Cercasi Status disperatamente

20 Maggio 2014

Eugène de Rastignac è un giovane arrivato a Parigi dalla provincia per studiare Giurisprudenza. Eugène non si laureerà mai, distratto dal fascino dell'alta società parigina e dalla rincorsa ossessiva dell'elevazione sociale attraverso la seduzione di donne altolocate.

Questa è una storia di finzione (vedi alla voce Papà Goriot) che Balzac ambienta negli anni trenta dell'Ottocento, ma potrebbe accadere e sta accadendo ovunque nel mondo, oggi stesso.

La ricerca disperata di status sociale è un mantra della commedia umana, non solo dei romanzi francesi dell'Ottocento.

Se volessimo immaginare un remake di Papà Goriot oggi, che faccia avrebbe Rastignac e dove andrebbe alla ricerca di status? Forse il nostro Eugène oggi si vestirebbe da hipster e invece di iscriversi a Giurisprudenza nella capitale del diciannovesimo secolo, sarebbe un giovane americano di provincia iscritto a Stanford col sogno di fare lo startupper nella Silicon Valley. Non riuscirebbe a terminare Stanford, anche in questa versione e sarebbe un maniaco compulsivo dei social network, alla ricerca disperata di celebrities con le quali farsi dei selfie da twittare in tempo reale.

 

La ricerca disperata di status sociale non è solo la condanna del povero Rastignac ottocentesco ma anche quella dei giovani americani che sognano, di nuovo, la California hi-tech degli anni Zero. Potrebbe riassumersi così, il cuore del bellissimo libro della giovane sociologa americana Alice E. Marwick, Status Update. Celebrity, Publicity & Branding in the social media age (Yale University Press, 2013).

 

 

Questo libro è, dal mio punto di vista, una delle pubblicazioni più rilevanti degli ultimi anni nel campo del rapporto tra media e società. Negli anni '90 uno dei contributi più importanti agli studi sui media arrivò da una studiosa olandese, Ien Ang – Cercasi Audience disperatamente (1991): in quel libro Ang ribaltava il concetto di audience in pubblico attivo, non soltanto come un prodotto da “consegnare agli investitori pubblicitari”. Quel libro, arrivato alla fine del secolo, parlava ancora di televisione e media elettronici. Il libro della Marwick, invece, parla dei primi media degli anni Zero, i social media, e in questo caso le audience non sono più neanche dei pubblici attivi, ma degli individui connessi e molto comunicativi.

 

Semplificando molto, si potrebbe sostenere che gli studi dei media sono passati in vent'anni da Cercasi audience disperatamente a Status Update. Il focus in venti anni si è spostato dall'economia dell'attenzione (la ricerca disperata dell'attenzione del pubblico da parte dei media) sulla quale si basa(va)no i media tradizionali del broadcasting e della stampa, verso un'economia della reputazione (la ricerca disperata di uno status reputazionale che mi permetta di far crescere un'audience attorno a me), sulla quale si basano tutti i media connessi in rete. “I social media”, scrive Marwick, “hanno portato l'economia dell'attenzione tipica dei broadcaster dentro la vita quotidiana e le relazioni sociali di milioni di persone” (p. 10).

Se negli anni novanta, sosteneva Ang, erano soltanto i media tradizionali a doversi porre il problema dell'audience, della sua aggregazione, della sua valutazione, del suo mantenimento, oggi, sostiene Marwick, tutti gli individui presenti nelle reti sociali si pongono il problema dell'audience e del suo mantenimento/gestione. I pubblici dei social media sono ancora più (potenzialmente) attivi dei fan delle soap opera americane studiate da Ien Ang negli anni '80, così attivi che ognuno di loro è diventato un piccolo medium, una piccola emittente di segnali quotidiani: post, tweet, blog, commenti, umori, stati emotivi (Stati di Connessione, di Giovanni Boccia Artieri, lo spiega bene).

 

La Marwick compie l'impresa di scrivere un libro leggibile, narrativo, fluido a partire da una lunga attività di ricerca qualitativa di stampo etnografico sul campo: “il campo” è la scena tech della Silicon Valley, dove ha seguito per mesi e intervistato centinaia di startupper, blogger e wannabe locali, che lei chiama bohemian yuppie. Una scena, secondo Marwick, intrisa di cultura web 2.0, che coniuga consumi controcuturali e ideologie libertarie con un ethos capitalista, come già Cameron & Barbrook avevano capito nel loro libro The Californian Ideology (1995). Gli intervistati di Marwick idealizzano il concetto di apertura, trasparenza e creatività ma li fanno convivere con una mentalità imprenditoriale e capitalista in una quotidianità dove lavoro e vita sono la stessa cosa, dove i social media sono sempre on e dove il quotidiano è una continua performance. Una scena che ripudia le mode ma ama il Burning Man, non è interessata al denaro in sé ma cerca di diventare ricca il più velocemente possibile, professa sport anticonvenzionali come lo yoga, l'arrampicata e la mountain bike ma con un alto dispendio economico in mezzi e attrezzatura. Una scena fortemente gerarchica, dove lo status è attribuito dagli altri in base alla coolness della propria startup. Una scena la cui piramide sociale, dice Marwick, è divisa in almeno tre livelli: talking, working, doing, cioè quelli che vogliono entrare a far parte della scena e ne parlano su Twitter e sui blog, che presenziano a tutti gli appuntamenti nella speranza un giorno di trovare qualcuno che investa nella loro idea; quelli che stanno già stanno lavorando per una start up, che sono già inseriti; e quelli che ce l'hanno fatta, che hanno fondato la loro start up. In cima alla scala, l'élite è rappresentata da quelli che non solo hanno fondato una start up, ma che “l'hanno rivenduta facendo milioni di dollari e che ora stanno facendo quello che gli pare” (p. 79)

Ed è proprio attraverso il comportamento online di questa speciale classe di persone che Marwick individua i tratti distintivi, la grammatica, dei social media, che potremmo applicare al resto degli abitanti del nuovo ecosistema digitale.

 

 

Provo qui a riassumere, per parole chiave, le cose più interessanti del suo libro:

 

Social media come tecnologie del Sé

Prendendo in prestito il concetto da Foucault, Marwick sostiene che “i social media costituiscono delle tecnologie del sé, un modo attraverso il quale le persone governano se stesse” (p. 11). Così come nel Novecento la scuola insegnava la disciplina della fabbrica (stare in fila, le sirene, performance di compiti ripetitivi), le tecnologie web 2.0 insegnerebbero agli utenti ad essere dei buoni cittadini aziendali nel mondo post-industriale e ad usare tecniche di marketing per aumentare l’attenzione su di sé e la propria visibilità; “il web 2.0 è una tecnologia neoliberale della soggettività che insegna agli utenti come avere successo nella società di consumo postmoderna americana” (p. 14). I social media, a prescindere dai contenuti che postiamo, ci educano, secondo Marwick, all'uso di tecniche per catturare l'attenzione e a pratiche promozionali come il self branding e il life streaming. Guardatevi allo specchio, lo state facendo tutti. C'è poco (forse un po' sì) da vergognarsi.

 

Micro-celebrity

Un atteggiamento e una serie di tecniche in cui il soggetto vede amici o followers come un pubblico da nutrire e mantenere. Essere famoso per una nicchia di persone, ma anche un modo di presentarsi come una celebrity. Un nuovo stile della performance online in cui le persone usano webcam, video, audio, blog e social network per ampliare la propria popolarità.

Diventare una micro-celebrità richiede un certo grado di mercificazione del sé per creare una personalità pubblicizzabile. Gli utenti ossessionati dai commenti degli amici sono per Marwick degli “external validation junkies”, dei tossici del giudizio degli altri.

 

Self Branding

Trasformare se stessi in un brand e promuovere il proprio brand attraverso i social media, creando, presentando e mantenendo il proprio Edited Self, una rappresentazione del proprio sé tenuta altamente sotto controllo, editata in continuazione, raffinata, ragionata, aggiornata con foto, video, post, bio, album di immagini, link cool. La creazione strategica di un’identità (strumenti di storytelling) da promuovere e vendere al pubblico dei seguaci.

 

Life Streaming

Gli entusiasti del web 2.0 si impegnano in un lavoro immateriale ed emozionale, per aumentare la loro popolarità. Questo lavoro richiede la continua pubblicazione di informazioni personali – life streaming –, anche molto intime e la creazione di un sé che deve essere contemporaneamente editato ma molto autentico, e questo richiede un costante monitoraggio del sé, e una continua valutazione e consapevolezza del proprio pubblico.

Ora che l’algoritmo di FB spinge gli utenti a comprare visibilità per i propri post, non c’è più distinzione tra comunicazione del sé e pubblicità. La notizia dell’uscita di un proprio articolo postata sul proprio profilo FB è self-branding o informazione utile ai miei lettori?

 

Al life streaming sono connesse tutte le pratiche di tracking del sé (diario quotidiano delle proprie azioni, conteggio del cibo preso, delle calorie consumate, dei km corsi – il cosiddetto quantified Self) esistevano anche prima dei social media, ma quello che rende il life streaming diverso dai suoi predecessori è l’uso che fanno di internet i life-streamers per rendere questa informazione ampiamente accessibile al mondo esterno.

L’audience è un elemento fondamentale del life streaming, perché lo streaming di sé senza un’audience è semplicemente tracking.

Ci sono anche dei benefici, in questo life streaming: ad esempio la soddisfazione per aver coinvolto visibilmente il mio pubblico, la scoperta di informazioni utili grazie al life streaming dei miei amici, la spinta a prendere impegni e mantenerli pubblicamente, essendo sottoposti al controllo del proprio pubblico. Ma tutto questo avviene sotto la stretta “sorveglianza sociale” della mia audience su di me, sotto gli occhi di tutti, che sanno quando sono in vacanza, cosa mangio, cosa penso dell'ultimo film di Wes Anderson e cosa voto.

Tutto questo, sostiene Marwick, lo facciamo perché ci aiuta a governare e gestire il nostro status e l'immagine di noi che vogliamo proiettare all'esterno, soprattutto verso quel vasto pubblico di persone semi-sconosciute che costituisce la maggior parte dei nostri spettatori sui social network.

Da una parte, essere diventati medium, tutti, anche se piccoli, essere delle piccole emittenti di informazione, emozioni ed opinione, è una grande occasione per “avere voce”, avere accesso alla comunicazione, non solo all'informazione. Dall'altra, essere diventati tutti dei personaggi pubblici ci espone al rischio delle micro-celebrities, al giudizio continuo degli altri, al leaking dei nostri dati sensibili, alla trasformazione del nostro linguaggio in spot pubblicitari.

 

Vale la pena? Per uno che crede nel diritto di tutti a farsi medium (il vecchio Be the Medium di Indymedia) questo è un gioco che vale la pena imparare a giocare, seppur sapendo che la partita si sta giocando sul giardino recintato di un gruppo di privati proprietari di fondi di investimento. Ma a questa domanda ognuno ha la risposta dentro sé.

Com'era bello il novecento, quando era così facile schierarsi e decidere chi erano i compagni che sbagliavano. Com'era bello quando ci si poteva dividere in apocalittici e integrati. O invece no. Era solo più semplice, ma non più bello.

 

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