Nelle sale dal 7 febbraio / Vedere la classe

1 Febbraio 2019

Milioni di genitori pagherebbero oro per vedere e sentire cosa capita nella classe dei loro figli. Non solo per spontanea predisposizione al controllo, ma oggi soprattutto per la diffidenza crescente nei confronti degli insegnanti. L’era internet cominciata negli anni Novanta come sappiamo ha decapitato tutti gli Autorevoli. Chi cazzo ti credi di essere? Sei uno studioso, uno scrittore, un giornalista, un professore con una trentina di anni di studi, esami, corsi e dici la tua su un argomento di tua specifica competenza? Chissenefrega! Siamo tutti profili con l’identico diritto di dire la nostra su qualsiasi argomento, compreso quello che è di tua competenza. Che un professore possa saperne qualcosa in più parlando di educazione, apprendimento, diritti, doveri, financo discipline è ormai messo in dubbio anche in classe da un buon numero di giovanotti e giovanotte under 14 seduti nello stesso vano di un edificio scolastico. Non mi sto lagnando del declino del prestigio sociale della classe docente. Inutile lagnarmene, poiché è già accaduto.

L’autorità si è sfarinata e l’autorevolezza oggi ce la guadagniamo non tanto con il curriculum vitae e il cursus honorum, quanto con gli effetti riscontrabili sulla educazione, la competenza, il benessere dell’allievo, che è divenuto nostro cliente in questo contratto tra privati e Stato; se il cliente non è soddisfatto, il prof viene rimborsato con un bel deficit di rispetto e attenzione immediato. Chiaro che i genitori vorrebbero vederli in faccia, e sentirli, questi presuntuosi professoroni che si permettono di educare i loro irrequieti figliuoli.

 

 

Per ora i sindacati resistono alla videocamera in classe (collocata solo dai Carabinieri quando si tratta di pinzare una maestra manesca e pessima), così per vedere cosa succede in classe per ora ci sono soltanto la televisione e il cinema. La scuola non ha un grande appeal, francamente, sa sempre un po’ di sfiga e di grigiume, ma qualche film ogni tanto ci riprova a insinuare un occhio senziente nelle classi, e quasi sempre il risultato è come minimo interessante. Il cinema francese, che ha il primato mondiale per il suo touch nel trattare le questioni sentimentali, erotiche, famigliari, si è ormai preso anche il primato in materia scolastica. Dal meraviglioso Être et avoir di Nicolas Philibert del 2002 la cinepresa è entrata in classe con un metodo documentaristico; una classe primaria di Saint-Étienne-sur-Usson in Auvergne, dipartimento di Puy de Dôme nel Massiccio centrale accompagnata dal dicembre 2000 al giugno 2001; 13 bambini dai 4 ai 13 anni con un maestro sulla soglia della pensione. Colloqui del maestro con genitori e alunni, litigate tra piccoli e grandi, dolcezza di un educatore empatico… Être et avoir, incantevole e commovente, fatto di sola realtà e verità ma ripreso con una delicatezza infinita resta un poema per immagini della quotidiana dolce fatica dell’insegnamento.

 

 

Poi è arrivato Entre les murs nel 2008, con la regia di Laurent Cantet, Palma d’Oro a Cannes. In quel caso il soggetto, in grana autobiografica, era il libro di François Bégaudeau, anche sceneggiatore e attore protagonista. Bégaudeau è uno scrittore carino e forse anche fighetto, ma aveva centrato almeno un altro libro sul versante competenza-amorosa-dei –francesi,  L’amour dure trois ans, diventato film con la regia di Frédéric Beigbeder nel 2012; anche Entre les murs ha una spiccata vocazione documentaristica; viene girato con veri studenti nel XX arrondissement di Parigi, con sessioni-workshop nelle vere scuole. In questo film entra di brutto il tema dell’immigrazione e della difficile integrazione di tanti ragazzi di origini maghrebine e africane, e per la prima volta noi italiani abbiamo visto operante un tema totalizzante che viviamo in questi anni nella nostra scuola media.

 

 

Il colto parigino, il privilegiato, va nella periferia, e lotta contro la marea del deficit di apprendimento, dialoga e si scontra giorno dopo giorno con la realtà dei “bisogni educativi speciali”. Ha la sua bella articolata marmorea cultura occidentale con sé ma in quelle classi deve lasciarla a terra, e reinventarsi tutto, venti, venticinque relazioni interpersonali da zero, senza cattedra a una spanna da terra, senza rispetto garantito, senza interesse apparente per quello che vorrebbe trasmettere.

Tra pochi giorni nelle sale italiane uscirà un nuovo capitolo di questa avventura del cinema francese nella scuola: Olivier Ayache Vidal è un giovane regista al suo primo lungometraggio dopo un avvio di carriera nel reportage; questa sua attitudine di indagine giornalistica lo ha portato a costruire la sua sceneggiatura attraverso un intenso confronto con molti testimonial del mondo delle scuole medie francesi: in Francia la media dura quattro anni, e precede un liceo di soli tre anni, con il diploma superiore che arriva a 17 anni.

 

Ayache Vidal ha individuato una scuola media della provincia francese e lì si è insediato con la troupe due anni, sostenuto da un dirigente scolastico innamorato del progetto, individuando come protagonisti veri studenti e vere storie. Gli attori si sono innestati. Ayache Vidal ha deliberatamente scartato l’idea iniziale di lavorare in un liceo, perché ha notato che i ragazzi o erano assenteisti o lavoravano sodo, obbedienti al sistema, mentre nelle medie l’emergenza sociale e emotiva è un soggetto incandescente. Il processo di Les grande esprits (uscito in Francia nel settembre 2017 e ora in Italia intitolato Il professore cambia scuola) parte quindi da un metodo di indagine giornalistica, su cui poi si vanno a stratificare alcune nuances di commedia sorridente, e di commovente empatia. Denis Podalydès, attore della Comédie-Française, interpreta il protagonista François Foucault (cognome non casuale!), un quasi cinquantenne professore in un prestigioso liceo classico del centro della capitale figlio un po’ imballato di un grande trombone della Parigi intellettuale. Insegna latino, è sprezzante, crudele, distante dai liceali svogliati e spaventati che avvicina schifato tra i banchi, rifilando zero ventesimi, due ventesimi, e rari 17/20 accompagnati comunque da sarcasmi. A una presentazione in libreria del libro del papi pontifica su “quei poveracci di colleghi che devono insegnare nelle banlieues”, ridotti ad alfabetizzazione primaria con immigrati di seconda o terza generazione totalmente estranei alla crème culturale europea. Aggiunge come battuta, con un bicchierino di champagne in mano, che sarebbe interessante catapultarsi ogni tanto in quelle trincee per vedere da vicino l’effetto che fa. Gli va male, perché a sentirlo c’è l’assistente del capo di gabinetto della Ministra dell’Istruzione francese, probabilmente di gauche, che lo invita di corsa, entusiasta, a una riunione di vertice per sperimentare proprio quello: un anno nelle periferie di un pezzo da novanta dell’educazione secondaria della Nazione.

 

 

Lui rimane incastrato e da quel momento il film racconta il viaggio verso il degrado del professor Foucault; in macchina il primo giorno di scuola lascia i bei palazzi del centro e i bei grattacieli e via via sprofonda nei palazzoni squallidi, sino a parcheggiare davanti alla media dove dovrà stare un anno, tenendo un diario per la signora Ministra, pilota forse di una rivoluzione del sistema educativo. Le prime settimane sono catastrofiche: fa il duro, cerca di punire, sfiora il burn-out precoce; è circondato di giovani cinici colleghi trentenni che hanno sempre insegnato in quel bordello, che lo trovano spocchioso e fuor di luogo. Piano piano, dopo una scena molto divertente in cui si mangia ignaro un bel po’ di torta all’hashish portato a scuola dal peggiore della classe, un ragazzino di origini africane, il professore capisce che non può portare a bere una mucca che non ha sete, e comincia ad andare incontro ai suoi ragazzi. Non può darsi pace che non vogliano sapere nulla, scopre che non vogliono sapere nulla perché pensano che non ce la faranno mai, e attraverso Les misérables di Victor Hugo, sfondando con la biografia dello scrittore e con la violenza di fatti di cronaca verosimili, facendo capire come scrittura e lettura siano leve di riscatto umano e sociale, finalmente crea un efficace “ambiente di apprendimento”, evolve da stronzo a empatico, da punitivo diventa anti-punitivo, e quando a fine anno tutti si congedano, il ragazzino gli si siede accanto e gli dice: «Lei ci mancherà». 

 

 

Les grands esprits è quindi un documento che ci svela quanto il mondo della scuola sia più o meno lo stesso in tutto il mondo occidentale. Il bellissimo programma televisivo di BBC Two, School, un factual in sei episodi, ha raccontato dall’Inghilterra gli stessi problemi: tagli ai finanziamenti, insegnanti sfiniti ma resistenti, ragazzi con lo smartphone in mano che rispondono a monosillabi al cazziatone dell’Head Teacher.

 

 

Due gli esperimenti-scuola della televisione italiana nell’era populista giallo-verde: ovviamente i supponenti professori scompaiono o quasi, essendo tra le categorie più invise ai truci leghisti e ai retisti 5 stelle: il format un po’ finto Alla lavagna! di Rai3 fa sfilare davanti a una super-classe elementare di super-bravini vari personaggi e personaggetti della politica, del giornalismo, dello spettacolo, e soltanto l’intensità e la sincerità di Vladimir Luxuria (al secolo Guadagno Wladimiro classe 1965) hanno realizzato un puntata bella bella su gender e bullismo, anche se Vladimir usa poco il congiuntivo.

 

Il supplente di Rai2 invece, portando a sorpresa in classi di liceo ex allievi di quella scuola divenuti personaggi celebri è molto interessante, perché rivela quanto i ragazzi siano oggi interattivi con qualsiasi variante alla lezione frontale, o al canone del “programma del libro di testo” e alla routine delle verifiche; la puntata con J-Ax che torna nella sua classe di periferia milanese a insegnare informatica è molto efficace: al secolo Aleotti Alessandro classe 1972 è davvero bravo con la sua giovinezza giovanilista a portare i ragazzi all’archeologia della programmazione, ad Alan Turing, che dapprima decrittando il codice Enigma ha consentito la fine della Seconda Guerra Mondiale e poi si è suicidato perché distrutto dalla persecuzione per la sua identità omosessuale. Morso alla mela che ha ispirato l’omaggio del marchio Apple. 

Al cinema o in televisione quindi, chi accetta di nuotare nella realtà vulcanica degli adolescenti, come un pesce della rivoluzione maoista alla fine ce la fa; se entra in classe senza tonaca, se è autenticamente se stesso, se cerca il contatto, i ragazzi lo percepiscono. Non è necessario essere eroi, né logorarsi i nervi. Bisogna inventarsi da capo, ogni giorno, dove ci si trova, e con chi si è. Ci saranno ore commoventi e ore squallide, c’est la vie, ma saranno ore che lasceranno segni.

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