Marx può aspettare / Marco Bellocchio e il fratello assente

22 Luglio 2021

Marx può aspettare, l’ultimo film di Marco Bellocchio, è un documentario presentato come evento speciale a Cannes 2021, dove il regista ha ricevuto anche la Palma d’Oro alla carriera. Il film inizia nel 2016 come diario privato, in occasione di una riunione pre-natalizia con fratelli, sorelle e nipoti, e si trasformerà nella messa in scena di una riflessione collettiva sul grande rimosso di tutta la famiglia Bellocchio: il suicidio di Camillo, gemello di Marco, unico tra gli otto fratelli (sei maschi e due femmine) a scegliere quel gesto assoluto. Una grave patologia colpisce altri due membri della famiglia: Paolo, affetto da schizofrenia, e Maria Letizia, sofferente di sordomutismo. La voce fuoricampo di Marco inizia il film con queste parole: «Il 16 dicembre 2016 Letizia, Piergiorgio, Maria Luisa, Alberto ed io, Marco, le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti ci riunimmo, con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’Unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni. Io avevo organizzato il pranzo con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma non avevo le idee chiare. Non sapevo cosa volevo esattamente fare. In realtà lo scopo era un altro. Fare un film su Camillo, l’angelo, il protagonista di questa storia».

 

Ma che cosa è esattamente Marx può aspettare? E perché Bellocchio ha scelto quel titolo? Di certo ha presente il film di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei (2002), girato in memoria della madre suicida, dove la raffinata attenzione nel ritrovamento e nel montaggio di materiali d’epoca inventa un ritratto magistrale di donna ferita. Il film di Bellocchio nasce da un lungo lavoro durato oltre cinque anni durante i quali il regista ha voluto ricostruire, come in una vera e propria indagine, le possibili cause che portarono al suicidio del fratello gemello, avvenuta il 27 dicembre del 1968: un anno non casuale, traversato da cambiamenti sociali e politici, lotte e rivoluzioni. Eppure nessuno di quegli eventi influenzò la vita di Camillo. «Marx può aspettare» fu l’ultima cosa che disse Camillo al fratello regista, come a dirgli che prima di qualsiasi politicizzazione doveva risolvere i suoi problemi personali. Marco iniziava a ricevere i primi riconoscimenti internazionali per i suoi film aspri e rabbiosi, ostili a codici e censure, mentre in Camillo dominavano insicurezza, malinconia, timidezza, disagio, nati in parte dal confronto impossibile con i fratelli dominanti intellettualmente, in parte dalla consapevolezza di essere un’anima incolore, votata a un fallimento per il quale la sola soluzione era la morte per propria mano.

 

Il film, accompagnato dalla musica di Ezio Bosso, purtroppo lasciata incompiuta dall’autore, scandisce le tappe di uno psicodramma collettivo, dove i ricordi dei fratelli e delle sorelle si mescolano in una conversazione continua. Non era una famiglia semplice, quella dei Bellocchio: un padre autoritario, di cui non si discute mai la volontà, e rigido con se stesso fino a rimuovere la realtà della diagnosi tumorale; una madre dominata dai fantasmi di una religione cattolica punitiva. Fratelli e sorelle cercano di sopravvivere come possono, con rassegnata fatalità, ma senza amarsi mai veramente. Il film affronta con pudore, ma senza ritrarre lo sguardo, la sincerità di questo autodafé collettivo. Bellocchio usa il cinema con la sapienza di un inquisitore gentile, dettaglio dopo dettaglio, per scavare dentro il suo tormento, e in quello degli altri.

 

Fratelli e sorelle, nel film, raccontano come non hanno visto Camillo, come non hanno percepito la sua inquietudine e soprattutto non hanno intuito il modo tragico con cui sarebbe finita la sua esistenza terrena. La madre, succube di una retriva fede cattolica, è atterrita al pensiero che Camillo possa, a causa del suo atto, essere castigato dalle fiamme dell’inferno. Piergiorgio, turbato che il suicidio del fratello possa causargli delle conseguenze personali, distrugge senza esitare il suo biglietto d’addio. Alberto, avendo Camillo trovato un posto fisso come insegnante di educazione fisica nell’Isef, è rassicurato dalla sua raggiunta normalità (e paradossalmente sarà proprio nella palestra dove lavorava che verrà ritrovato il suo corpo impiccato). Marco non ricorda neppure se ha risposto alla lettera in cui Camillo gli chiedeva se avrebbe potuto trovare per lui un qualsiasi lavoro nel campo del cinema. Maria Letizia, la sorella sordomuta novantenne, che si esprime per la prima volta con una lingua semi-incomprensibile ma affabile ed empatica come un personale grammelot, non vuole rendersi conto del tutto che quello di Camillo è stato un suicidio.

 

 

Assistiamo, da spettatori, a uno psicodramma che evidenzia la realtà sofferta collettivamente intorno a Camillo ma che non vuole spiegare nulla con precisione, non impone nessuna risposta razionale. Il documentario è anche punteggiato da fotogrammi dei film di Bellocchio dove è citato e indirettamente evocato il fratello (I pugni in tasca, Salto nel vuoto, Gli occhi, la bocca, L’ora di religione). La voce narrante del regista ci accompagna in un viaggio a ritroso nel tempo, aiutato dai ricordi delle sorelle e dei fratelli; ricordi che, a distanza di decenni, non sempre coincidono e non sempre si assomigliano, perché la memoria è fallosa e ognuno di noi può custodire immagini diverse dello stesso evento.

Ne affiora il profilo di un ragazzo anche scherzoso ma immerso in una silenziosa apatia. Nato con crisi di asfissia, battezzato tre volte a causa dell’ansia materna, inadeguato e timido, trascorre i primi anni nella stessa stanza di Paolo, il primogenito schizofrenico, che urla notte e giorno; triste e autistico, legato a una donna che non si capisce bene se lo renda felice o infelice. La vita di Camillo appare insignificante e fratelli e sorelle non lo suppongono neppure capace della magnetica intensità dell’atto suicida. Nella confessione collettiva inscenata da Marco, nessuno si era immaginato che potesse realmente accadere.

Bellocchio, a distanza di 40 anni, si fa ironico burattinaio del suo inconscio e di quello familiare e lancia il suo j’accuse al perbenismo delle famiglie cattoliche e represse che non sanno vedere il disagio altrui, accusando anche se stesso, colpevole di non avere amato Camillo quanto avrebbe dovuto.

 

In Marx può aspettare appare chiaro come Marco abbia raccontato Camillo in ognuno dei suoi film, parlando indirettamente di quel fratello che non ha saputo ascoltare realmente a fondo. Capriccio sulla lontananza del fratello dilettissimo è il titolo di un celebre brano per clavicembalo di Johann Sebastian Bach. Camillo non era né un angelo né un “fratello dilettissimo”, ma un essere che non ha saputo o potuto esprimere se stesso e neppure chiedere aiuto a una famiglia anaffettiva.

Il lavoro del film emoziona perché non lascia spazio né al tono patetico né al verbale accusatorio. Descrive e ricorda come fratelli e sorelle siano sopravvissuti all’angoscia di quell’assenza brutale, che li ha messi tutti in discussione. Ovvio pensare che Camillo, timido, irresoluto, incerto, mai clamoroso nella sua patologia depressiva, abbia voluto, con la sua morte, consciamente o inconsciamente, mettere in scacco i fratelli più forti, intimidirli con l’ombra del suo atto, con quella mancanza pesante e invisibile.

 

Marco, però, racconta questa storia, la sua storia, con serenità, senza sottrarsi né al dolore di tutti né al proprio personale rimorso. Andare in fondo alle cose, per Bellocchio, è sempre stato un modo per essere liberi. Se non si svelano le emozioni più profonde, salute mentale e guarigione sono chimere. Noi, da spettatori, assistiamo a una seduta psicoanalitica del regista con se stesso, e anche a una seduta di terapia collettiva dove tutti sono accusati e nessuno è innocente, o dove tutti sono innocenti e nessuno è accusato.

Maria Letizia, la sorella sordomuta, non vorrebbe, dopo la morte, parlare con i santi e con Dio, ma solo con Camillo, mamma e papà, ma come riconoscerli in mezzo a miliardi di morti? Bellocchio non smette di essere ironico e leggero anche nei dettagli.

 

A fine film, nell’unica scena di fiction che non può essere confusa con vecchie fotografie, filmati d’archivio, immagini di repertorio, filmati d’epoca, Marco vede un ragazzo, con la tuta dell’Isef, incrociare il suo cammino su un ponte, mentre cala la sera, un ragazzo che noi spettatori vediamo solo di schiena. Con grande semplicità Bellocchio ci mostra, senza aggiungere una sola parola, il suo desiderio, fisico e vitale, di rivedere, almeno ancora una volta, prima che la vita tramonti, il fratello assente.

 

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