Oliver Sacks, perdite & eccessi

31 Agosto 2015

Quando nel 1986 uscì in italiano L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di uno sconosciuto medico nato a Londra nel 1933, che viveva a New York, di nome Oliver Sacks, lo acquistai subito. Lo tenni sul tavolo per quasi un anno, poi quando mi decisi a leggerlo, complice una malattia invernale, fu una straordinaria scoperta. Il libro si leggeva tutto d’un fiato e lasciava basiti. Mi colpì, non solo quello che c’era scritto nel libro, ovvero le storie che Sacks raccontava con un talento unico, da scrittore, bensì il modo con cui aveva diviso i vari capitoli del suo libro: Perdite, Eccessi, Trasporti, Il mondo dei semplici. La fantasia e la penna di medico-scrittore si coniugavano con un modo di pensare e organizzare le storie raccolte davvero singolare. Niente nel libro era banale e scontato, neppure nell’indice. Poi il suo editore italiano tradusse Risvegli che era precedente di oltre un decennio. Uscito nel 1973 in America, era in effetti il suo primo libro. Trascinato dal successo de L’uomo che scambiò era stato recuperato sia negli Stati Uniti che da noi. Anche qui due cose colpivano: la presenza di varie prefazioni corrispondenti alle diverse edizioni del volume, e il fatto che nella prima del 1973 citasse due mostri sacri degli anni Settanta: il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e il Keynes della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Non gli servivano come riferimenti culturali, ma per parlare del modo in cui aveva scritto il suo libro: “questo libro è davvero soltanto un album” (Wittgenstein); e “La composizione di questo libro è stata per l’autore una lunga lotta di evasione” (Keynes), evasione dalle idee vecchie, ovviamente, come precisava. Il libro era meno godibile del precedente dal punto di vista letterario, ma pieno di idee: una vera impresa umana e intellettuale. Poi è stato un succedersi di libri letti e chiosati: Vedere voci sul mondo dei sordi, Su una gamba sola dedicato a un incidente in montagna, e gli altri ancora, dodici in totale. Di molti di questi libri ho scritto, non di tutti, perché l’attività di recensore cui mi ero dedicato su il manifesto, prima, e La Stampa, poi è legata alle occasioni. Non sempre ci ero riuscito. Rimpiango di non aver scritto di Emicrania, quarto libro tradotto, il più complesso e complicato, quello più di studio, se così si può dire, forse il meno riuscito, ma proprio per questo per me affascinante, e L’isola dei senza colore, il cui titolo mi aveva catturato per l’espressione “senza colore” (tutti sono privi di qualcosa nei suoi libri, a partire da lui), oltre all’argomento: il colore. Oggi che Oliver Sacks se ne è andato, ho pensato che il modo migliore per ricordarlo sia quello di riprendere le pagine che ho scritto su di lui nel corso di questi trent’anni, massaggiandole un poco. Ecco qui.

 

 

 

Su una gamba sola

 

È una giornata coperta e imbronciata, con una promessa di sereno, e un giovane medico inglese sta salendo una montagna norvegese. È in gran forma e orgoglioso del proprio stato fisico. A un tratto s'imbatte in un cartello che annuncia: Attenti al toro! “Un toro in alta montagna?”, si chiede perplesso. Subito dopo, l'incontro improvviso con il misterioso toro norvegese lo costringe a una fuga dissennata e gli provoca una rovinosa caduta. Il giovane medico ha una gamba inabile, non riesce più a camminare. Con grandi sforzi e molta inventiva, si trascina fino a valle usando una “tecnica gluteale”, finché, allo stremo delle forze, viene salvato. Questo è l’inizio di Su una gamba sola del celebre neurologo Oliver Sacks, in cui ricostruisce la singolare avventura della sua gamba scomparsa.

 

Operato in Inghilterra per lo strappo del quadricipite – siamo nel 1974 – il medico non sente più la propria gamba. Disteso nel suo lettino d'ospedale, Sacks compie da paziente tutte le esperienze cui lo costringe la struttura medica. Lui, medico e parente di medici, entra in conflitto con il chirurgo che l’ha operato e sperimenta la condizione di estrema passività della prigione clinica. Raccontato in prima persona con grande carica emotiva, questo diario clinico ci mostra un Sacks scisso nella doppia figura di ammalato e di medico alle prese con il pellegrinaggio della propria malattia. Il suo caso è quello della scomparsa di ciò che anatomicamente c'è – la gamba –, il rovesciamento dell'effetto “arto fantasma”, per cui i mutilati sentono ancora la presenza dell'arto assente. Chiusa dentro l'armatura bianca del gesso, la gamba è scomparsa e anche una volta recuperata clinicamente, l'infortunato non riesce a usarla.

 

Il neurologo inglese sperimenta su se stesso l'esistenza della “cognizione sensitiva dei muscoli” o, come viene definita dopo Sherrington, della propriocezione, cioè della sensibilità legata a impulsi provenienti dai muscoli, dalle articolazioni e dai tendini, di cui, a differenza dei cinque sensi, non ci accorgiamo perché normalmente inconsapevoli. Il “sesto senso”, un tempo definito anche chinestesia, è quello che ci dà accesso a una conoscenza complessiva del corpo, della posizione e degli spostamenti con una precisione quasi matematica, e, come si è scoperto di recente, anche di recepire i movimenti circostanti. Senza il sesto senso anche gli altri cinque sarebbero ciechi e muti, come la gamba di Sacks, clinicamente sana, ma assente alla percezione sensoriale del suo legittimo proprietario.

 

 

Grazie alla sua prosa emotiva, ma contemporaneamente contenuta, tanto da ricordare il tono di certi profeti biblici, scritto come il racconto di un esodo attraverso il deserto della malattia, Su una gamba sola è l'ennesima conferma del talento narrativo del neurologo inglese, ma è anche la testimonianza del suo modo di lavorare. Ogni libro di Sacks è insieme racconto e tentativo di comprensione, un universo aperto sul piano concettuale, tanto che egli continua a correggere, emendare, integrare i suoi libri, sottoposti a un lavoro di riscrittura davvero inconsueto per un “ricercatore”. Il fatto è che in Sacks la teoria è sempre sottoposta alla verifica dell'esperienza e questa coincide con il cammino di Mosè-Oliver attraverso il regno del deficit e delle malattie neurologiche. Armato di grande curiosità – virtù condannata dai Padri della chiesa, ma riabilitata nel patrimonio occidentale proprio grazie ai pensatori ebrei – Sacks mette in discussione tutto.

 

Il finale di Su una gamba sola, trionfalmente iscritto nella teoria dell’“apriori kantiano”, viene smentito da Post scriptum del 1991, dove l'autore propone un'altra interpretazione della sua esperienza dell’“arto mancante”, alla luce delle ricerche di due importanti studiosi della memoria come Israel Rosenfield e Gerald Edelman (il secondo, immunologo e biologo, è Premio Nobel). Forse è proprio questa commistione di grande capacità affabulatoria e di ingenuità teorica che lo rende così gradito ai lettori non-specialisti, incuriositi dal misterioso funzionamento del corpo umano. Trasformando in racconto l'inconsueto, il deficit, Sacks ci dà l'impressione di partecipare a quell'impresa di conoscenza dei processi della percezione, e ci fa scoprire come la partecipazione sia una virtù anche in uno scienziato. Sacks, come il suo maestro ideale, Alexandr Lurija, psicologo russo, non ha uno sguardo distaccato, ma si mette in mezzo al racconto; il narratore è infatti sempre dentro, ne è una variabile, e raccontare è partecipare.

 

Il tema della percezione completa del proprio corpo è al centro anche di uno straordinario libro, quello di John M. Hull, Il dono oscuro, che è aperto da una intensa introduzione di Sacks. Si tratta del diario di un uomo diventato cieco intorno ai quarant'anni. Hull è australiano, ha studiato in Inghilterra; è esperto di metodologia dell'insegnamento della religione e lavora all'università di Birmingham. Il suo è un libro inconsueto proprio perché non si tratta di un racconto, di un’opera narrativa, ma di osservazioni, appunti, considerazioni, riflessioni, scritti che seguono una sequenza cronologica, diaristica, nel corso di tre anni. Sacks afferma che Il dono oscuro ricorda Ricerche filosofiche di Wittgenstein proprio per la loro forma di schizzi vivaci. Certamente non è un'opera filosofica, ma Hull ha in comune con il filosofo austriaco lo spirito d'osservazione, il desiderio di scandagliare; l'emotività scorre come una forza interrogativa nelle pagine di quest'opera che è certamente senza paragoni. L'autore infatti ci fa capire molte cose intorno ai sensi e alle percezioni riflettendo sulla scomparsa del principale di essi, la vista, intorno a cui si costruisce il nostro universo concettuale e metaforico.

 

Le osservazioni che Hull compie sulla pioggia o sulla capacità che possiede un cieco di dar risalto ai contorni delle cose, sono affascinanti; la pioggia ricostruisce la continuità della percezione sensoriale che la cecità ha troncato, costringendo l'autore in uno spazio vuoto, assente. L'universo discreto in cui Hull è immerso lo induce a paragonare la sua condizione a quella di chi non sente, a stabilire un parallelo tra lo spazio visivo e quello sonoro: “Può darsi che tutte le menomazioni gravi comportino una contrazione dello spazio e, per contro, una dilatazione del tempo”; e ancora: “per chi è sordo e cieco lo spazio si restringe ai confini del corpo, mentre il tempo resta quasi inesauribile”. Il cieco sembra possedere un tempo dilatato, ma, d'altro lato, “quando si dispone di una grande quantità di tempo si finisce per sperimentare un tempo inflazionato”.

 

Nell’introduzione Oliver Sacks si dice interessato al fatto che queste carenze sensoriali, prodotte dalla menomazione, generino compensazioni di altri sensi. E Hull, grazie alla sua esperienza di ricercatore e metodologo, soddisfa questa curiosità medica, fornendo ampio materiale nel suo album; infatti è portato a interrogarsi su tutto, a porsi continui problemi, non trascurando alcun elemento: il rapporto con i figli più piccoli, con la moglie, con i colleghi, i problemi di lavoro e quelli di spostamento, la sessualità e lo studio, gli episodi quotidiani, le riflessioni di altre persone colpite da privazioni sensoriali o da malattie debilitanti. Ma è soprattutto quando parla della sua mappa oscura, dei suoi sogni visivi che ci fornisce molte chiavi per penetrare meglio nel nostro stesso mondo di vedenti. Hull non possiede più una chiara immagine di sé; con il tempo tende a perderla, come se si trovasse in fondo a un tunnel e una svolta improvvisa lo allontanasse di colpo da quel puntino luminoso che ancora esisteva alle sue spalle. La nuvola nera è nel suo cervello: “essendo invisibile agli altri, divento invisibile anche a me stesso, e questo significa che perdo la consapevolezza del mio corpo, che perdo coscienza. Il che sta a indicare la cecità archetipica: perdita di coscienza, discesa nel sonno, senso di annullamento. Essere visti vuol dire esistere”. Non solo la percezione di sé muta, ma persino la memoria sembra trasformata, tanto da assomigliare sempre più al breve spazio che egli conosce con le sue mani e con il suo bastone: “la mia memoria assomiglia alla memoria della lumaca: il mio corpo fa memoria della piccola striscia di terreno sul quale sono passato, ed essa consiste di tanti piccoli particolari, talmente piccoli che dal punto di vista di un gatto o di un cane li si potrebbe giudicare irrilevanti”.

 

Dalla lettura dei due libri si scopre un elemento comune: entrambi fanno ampiamente riferimento alla sfera religiosa; in particolare Hull, che è un credente, ripensa all'immagine del Dio cristiano attraverso il suo universo buio. Alcune delle più belle pagine del professore australiano sono dedicate al commento del Salmo 139 e alle sue metafore di Dio che tutto vede e conosce, mentre in altre la protagonista è la musica, la sua armonia. Anche Sacks, in Su una gamba sola, come nei libri seguenti, torna sulle esperienze che restituiscono un senso di “completezza” agli uomini dimidiati. In uno dei racconti di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), Jemmy, un etilista che ha perso la memoria immediata, è completamente catturato dal rituale della Messa; lo segue senza che si manifesti alcuna amnesia o incoerenza. Così la musica interiore, riflesso della “musica esteriore”, aiuta il dottor Sacks a riavere la sua gamba; o ancora, l'arte permette a un uomo di ritrovare se stesso dipingendo a memoria il borgo di Pontito, vicino a Firenze. Arte, musica, religione, si presentano come attività potenti, ha detto Sacks in una conferenza (Neurologia e anima), ponendo così l'accento sul tema della totalità dell'individuo, a cui le scienze mediche continuano a rivolgersi, nonostante tutto, ancora con sguardi parziali.

 

 

 

Oaxaca

 

Cosa ci fa sotto un grande cactus, seduto su un muretto a secco, scarpe New Balance ai piedi, cappellino da baseball, penna e quaderno in mano, il celebre neurologo autore di Risvegli, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Vedere voci e altri celebri libri su casi clinici? Sta scrivendo il suo diario, che noi possiamo leggere nella nuova edizione Adelphi: Diario di Oaxaca. Sacks si trova in una regione del Messico che si affaccia sull’Oceano Pacifico, aggregato a un gruppo di appassionati cercatori di felci, tutti personaggi bizzarri e curiosi. Sacks è un devoto di questo genere di piante, tanto da imbarcarsi su un aereo in partenza da New York diretto nel paese centramericano, per esplorarne per una settimana la vegetazione, nella speranza di trovare nuovi esemplari di felci. Per questo, nonostante sia in abito da riposo, diciamo da vacanza, porta al collo il badge del gruppo. Si tratta della seconda volta che l’editore italiano dei suoi libri (di tutti, salvo questo, uscito da Feltrinelli undici anni fa e qui ripreso) mette in copertina l’immagine dell’autore. L’altra volta era accaduto per Musicofilia (2008), il cui sottotitolo suonava: “racconti sulla musica e il cervello”. Si vede il neurologo con le cuffie in testa, intento all’ascolto di un brano musicale: la bocca aperta nell’evidente atto di canticchiarne il motivo. La copertina del Diario è più bella della precedente, per via del colore di fondo, un elegante azzurro tenue, e anche per l’immagine inconsueta (ritratto fotografico di John Bristow), che lo ritrae sotto l’enorme pianta grassa messicana. La collana Biblioteca Adelphi si conferma una delle più eleganti dell’editoria italiana del presente, e anche del passato, per la sua formula semplice, essenziale, ripetitiva, eppure efficace. Di contro, questo è probabilmente il meno elegante dei libri di Sacks, meno interessante e affascinante dei precedenti, e tuttavia si legge sempre con piacere per la capacità che l’autore possiede di osservare, riferire, spiegare, divagare, immaginare. Contiene anche i disegni delle felci incontrate, piante antichissime, la cui apparizione precede quella dei fiori. Per questo Sacks le ama. Forse non è un caso che l’eccentrico neurologo prediliga queste piante fossili, di cui i genitori erano, nella Londra degli anni Trenta, devoti coltivatori. Un libro da leggere e da guardare.

 

 

 

Allucinazioni

 

Nel novembre del 2006 il dottor Oliver Sacks riceve una telefonata dalla casa di riposo presso cui lavora. Una delle ricoverate, Rosalie, ha delle visioni, allucinazioni che la tormentano, da lei ritenute reali. La donna, come scopre il dottore, è cieca, tuttavia “vede” cose di fronte a sé: persone con abiti orientali, che salgono e scendono le scale. La cosa strana è che, seppur priva di vista, quando ha queste allucinazioni Rosalie muove gli occhi avanti e indietro. Sacks, gran lettore di casi clinici, decifra subito il disturbo: sindrome di Charles Bonnet. Bonnet era un naturalista svizzero del ‘700; ci ha lasciato una descrizione completa delle “visioni” del nonno, Charles Lullin, in un taccuino di 18 pagine andato perso per centocinquant’anni, poi ricomparso e pubblicato: le visioni – un fazzoletto azzurro con un cerchio giallo in ogni angolo – duravano qualche mese e poi scomparivano. Partendo dal caso di Rosalie, Sacks descrive il gran pelago delle allucinazioni che tormentano, a volte con esiti infausti, le persone per periodi più o meno lunghi. Un catalogo impressionante. La parola “allucinazione” è entra nell’uso corrente nella seconda metà del Cinquecento. In Italiano compare solo nel 1569 con un significato riguardante la vista: abbagliare, confondere. Il termine latino, da cui proviene, attiene invece alla voce, al discorrere: vaneggiare, parlare vanamente. Secondo Oliver Sacks, grande specialista di stati alterati, raccontati con dovizia di dettagli nei suoi libri, in particolare in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), avrebbe in origine un significato diverso: “mente errante”, “apparizione”. Negli anni Trenta dell’Ottocento, ci ricorda Sacks, il celebre psichiatra Jean-Etienne Esquirol diede infine al termine il significato che ha attualmente: allucinazione, illusione. Avere delle allucinazioni significa vedere o sentire cose che sembrano reali, ma non lo sono: oggetti, persone, mostri, fantasmi, animali, spazi che si dilatano o si restringono, voci, e persino esperienze tattili. Insomma, un catalogo di azioni imprevedibili, inattese, angoscianti. Tutto avviene nel nostro cervello, ma al tempo stesso si ha la sensazione di qualcosa di “reale”, di presente, tangibile. Sacks nel corso della sua lunga carriera di neurologo – ha compiuto di recente ottanta anni – ha accumulato un vero e proprio regesto di allucinazioni, casi clinici, che riguardano sindromi visive e auditive: illusioni, epilessia, deliri, stati ipnotici, narcolessia, “doppi”, “arti fantasma”. Naturalmente ci sono anche gli stati indotti da droghe o altre sostanze; nel 1954 Abram Hoffer e i suoi collaboratori usarono per primi il termine hallucinogens (“allucinogeni”) per indicare sostanze che producevano stati alterati della mente e della coscienza. Come nel precedente libro, L’occhio della mente (2011), le parti più appassionanti sono quelle in cui Sacks racconta di sé, delle proprie malattie o, come in questo caso, delle proprie allucinazioni. Alla metà degli anni Sessanta, quando risiedeva sul bordo di un canyon in California, Sacks ingerì varie sostanze che gli provocarono allucinazioni visive di diversa natura, come l’apparizione di un elicottero con i genitori a bordo che scendeva a fianco della casa. Chi conosce i suoi libri sa che le patologie sono tra le cose che più lo interessano. Le sa ascoltare con un’attenzione e una memoria considerevoli. Sfilano così davanti agli occhi dei lettori sconosciuti e personaggi famosi, vivi e morti. Il neurologo s’interessa alle allucinazioni di vecchietti come a quelle di Giovanna d’Arco; argomenta sulle visioni estatiche di Dostoevskij, che influenzarono i suoi romanzi, dove si trovano un numero incredibili di epilettici e di visionari; e poi gli diagnostica la sindrome di Geschwind: personalità interictale, ovvero grande interesse per la religione insieme a comportamenti scrittori compulsivi. Le descrizioni delle visioni di cui soffrono i suoi pazienti sono dettagliate e sovente spaventevoli; aprono squarci sul cervello umano che lasciano basiti e fanno pensare che la normalità sia in effetti uno stato parziale e per lo più eccezionale. Sacks, raccontando i casi clinici e le varie sindromi (straordinarie le pagine sull’arto fantasma), ci fa capire che lo stato di salute è solo un’isola nel mare procelloso delle tempeste prodotte dal nostro cervello a causa di una caduta, di un tumore, dell’invecchiamento o di malattie encefaliche. Leggendo vecchi libri di medicina Sacks scopre personaggi eccentrici che hanno individuato sindromi che prendono il loro nome, come esempio la narcolessia, “inventata” da Jean-Baptiste-Edoard Gélineau, medico francese dell’Ottocento, che studiò il caso di un vinaio. Sacks ci fornisce ipotesi sul funzionamento del nostro cervello usando le sue vaste conoscenze di neurologia e le recenti scoperte intorno alle aree del cervello, ma il suo racconto non appare mai un arido resoconto clinico. È uno scrittore e possiede anche un’umanità calorosa, che probabilmente gli deriva dai suoi stessi problemi psicologici, dalla capacità di utilizzare la sua natura timida, pasticciona e imbarazzata, come ha raccontato lo scrittore Paul Theroux in un suo libro dedicato in parte a Sacks. Alla fine di Allucinazioni ci si familiarizza con le patologie più strane, pronti ad affrontare eventuali “apparizioni” visive o auditive che potrebbero capitarci, anche con la speranza di trovare un “neurologo da strada” come Oliver Sacks, che sappia ascoltare. Esiste il malato, non la malattia. 

 

 

 

Zio Tungsteno

 

Una lampadina di colore violaceo, intorno un alone grigioazzurro; lo sfondo è nero. Sotto uno strumento di registrazione con la scala graduata; si legge appena. Il misuratore, con i numeri e l’asticella, è appoggiato su un piano. Più che una fotografia (di Geoff Spear) sembra un quadro iperrealista: minuzioso, dettagliato, ricco di luci e ombre; è la copertina di Zio tungsteno, opera del neurologo inglese Oliver Sacks. Vi si parla di lampadine e di uno zio di nome Dave, detto “zio Tungsteno” per via della fabbrica di lampadine a incandescenza il cui sottile filamento è composto di quel metallo.

 

 

Nato in una famiglia ebrea di medici prima di intraprendere a sua volta la carriera clinica, Sacks si appassionò alla scoperta dei processi chimici e al sistema delle sostanze elementari. Questo libro è congegnato come un viaggio nel passato, una sorta di ricerca del tempo perduto di Oliver Sacks e della chimica stessa: ogni nuova curiosità del giovane ebreo è collegata con una scoperta compiuta dai grandi chimici. Ma che rapporto c’è tra la storia della chimica e le successive ricerche sulla neurologia del dott. Oliver Sacks? È noto che le cose che ci appassionano da ragazzi raramente ci occuperanno da grandi: solo chi passa dall’adolescenza alla vita adulta senza mutare mania e passione – anzi trasformandola nella propria attività professionale – non conosce un cambiamento psicologico profondo. Il gioco infantile con le sue modalità e i suoi contenuti, prepara la transizione alla maturità, anzi la fonda, pur sempre in modo misterioso. Nel passaggio, come dimostra l’autobiografia di Sacks, alcune propensioni del carattere si perdono o scompaiono, altre si trasformano e si consolidano. In un libro altrettanto interessante, anzi di più – in virtù della concisione e del minor furore enciclopedico –, Primo Levi ha raccontato la sua passione per la biologia e la chimica, e ne ha fatto il modello per una biografia di se stesso: Il sistema periodico. Il capitolo centrale di Zio Tungsteno, il suo cuore tematico, s’intitola “Il giardino di Mendeleev”; racconta la scoperta della tavola periodica degli elementi da parte del giovane Oliver e la storia dell’invenzione di questo sistema «metrico» e visivo compiuta dal grande scienziato russo. Dalla lettura di questo capitolo si arguisce che dietro l’avventura chimica del futuro neurologo e scrittore c’è il bisogno tassonomico di sistemare e classificare gli eventi, non solo i metalli o i non-metalli, gli alogeni o i metalli alcalino-terrosi, ma l’intera vita stessa. Dietro alla prosa apparentemente nitida, chiara, netta di Sacks c’è un mondo pullulante, caotico, informe, in cui l’angoscia e la malattia mentale sono incombenti e tallonano da presso l’autore. Egli ha un grande interesse per le inclassificabili patologie della mente, non quelle strettamente psichiche, ma quelle che dipendono da elementi biologici o chimici. Sacks ha operato, attraverso il passaggio dalla chimica alla patologia una operazione detta sublimazione. Che non è solo il passaggio dalle pulsioni aggressive o sessuali perverse verso obiettivi socialmente accettabili, come afferma la psicoanalisi, ma anche una trasformazione chimica. La sublimazione è infatti il passaggio diretto di una sostanza da solido a vapore, e viceversa, senza transitare per lo stato liquido. La sublimazione è una purificazione. Leggendo Zio Tungsteno. Ricordi di un’infanzia chimica apprendiamo l’esistenza di una crisi abbandonica di Oliver durante gli anni della guerra e la psicosi del fratello maggiore Michael. Lavorando come neurologo e scrittore intorno a casi strani (e dolorosi) Sacks ha prodotto una trasformazione chimica: ha reso “oggettiva” la malattia e ne ha fatto un argomento di narrazione. Come Levi, pure lui chimico (ma non dilettante), la scrittura l’ha salvato.

 

Vale caro dottor Sacks, non la dimenticheremo.

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