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Diario russo 24. Mobilitazione, resistenze e fughe

24 Settembre 2022

Una massa di qualche decina di persone si accalca in un cortile punteggiato da alberi , uomini assonnati, stretti nelle giacche a vento di un autunno già rigido,  un cancello arrugginito dopo il quale ad aspettare vi è un vecchio autobus su cui caricare le borse sportive e le buste di plastica strette in mano, con dentro il necessario: uno dei primi video apparsi la mattina del 22 settembre, il giorno successivo alla proclamazione della mobilitazione speciale, sembra essere un quadro animato di quel che accade in Russia in queste ore. La decisione presa da Vladimir Putin ha richiamato alle armi migliaia di persone (la cifra comunicata dal ministro della Difesa Sergei Shoigu è di 300.000), che saranno divise in tre scaglioni, da addestrare e poi inviare nei territori occupati in Ucraina.

La guerra (pardon, l’operazione speciale militare) esce dagli schermi televisivi e degli smartphone per diventare una realtà per milioni di russi, senza la possibilità di cambiare canale o di scrollare solo notizie e fotografie “portatrici di positività”: l’ambiguità di una vita quotidiana portata avanti come se nulla fosse accaduto da quel 24 febbraio inizia a svanire, prende i contorni dell’incertezza delle notizie dei mariti, dei padri, dei figli, dei fratelli dal fronte. Un passaggio invocato a gran voce da chi quel fronte lo vedrà al massimo in gita, il tempo di una festa in qualche cittadina occupata, delle immancabili foto con il tricolore russo e la Z, e di pubblicare tutto su Telegram e su Instagram, attenti a scegliere il VPN che funziona meglio quel giorno.

Certo, non sono solo gli attivisti ultranazionalisti o gli utenti convinti di combattere contro il “globalismo” a inneggiare a una guerra che vorrebbero estendere a tutto il mondo, ma vi son anche donne e uomini convinti di esser nel giusto assieme a Putin, di essere minacciati da un nemico multiforme in grado di mettere a rischio la loro stessa esistenza. Un altro video presenta questa scena: decine di uomini di ogni età sono radunati davanti a un ufficio reclutamento in Daghestan, facce già stanche, preoccupate e tirate dal non sapere cosa accadrà. Uomini in gran parte avari, dargini, lesghi, tra le principali etnie della repubblica autonoma caucasica, che vengono arringati da una donna bionda di mezz’età, russa, con alcune cartelline in mano, dall’ingresso dell’edificio a due piani dove i militari svolgono le procedure per inviare i convocati all’addestramento.

La voce acuta della donna è nervosa, incita la folla a difendere la patria, ad adempiere al proprio dovere maschile, fa appello ai nonni che hanno combattuto nella Grande guerra patriottica del 1941, e che il figlio è già lì, in Ucraina. Urla la donna, gli occhiali si agitano per lo sforzo, dice che se è il caso anche lei andrà a combattere, è il suo dovere. Gli uomini la ascoltano, chi a braccia conserte, chi sorride sprezzante, e viene interrotta dalle parole ferme, semplici, dure, di un uomo, la faccia cotta dal sole, che le risponde rapido “non era necessario andare a combattere”. La donna prova a reagire, grida che è il suo dovere, ripete di essere pronta per il fronte, un’altra voce le risponde “e allora vacci tu, io non ci vado”, ma non riesce a fermarla, replica “tuo nonno è andato a combattere per farti mangiare oggi”.

Il ricorso però alla memoria dell’epopea del 1941-45 non mette a tacere le rimostranze, “mio nonno ha combattuto per la patria”, le risponde un altro, con una coppola bianca di lino in testa, e all’obiezione di star difendendo il proprio paese anche oggi interviene un trentenne o giù di lì, inguainato in una giacca di pelle, il braccio teso verso la ringhiera da cui si sporge la donna sempre più infervorata e indignata, laconico le dice “quella del 1941-45 era una guerra, questa è politica”.

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File di automobili e di appiedati si dirigono ai confini terrestri, in alcuni casi si estendono per qualche chilometro, rallentati dalla trafila dei controlli e dall’affollamento. Posti di frontiera probabilmente ancor più pieni di gente perché Estonia e Lettonia han chiuso i confini a chi ha un visto Schengen, e quindi resta come unica opzione solo la Finlandia, ma vi son anche la Georgia e il suo valico tra le vette caucasiche, il Kazakistan e la Mongolia, nuovo punto di primo arrivo per chi va via dalla Russia.

Anche negli aeroporti la situazione è particolare, alle 15:00 del pomeriggio di mercoledì i biglietti per i voli previsti nei tre giorni seguenti dalle principali città russe verso l’Armenia, la Turchia e le altre mete ancora aperte son andati esauriti. Le rassicurazioni di Shoigu date sull’esclusione di studenti e di chi non aveva mai imbracciato un’arma dal richiamo non sembrano aver avuto effetto su tanti, anche perché vi son numerosi casi di povestki (convocazioni) consegnate a laureandi, a persone mai state in una caserma, e anche indirizzate a uomini deceduti da qualche anno.

Fretta nella compilazione delle liste, certo, ma legata anche a una antica consuetudine spacciata per novità manageriale da qualche anno: ogni regione dovrà fornire una quota di mobilitati, non importa in che modo. Ramzan Kadyrov ha già detto che in Cecenia non vi saranno iniziative del genere, perché la sua repubblica avrebbe ottenuto il 254% dell’obiettivo, solo che non sapendo quale esso fosse e alla luce delle dichiarazioni risalenti a qualche giorno fa sulla necessità di formare battaglioni di volontari su base regionale, chiamandola “automobilitazione”, sorgono dubbi se non siano state le donne cecene radunatesi a Groznyj a farlo desistere (non senza aver prima punito le famiglie delle manifestanti, mandando i parenti maschi in Ucraina). In altre regioni, si procede con la consegna di notte delle cartoline di convocazione, provando a sfruttare il sonno per trovar in casa i mobilitati.

Guide per sfuggire alla mobilitazione si moltiplicano, nonostante l’adozione di nuove norme per rendere ancor più rigorosa leggi severe, e si punta a indicare la disparità di trattamento, indicando nello scherzo fatto al figlio del portavoce di Putin Dmitrij Peskov, chiamato al telefono da un finto ufficiale che lo invitava a presentarsi il giorno successivo alle 10 in punto al distretto militare, un esempio di come in guerra ci va la “plebe”, termine spesso sprezzantemente usato dai rampolli dell’élite, assieme a parole ancor più disumanizzanti. E mentre zaini e valigie vengono preparate, per recarsi all’addestramento o alla frontiera, si accumulano ore di disperazione e di sangue, angosce e discorsi patriottici, odii e speranze di veder la fine della guerra.

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