Londra: La radio sullo schermo

18 Settembre 2013

Sono dentro la nuova Broadcasting House della BBC, in Portland Place, Londra. Sto entrando negli studi della radio. Per quelli come me è come essere dentro una cattedrale gotica del Trecento a dodici navate. Al posto degli affreschi, le foto dei padri fondatori del servizio di broadcasting più famoso del mondo. Al posto dell'altare, i mixer digitali. Al posto del leggio, il primo microfono dal quale tutto ha avuto inizio.

 

 

Sono qui insieme ad altri studiosi e producer di radio di tutta Europa, riuniti per un convegno nel college londinese della Sunderland University, uno di quei college che le università britanniche aprono a Londra per attirare i figli dell'upper class globale che hanno solo bisogno di una scusa per trasferirsi a vivere qui per un paio d'anni. Il giorno prima è venuto in visita il direttore di BBC One (la stazione pop creata nel 1967 per contrastare la rivoluzione delle radio pirata e dei dj), Ben Cooper, un uomo atletico tra i quaranta e i cinquanta, con la faccia da marine americano.

 

Ben Cooper

 

Il direttore (che qui si chiama controller) esordisce così: “Da piccolo sognavo di lavorare in radio e finalmente ci sono riuscito. sono entrato come curatore, ho prodotto tanti programmi e ora, eccomi qui a dirigere la radio più bella del mondo”. La prima cosa che penso è: “Chissà se un direttore Rai direbbe lo stesso” e so già che la risposta è no, non direbbe lo stesso, perché in Rai i percorsi per diventare direttori sono altri.

 

Ben attacca una “lezione” sulla sua idea di radio, sulla sua strategia per traghettare il mezzo più vecchio del Novecento oltre il guado del digitale. Ben parla consapevole dell'esistenza di Twitter. Direi quasi che si esprime in frasi perfette per i 140 caratteri. La prima che colgo all'amo è questa: "Engaging with radio content is more valuable for us than being exposed to our content", cioè vuole dire che alla BBC attribuiscono più valore all'interazione che i loro contenuti generano con gli ascoltatori piuttosto che il tempo che gli ascoltatori dedicano alla radio.

 

Per un direttore Rai questa frase sarebbe già difficile da digerire. Eppure Ben va avanti, dice anche che “la distribuzione e i device sono le chiavi del futuro della radio”. In questi giorni di convegno avevamo sentito storici e ultra premiati produttori come Piers Plowright (3 Prix Italia vinti), affermati storyteller come Francesca Panetta (responsabile progetti interattivi del Guardian), accademici come Andrew Crisell (autore del seminale Understanding Radio), insistere sul valore della parola, della qualità del racconto, dell'umanità della voce. Andrew Crisell aveva pure affermato che vedeva un futuro per la radio di parola ma non per quella musicale (vedi alla voce Spotify). Dopo tanta concentrazione sulla qualità e sullo storytelling, come è ovvio accada in un convegno di appassionati di radio, arriva un direttore di uno dei canali più popolari della BBC che afferma il contrario, che il futuro non è nei contenuti ma nella loro distribuzione e nei device.

 

ph. di Tiziano Bonini

 

A qualcuno, ovviamente, è partito un tweet sul determinismo tecnologico del direttore (qui trovate tutta la collezione dei tweet del convegno) e in parte a ragione. Però il suo entusiasmo per i device (leggi smartphone, tablet, autoradio digitali ecc..) merita un po' più di attenzione.

 

A un certo punto Ben Cooper, un po' per amore della performance teatrale, un po' seriamente, chiede al pubblico: “Toccate di più vostra moglie o il vostro telefonino?” Le ricercatrici femministe esperte di Gender studies sollevano il sopracciglio per la frase giudicata sessista ma intanto la risposta è chiara. Poi Ben Cooper mostra un'immagine allo schermo: una serie di schermi che si alternano. E dice questa frase: “Il viaggio che facciamo ogni giorno dal letto quando ci svegliamo al letto quando torniamo a dormire è costituito da un passaggio continuo da uno schermo all'altro. Ci alziamo, andiamo in bagno, facciamo colazione, controlliamo Twitter sul tablet, entriamo in macchina, ascoltiamo la musica dall'autoradio con lo schermo digitale, entriamo in ufficio, alla scrivania davanti allo schermo di un pc, ci spostiamo in metro e leggiamo sullo schermo di un Kindle o di un telefonino, poi di nuovo a casa, davanti alla tv, con accanto lo smartphone, il secondo schermo, per commentare e infine a letto, con lo schermo del nostro telefono vicino”.

 

 

Mi fermo per minuti a ripensare a questa frase. Non avevo mai pensato alla nostra quotidianità in questi termini, come un viaggio tra diversi schermi. Eppure è così. Mi viene in mente un articolo letto sullo schermo di Twitter qualche mese fa, lo cerco sullo schermo del tablet mentre Cooper va avanti, lo trovo, è del Daily Mail. Cita uno studio di Nokia dal quale pare che mediamente, ogni giorno, i possessori di smartphone controllino i loro telefonini circa 150 volte. Cento Cinquanta. Anche gli utenti di telefoni meno sofisticati si comportano allo stesso modo. Tocchiamo il nostro telefono ogni sei minuti e mezzo, di media. Succede anche a voi? Non dite No, io no, perché non ci credo. Fateci caso. Le medie dicono poco. Quel 150 ci dice che alcuni di noi lo fanno anche poche volte al giorno, ma altri lo fanno anche 300 volte al giorno.

 

Quindi Ben Cooper ha ragione. C'è un rapporto tattile (percepite gli echi di McLuhan?) con i nuovi media mobili, e personale, intimo. Sono sempre con noi, vicini a noi, ci tengono connessi agli altri, anche, soprattutto, a quelli con cui abbiamo instaurato legami deboli. Ci trasmettono suoni, voci, informazioni. E' in questa cornice tecnologica che bisogna inquadrare, secondo Ben Cooper, i contenuti mediali contemporanei: libri, film, musica, programmi radio, giornali.

 

Forse Ben Cooper esagera l'importanza di questi strumenti di comunicazione mobile, forse suonano esagerati per noi italiani, dove il tasso di penetrazione della rete e della diffusione di tablet e smartphone è ancora basso rispetto al Regno Unito. Eppure il fatto che un direttore di uno dei più famosi canali radiofonici del mondo sia così interessato a quello che accade su questi schermi dovrebbe farci riflettere. Gli accademici tra i banchi erano un po' spiazzati. Perché parlare tanto di schermi se la radio è cieca (famosa definizione di Arnheim in La radio cerca la sua forma, 1934)?

 

Cooper insiste. Alla BBC interessa produrre contenuti sonori che possano essere consumati sugli schermi che portiamo con noi durante il giorno, e quindi programmi radio che possano essere ripresi in un video, pubblicati su YouTube, postati su un social network, rilanciati su Twitter e viralizzati in mille rivoli sui blog personali, affinché qualche società di ricerca possa monitorare non più quanto tempo gli ascoltatori passano con la radio accesa ma quanto “rumore” hanno generato in rete i contenuti radiofonici.

 

 

A Ben Cooper interessa il “tempo speso ad interagire con il brand BBC”. E' il futuro di cui parla il professore della University of Southern California, Henry Jenkins, nel suo nuovo libro, Spreadable Media, che uscirà il prossimo 10 novembre.
A Ben Cooper interessa che le persone, nel loro continuo toccare e aprire i loro schermi elettronici, si imbattano per qualche secondo su un file prodotto dalla BBC e che siano spinte a parlarne con le loro connessioni. A Ben Cooper interessa “quanto le persone amano la BBC”. E' quindi l'”affetto” il nuovo valore di questo ecosistema dei media in transizione? Se è così, ha ragione il sociologo della Statale di Milano, Adam Arvidsson, nel suo nuovo libro Ethical Economy. Rebuild value after the crisis.

 

La radio come un marchio da amare attraverso i device mobili. Detta così sembra proprio un classico slogan da specialista di marketing. E infatti Ben Cooper, anche se è stato un producer di radio, parla come un uomo di marketing. Di più, come un uomo di marketing di una radio privata commerciale qualunque. La differenza semmai sta nel rinnovamento dell'idea di servizio pubblico che porta con sé, la visione rivoluzionaria (disruptive, dicono qui) del direttore di BBC One. Un servizio pubblico oggi, ha senso solo se aggiunge alle famose tre dimensioni delineate da John Reith (primo direttore della BBC), Educare, Informare, Intrattenere, anche una quarta dimensione, quella dell'interazione.

 

ph. di Tiziano Bonini

 

Un servizio pubblico deve produrre contenuti coi quali gli ascoltatori possano interagire, prender parte alla discussione collettiva, scambiarli con altri nodi della rete per  sorridere, scherzare, riflettere, imparare, indignarsi, discutere, flirtare, ricordare. In questo, in fondo, la lezione di Cooper non è differente da quella del vecchio Plowright: la radio è innanzitutto connessione con gli altri.

 

E a quelli che storcono il naso pensando che le persone che incontrano in metrò fisse sul proprio schermo del telefonino siano degli asociali, vorrei ricordare che quegli individui sono tutt'altro che asociali chiusi nella loro solitudine. In quel momento, di fronte a quello schermo, stanno ascoltando la voce, vedendo l'immagine, leggendo le parole di un altro simile a loro, e stanno condividendo quelle idee con altri simili a loro.  

 

Tornando a casa lungo la Northern line londinese, ho guardato gli inglesi fissi sui loro schermi con altri occhi.
La società degli schermi è la società degli individui che si celano dietro quegli schermi.

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