Oggi al Goethe Institut Torino / Warburg e l’etica delle immagini

15 Marzo 2017

 

Oggi a Torino si innaugurano i due giorni di incontri sul tema delle immagini e della violenza: come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero propone qui una riflessione di Marco Belpoliti intorno al tema per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Aby Warburg è diventato con il passare degli anni un personaggio mitico. Nato nel 1866, e morto nel 1929, il suo nome è legato alla nascita dell’iconologia oltre che alla prestigiosa biblioteca da lui messa insieme in cambio della rinuncia all’eredità di una ricchissima famiglia di banchieri tedeschi. Disposta secondo il criterio del buon vicinato, e seguendo una sequenza originale e inconsueta, la biblioteca si è salvata in Inghilterra diventando la fonte essenziale per successivi studi. I due più famosi esponenti dell’Istituto Warburg, suoi successori, sono Ernst H. Gombrich e Erwin Panofsky. Il primo è stato per lungo tempo il più celebre studioso d’arte, ha operato a Londra e ha scritto una biografia del fondatore; Panofsky, invece, rifugiatosi in America dopo l’avvento del nazismo, ha influenzato profondamente gli studi accademici di storia dell’arte. Entrambi gli autori hanno dato di Warburg e della sua lettura dell’arte una visione pacificata ed edulcorata, omettendo gli aspetti più inquieti nel suo lavoro che disorientano: l’eccentricità disciplinare, l’incollocabilità e la vertigine epistemica che la sua opera edita, e inedita, apre.

 

In un libro, L’immagine insepolta, Georges Didi-Huberman riapre il confronto con Warburg, non solo illuminando punti salienti dell’opera e della vita dello studioso, ma soprattutto usando il “metodo Warburg” per leggere lo stesso studioso tedesco, ovvero rivitalizzando un discorso sull’arte, e non solo. Libro vivace dal punto di vista intellettuale, ma anche da quello politico – la cultura che non può fare a meno della politica, e viceversa – L’immagine insepolta dialoga, anche polemicamente, con alcuni dei libri e degli studiosi più interessanti in Europa e in America, quelli usciti dalla fucina di October (si veda il libro di Hal Foster, Il ritorno del reale, tradotto in Italia con dieci anni di ritardo). In cosa consiste il “problema” di Warburg? In una questione abissale: Warburg ha gettato uno sguardo nella schizofrenia dell’Occidente “attraverso il riflesso autobiografico delle sue immagini”. Psicostorico dell’arte, come si era battezzato, ha raccolto in una doppia figura questa “malattia”: da un lato l’eccitazione estatica raffigurata dalla Ninfa danzante rinascimentale, la menade dei Greci, e dall’altro la forma depressiva che si raccoglie nell’immagine della divinità fluviale in lutto, che è stata poi, per semplificare, l’immagine studiata da alcuni dei suoi discepoli della melanconia dell’artista (o dello scrittore) meditabondo e crucciato. Warburg ha analizzato il modo in cui nelle immagini sopravvivano, di secolo in secolo, temi e questioni che fanno parte non solo della cultura figurativa, letteraria o filosofica, ma della vita stessa. In questo modo, sulla scia di Nietzsche, lo studioso tedesco ci ha fatto scoprire un tema diventato negli ultimi decenni decisivo: la pluralità del tempo, ovvero l’esistenza di temporalità multiple, ramificate, parallele, contrapposte alla visione riduttiva dell’unica freccia del tempo che scorre dal passato verso il futuro. Il modo con cui Warburg definiva il suo lavoro era: “storie di fantasmi per adulti”. I fantasmi sono appunto le immagini che ritornano nel campo visivo. Tra il 1921 e il 1924 Warburg fu ricoverato in una casa di cura per malattie nervose. Lo curava Ludwig Binswanger, il più famoso psichiatra del Novecento, corrispondente di Freud, fondatore della fenomenologia psicologica, in dialogo con Heidegger (si vedano le sue cartelle cliniche e le lettere pubblicate in La guarigione infinita, Neri Pozza). La follia, mania e depressione alternate, s’impadronì di lui e lo tenne prigioniero per tre anni. Fu come se tutti i temi agitati dalla sua ricerca, gli sguardi gettati nelle profondità psichiche della cultura occidentale, lo avessero posto dinanzi a problemi insolubili sul piano concettuale. Didi-Huberman parla di lotta con il mostro, di dramma psichico e di nodo e complesso e dialettico; Warburg voleva trovare il bandolo della matassa e cercare di illuminare con la ragione questioni che non si lasciano ridurre ad essa, ma pescano nel mondo dell’irrazionale: il pensiero può anche rendere folli. Prima del suo ricovero nella clinica, si era recato in America, presso gli indiani Pueblo, alla ricerca della chiave d’interpretazione della celebre statua di Laooconte e dei suoi figli, avvolti nelle spire dei serpenti. Lì scoprì un rito dei serpenti che avvalorava le sue ipotesi sulla psicostoria delle immagini. Alla fine del suo periodo di cura, davanti a un pubblico d’infermieri e dottori, Warburg tenne una conferenza in cui cercava di descrivere i legami che tra questi due “oggetti” visivi così differenti (Il rituale del serpente, Adelphi). L’altra grande avventura di questo uomo dall’apparenza altoborghese fu la costruzione di un grande atlante della memoria (Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno) in cui cercava di legare immagini di un affresco fiorentino e simbologie antiche, reperti archeologici e immagini contemporanee.

 

Come argomenta Didi-Huberman Mnemosyne è “un oggetto d’avanguardia che decostruisce l’album-souvenir storicistico delle influenze dell’Antichità per sostituirgli un atlante della memoria erratico, regolato sull’inconscio, saturo di immagini eterogenee, invaso di elementi anacronistici e immemoriali”. Warburg lavora con il montaggio attivando ciò che in quegli stessi anni stava facendo l’arte d’avanguardia. Tra Braque, Schwitters, Rodčenko e Warburg non c’è diretta comunicazione, tuttavia, come spiega l’autore, il paradigma di pensiero che li sostiene è il medesimo: “le immagini portatrici di sopravvivenze non sono altro che montaggi di significazioni e di temporalità eterogenee”. Detto altrimenti, Warburg, al pari delle avanguardie e di Walter Benjamin, fa esplodere il modo di pensare il passato della tradizione. Gli autori che il volume mette in campo accanto allo storico dell’arte tedesco sono Nietzsche, Darwin, Freud, Lacan descrivendo un campo di pensiero che la cultura contemporanea ha espulso ma che, come i fantasmi e il rimosso psichico, immancabilmente torna per mettere in crisi asserti, convinzioni, definizioni e cronologie assegnate. L’arte (ma anche la letteratura) è un grande campo di battaglia dove si combatte una lotta che è insieme culturale e politica, dove la lettura delle forme è connessa con la scommessa sul tempo: la posta in gioco è la possibilità di modificare insieme presente e passato, e dunque il futuro. Warburg è stato il solitario sismografo, come si definì, fabbricato con pezzi provenienti dall’Oriente, dalla Germania del Nord e dall’Italia: “lascio uscire da me i segni che ho ricevuto”.

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