Suonare nei Lager

10 Dicembre 2022

Il libro di Francesco Lotoro Un canto salverà il mondo. 1935–1953: la musica sopravvissuta alla deportazione (Feltrinelli, Milano, 2022), riassume un’ossessione fondamentale dell’essere umano: la speranza che la morte, anche la più tragica, anche quella anonima consumata nei campi di sterminio, non metterà mai fine all’arte, felicemente immortale. Per addentrarmi in questo libro cito una delle frasi più incisive: “La musica invisibile è l’arte più solida, quella che più resiste alla morte”.

Se è possibile distruggere nell’olocausto del fuoco ammassi di tele e cumuli di libri, la musica che un musicista conserva nella sua mente e che non ha ancora concretizzato in spartito è indistruttibile finché lui vive: ogni musicista, pur prigioniero, vuole, con le residue energie, mantenersi in vita per potere un giorno, una volta libero, tradurre quella musica pensata in note reali, in sonate, opere, canzoni, assoli; oppure, più semplicemente, anche da prigioniero, poter intonare un canto o sussurrare una melodia inudibile agli aguzzini, che in quel momento ha il potere di distoglierlo dal dolore e dall’odio. Come scrive Silvia Comoglio: «Un progetto dal valore incommensurabile e straordinario come straordinaria è la vita di Francesco Lotoro che ha fatto da sempre della sua esistenza una casa per l’anima e le partiture di tutti i musicisti che ha cercato e di quelli che ancora sta cercando. Per farci dono del loro canto, l’unico che può mostrarci la via della salvezza, che può salvarci».

Lotoro, pianista e compositore di Barletta, classe 1963, è da oltre trent’anni coinvolto in prima persona in questa impresa utopica, tanto impossibile quanto possibile: costruire un archivio della musica sopravvissuta alle deportazioni e ai campi di sterminio. Il libro si costituisce di venticinque capitoli: Testamento dell’ingegno, Da Budapest a Praga, Alla ricerca della musica perduta, Imperatore dii Atlantide, Nomi e paternità, KZ Musik, Ghetti, Lager, Heil. Sachsenhausen, Polonia, Internati militari italiani, Schiacciasassi, Con le catene ai piedi, Profonde connessioni, La musica vive nell’aria, Una Storia da riscrivere, Maestro, Nuovi incontri, Giramondo, Internamento, Rito laico, I roma, Gulag, Alieni, Strade che separano e uniscono, più un Epilogo.

Per scrivere un libro composito come questo, che intreccia centinaia di destini, vite, viaggi, progetti, Lotoro si mette sulle tracce del testimone, parente o amico del deportato, con pazienza, curiosità, pudore, ostinazione, sollecitando il tema doloroso della memoria ma solo in riferimento alla sfera musicale. Ne emerge un arcipelago di nomi e di opere che avvolge il libro come una costellazione. La domanda è sempre la stessa: chi e cosa sopravvive? Quanto resta, nella memoria e negli archivi, di questo patrimonio sonoro e umano disperso, ma non totalmente disperso? Scrive Francesco Lotoro: «Perché era così importante scrivere e fare musica nei Campi?

Probabilmente la migliore risposta è quella di Emile Goué, geniale compositore francese, prigioniero di guerra deceduto un anno dopo la liberazione per una malattia contratta nel campo. “La musica non era un intrattenimento o un gioco ma l’espressione stessa della nostra vita interiore. Facevamo musica molto seriamente, senza alcuna ironia. Era impossibile fare grandi cose senza convinzione e la convinzione che l’artista deve portare al suo lavoro non è altro che credere nella necessità di ciò che scrive”».

Da questa necessità nasce il Quartetto per la fine del mondo di Olivier Messiaen, eseguito per la prima volta dal musicista nel campo di prigionia di Görlitz, il 15 gennaio 1941, nella baracca n.27B, adibita a teatro. Jean Le Boulaire suonava il violino, Étienne Pasquier il violoncello, Henri Akoka il clarinetto, lo stesso Messiaen il pianoforte: organico rarissimo per un quartetto, ma l’unico possibile in quelle circostanze. Osserva Messiaen: «Ho scritto un quartetto per i musicisti e gli strumenti che avevo, per così dire, sotto mano. Avevo bisogno di pensare alla musica, di farla, per sentirmi vivo. Sono partito da un’immagine molto amata, quella dell’Angelo che annuncia la fine del Tempo».

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Per Lotoro la Recherche di un nuovo Tempo oltre l’apocalisse è appena all’inizio. Da trent’anni è cacciatore di spartiti musicali disseminati in tutti i campi di prigionia, transito, lavori forzati, concentramento, sterminio, penitenziari militari, aperti da: Terzo Reich, Italia, Giappone, Repubblica di Salò, regime di Vichy e altri Paesi dell’Asse, Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Alleati in Europa, Africa coloniale, Asia e Oceania. Nei suoi ripetuti e instancabili viaggi è riuscito a raccogliere 18 mila documenti, e negli ultimi 30 anni è stato instancabilmente impegnato nella scoperta, studio, revisione, archiviazione, esecuzione, registrazione, promozione di migliaia di opere di musica concentrazionaria. 

Ha recuperato oltre 8.000 partiture, prodotte in condizioni estreme di privazione degli elementari diritti umani, nei campi di concentramento, sterminio e prigionia civili e militari di tutto il mondo tra il 1933 (apertura della KZ Dachau) al 1953 (morte di Joseph Stalin e amnistia per i prigionieri dei Gulag), cioè dall'ascesa del nazionalsocialismo alla fine dello stalinismo sovietico; 12.500 documenti di produzione musicale nei campi (microfilm, diari, quaderni musicali, registrazioni fonografiche, interviste con musicisti sopravvissuti); 3000 pubblicazioni universitarie, saggi di musica concentrazionaria e saggi musicali prodotti nei campi. Un archivio unico al mondo creato viaggiando e incontrando ovunque i figli, gli amici, i custodi di quelle preziose testimonianze d'arte in campi di prigionia intrisi nel dolore ma non soffocati nel silenzio.

Ma, per indagare meglio il paradosso di una creatività vissuta al confine della natura umana, l’autore scrive: «Oltre a fissare il perimetro della ricerca, occorreva formulare una corretta definizione di musica concentrazionaria, ossia creata in cattività o in condizioni parziali e estreme di privazione dei diritti fondamentali dell’uomo. La ricerca intrapresa era molto delicata: urgeva uscire da biblioteche ed archivi e trasformarsi da studioso in esploratore. Affinché questa ricerca avesse un senso, non soltanto bisognava essere credibili ma inattaccabili. Non vi è nulla di più scientifico e matematicamente dimostrabile della musica».  

La passione di Lotoro, nata come urgenza personale, ha uno scopo preciso: dimostrare che l’ingegno umano è più forte del più indicibile dolore e che la musica può e deve essere un essenziale strumento di resistenza contro la morte. Nel 2014 Lotoro apre nella sua città natale la “Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria (ILMC)” Fondazione ILMC – di cui è presidente, e dove sono raccolti microfilm, diari di prigionia, quaderni musicali, registrazioni su audiocassetta e videocassetta, registrazioni fonografiche su dischi in vinile, centinaia di volumi di letteratura scientifica e teorica, ore di interviste a strumentisti e compositori sopravvissuti.

«Ho trovato pentagrammi – racconta – scritti su carta igienica, carta da alimenti, sacchi di iuta, ritagli di stoffe, telegrammi. E a scriverli non sono stati solo musicisti. Tante le  canzonette trovate e scritte da semplici appassionati di musica, che provavano ad esorcizzare la sofferenza con la parodia. Motivi semplici, che rimanevano nella memoria e che i prigionieri scrivevano quando riuscivano a procurarsi oggetti appuntiti e carta bianca» Pianista, organista, direttore d’orchestra, Lotoro, dopo il ritrovamento di una nuova partitura, la esegue e fa eseguire le partiture dalla sua Orchestra. Autore dell'Enciclopedia in 24 volumi CD KZ Musik (Musikstrasse - ILMC), contenente 407 opere scritte in cattività durante la seconda guerra mondiale, ha anche progettato la creazione della Cittadella della Musica Concentrazionaria, un luogo reale e non utopico dove il suo sogno di esploratore delle musiche sommerse dei Campi diventerà, entro pochi anni, tesoro artistico pubblico: il progetto comprende un Campus delle Scienze Musicali, una Bibliomediateca musicale, un Museo dell’Arte Rigenerata, un Teatro con 212 posti e una Libreria internazionale del Novecento.

Impossibile elencare tutte le biografie e tutte le storie che addensano questo libro, una tragica coreografia di nomi, di opere, di date di nascita e morte, un intreccio di aneddoti, cronache, leggende. Concordiamo con Peter Bichsel quando scrive: «Ha senso continuare a scrivere perché scrivendo diventa possibile narrare altre vite». Nel caso di Lotoro, queste vite sono segnate dalla felice ossessione della musica. «Se è vero che – parafrasando Gustav Mahler – la memoria non è adorazione delle ceneri bensì alimentazione del fuoco», questo libro si prende carico di un fuoco che non dovrà mai spegnersi. «Come in un magnifico puzzle... rimettendo ogni tassello musicale al proprio posto, completando pentagrammi, ricucendo luoghi di cattività a luoghi d’origine e ritorno, incastrando frammenti…”, il libro di Lotoro è il tentativo illuminista di ridare un ordine alla catastrofe, riattribuendo a certe opere perdute i nomi dei loro autori ritrovati, come in un mai terminato atto di giustizia postuma che decreti la fine del “lutto millenario” dei deportati dei campi di prigionia, vittime di un détour tragico dal loro futuro di uomini.

Nell’epilogo del libro se ne definisce il senso, in modo fiero e definitivo: «La musica scritta in deportazione e prigionia ha superato i test più severi del tempo inesorabile e della Storia; pochi altri lasciti testamentari come questa letteratura ci renderanno immuni da qualsiasi sciagura intellettuale per traghettarci verso un’era che mettta al centro degli interessi individuali e collettivi l’uomo, la sua dignità e la sua imparagonabile capacità creativa e costruttiva». Il compito di questo libro è proprio quello di “conservare”, in tutti i modi possibili, quanto non deve andare perduto: è una forma di “arca” nella quale “custodire”.

Resta solo il rimpianto, a fine lettura, di non ascoltare direttamente le musiche e le voci che lo hanno popolato, in un coro generale che testimonia la potenza della fiamma come resurrezione dalla cenere: “Ciò che resta del fuoco” intitolava Derrida uno dei suoi libri più belli, dove si parla di olocausto e di memoria. Ecco, “ciò che resta” di Un canto salverà il mondo è la sconfinata musica dei campi di prigionia, inaudita, segreta, dispersa musica, che più della letteratura e della pittura ha saputo tenere vivi gli uomini nel tempo del loro sistematico massacro, vivi e vicini all’idea che l’essere umano non sia solo un carnefice di innocenti ma un creatore di bellezze. .     

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