ne torna a esercitare il vecchio mestiere:

 

La gente si scostò e lei fendette la folla silenziosa e si diresse verso il deserto, singhiozzando. Il suo corpo mortale tornò in un lupanare e il suo spirito trasmigrò verso una nuova Illusione.

 

All’inizio della seconda, Onoranze funebri, siamo nel 1923 in Germania, ad Amburgo, nella zona del porto. Qui una prostituta di nome Marietta muore:

 

In una delle stanzette che si allineano nelle vicinanze del porto era morta all’improvviso, di polmonite, una prostituta di nome Marietta. L’ucraino Bandura, un marinaio e rivoluzionario, sosteneva che “si era consumata d’amore”. Egli non poteva associare nulla di banale con il suo corpo divino, e poi la polmonite è “una malattia borghese”.

 

Il «corpo mortale» di Sofia risuona come un’eco in quello «divino» di Marietta, mentre lo spirito di quest’ultima incrocia quello della prima, trasmigrato verso «una nuova Illusione». Ma non è finita. «L’Illusione» di Sofia, incarnata nella prima novella dalla religione e dai miracoli di Simon Mago, è qui ripresa nella sua variante profana: la morte di Marietta, amata dal rivoluzionario Bandura, sarà l’occasione di organizzare un funerale che si trasforma in una vera e propria manifestazione proletaria.

Alla fine di Onoranze funebri, Bandura sta raccontando le vicende del funerale a qualcuno di nome Johann o Jan Valtin (l’incontro tra i due uomini avviene cinque anni dopo la morte di Marietta). All’inizio della terza novella, che si svolge ai giorni nostri, la protagonista si trova in Svezia invitata dall’Istituto di studi teatrali. La sua guida è una certa signora Johansson.

Alla fine della quarta novella, i dormienti della leggenda giacciono supini nella caverna del monte Celion:

 

Giacevano nel profondo sonno dei morti. Se fossi là capitato d’improvviso e li avessi visti, ti saresti volto in fuga pieno d’arcano spavento (corsivo mio).

 

In questo caso «l’arcano spavento», cioè le ultime parole della novella risuonano già nel titolo della successiva, Lo specchio ignoto, che non è altro che la cronaca di un misterioso delitto del 1858 i cui arcani furono materia di discussione di diversi periodici di spiritismo dell’epoca.

Coincidenze? Certo. Ma bisogna entrare nella diabolica «logica delle coincidenze» che si verificano nel corso del tempo, o meglio nel corso dei diversi tempi storici delle diverse novelle (o capitoli di romanzo) per comprendere che è attraverso questo particolare metodo che l’autore giunge a superare l’orizzonte psicologico dei personaggi e la successione lineare dell’intreccio. Nell’Enciclopedia dei morti non si può mai  distinguere i diversi momenti presenti di ogni novella dalla presenza della morte in quanto problema ontologico. L’autore, attraverso la ricostruzione del momento presente, storicizza ogni volta la Morte, le dà un volto, mentre, attraverso la «logica delle coincidenze», riconduce la Morte al suo ruolo, quello di grande incognita umana. 

 

Kiš è riuscito in un’impresa eccezionale: ogni ricostruzione storica della morte è nello stesso tempo una variazione ontologica sulla morte.

Nell’ideale di Kiš la cronologia delle voci enciclopediche è illusoria, perché la Storia si ripete – le voci si ripetono (la Morte, sempre la Morte). Ma il sapere romanzesco esiste per correggere le ripetizioni della Storia, per costituirne le variazioni.

 

La grande mancanza

Come lettore dell’Enciclopedia dei morti conosco il messaggio fondamentale dei suoi compilatori, a cui ogni scrittore non può smettere di prestare ascolto: ogni vita è unica, è sacra. Tutto, nella biografia di un uomo, è degno di essere nominato, descritto, custodito, sebbene tale biografia, ridotta e condensata, non occuperà alla fine che un breve paragrafo del Grande Libro.

Tutti gli Eduard Sam di questo mondo hanno diritto al loro Orario Internazionale, alla loro follia enciclopedica, ma anche a un figlio che porti a termine il compito di ricomporre il quadro, non foss’altro che un quadro istruttorio, non fosse che a partire da una sola lettera.

E se per questa opera di ricostruzione biografica non ci fosse più un figlio? Non ci fossero più legami di famiglia? Nessun accesso a nessuna lettera, a nessun documento, a nessuna tomba, come nel caso del rivoluzionario Boris Davidovič e degli altri milioni di persone inghiottite nei campi del XX seco lo? Chi potrebbe testimoniare della vita e della morte di quel padre? Chi potrebbe disegnare i contorni della sua presenza fisica nel passato e della sua inesistenza spirituale nel presente? Chi, in assenza di documenti, potrebbe riportare dall’oblio l’individuo senza tomba?

 

Di fronte a queste domande che conducono al centro dell’opera di Kiš e che Kiš ci ha lasciato in eredità (mi domando: quale eredità in un mondo che non riesce più ad affacciarsi alla finestra del passato?), non posso fare a meno di pormi altre domande.

Oggi, in un’epoca in cui sono al lavoro schiere di compilatori immersi nell’eterno presente ipertrofico e incontrollabile delle informazioni e dei commenti senza nessun legame concreto con la vita e con la morte, si può, mi chiedo, comprendere ancora la portata dell’amore di Kiš per l’enciclopedia? La sua ossessione per le persone che sono scomparse senza lasciare né nome né tomba? E ancora: si può dopo una così grande Mancanza, aspirare ancora a uno stato di autentica mancanza?

Il mondo che Kiš ha esplorato nella sua opera è scomparso. E così il suo amore per l’enciclopedia. Si è confuso con lo spirito del nostro tempo, cioè con lo spirito del catalogo, che trasforma la Storia in un esorcismo della memoria, privandoci del tempo necessario per guardare con intensità le rovine del presente.

Abbiamo bisogno di concentrazione, di riduzione, di condensazione, di silenzio, di elevazione, di buon senso, di sano disgusto per la «cultura», di fede nell’inspiegabilità di homo poeticus e di antenne per captare nell’aria i ricordi che, come ben sapeva Danilo Kiš grazie al suo maestro Nabokov, sono fatti della stessa stoffa dei sogni.

 

Post scriptum

In una breve lettera d’amore che nel 1953 un Danilo diciottenne e innamorato scrive a Jean, una sedicenne inglese incontrata durante una vacanza in Dalmazia, l’autore jugoslavo, forse per la prima volta, sperimenta tutto il potere che può sprigionare un’esistenza ridotta a voce enciclopedica:

 

Mio padre era un povero ebreo. I nazisti lo hanno cremato in un campo di concentramento, mentre io con mia madre e mia sorella vivevo in Ungheria presso certi parenti paterni. La morte di mio padre è stata solo il primo colpo. Nel 1947 siamo venuti in Jugoslavia, nella patria di mia madre. Qui è morta anche lei, nel maggio 1950. Ho perso mia madre! Mia sorella l’estate scorsa si è sposata e ora sono solo.

 

Che cos’è l’amore romanzesco di Kiš per l’enciclopedia?

Intanto l’aspirazione, congenita all’arte del romanzo, a contenere in una forma la totalità del mondo. Poi, l’ossessione biblica che ogni vita è insostituibile e che perciò, in una biografia, anche il più infimo dettaglio deve essere registrato. Infine, che solo i vivi ma anche i morti hanno diritto di combattere contro il nulla.

Penso: di tutti i morti di questo mondo inghiottiti dalla Storia che cosa ci rimane? Una foto, una lettera. I morti non hanno potere. Nessuno scrittore più di Kiš ha sperimentato il potere della loro impotenza.

Non so se le domande che risuonano nella sua opera siano ancora udibili. E se ci accorgessimo che una ricostruzione biografica ed enciclopedica del passato non fosse più possibile? Chi potrebbe strappare all’oblio l’individuo spogliato della sua stessa morte? E soprattutto: che ne sarebbe dell’individuo che resta, una volta cancellata la possibilità di ricomporre la biografia di coloro che lo hanno preceduto? Si capisce allora che l’amore di Kiš per l’enciclopedia non è altro che l’irriducibile controcanto a un’immensa sparizione di tracce, o, che è lo stesso, a una loro immensa manipolazione.

Il mondo che Kiš ha esplorato nella sua opera è scomparso? Forse non del tutto.

C’è una foto, scattata nel 1953 sulla spiaggia di Macarsca, dove si vede un gruppo di ragazzi. Al centro c’è un’adolescente bionda. Indossa una camicia chiara. Se ne sta seduta e sorride. Ha i capelli un po’ scompigliati dal vento. Accanto, disteso sulla sabbia, un giovane dall’aria vulnerabile e sfrontata. Dopo quella vacanza si scrissero. La ragazza ha conservato per sessant’anni una lettera che lui le inviò nel novembre del 1953. Non si incontrarono mai più…

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