Milano Leonardo 500 / La vera storia della Sala delle Asse

23 Giugno 2019

Milano celebra il quinto centenario della morte di Leonardo da Vinci (1452 - 1519) con una serie di eventi, dal titolo Milano Leonardo 500 (maggio 2019/gennaio 2020) che, oltre al Museo nazionale della scienza e della tecnologia a lui dedicato, investono i vari capolavori che l’artista ha lasciato alla città, alcuni dei quali amovibili, come, ad esempio, i disegni contenuti nel Codice Trivulziano e nel Codice Atlantico e il ritratto di musico dell’Ambrosiana, e altri inamovibili, quali le pitture murali del Cenacolo in Santa Maria delle Grazie e quelle della Sala delle Asse al Castello sforzesco.

A proposito di quest’ultima, sono molte le storie interessanti che la riguardano, a partire da quella circa il suo nome. Nei documenti del Carteggio Visconteo Sforzesco (1282 - sec. XVII), conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, essa è definita Camera Grande, per via delle sue dimensioni. Era infatti la stanza più ampia del castello, per tale ragione Ludovico il Moro (riscattandola dalla destinazione di Sala della Falconeria, voluta dal precedente duca, suo fratello Galeazzo Maria, appassionato di caccia al falcone) l’aveva adibita a sala delle udienze, in cui venivano ricevuti gli ambasciatori degli altri stati e si tenevano riunioni a carattere politico oppure concernenti le questioni della città. Sebbene essa sia ubicata nella torre nord, faceva comunque parte dell’appartamento ducale, ad esso collegata in quanto luogo di rappresentanza. Proprio in virtù di questa sua destinazione, doveva quindi simboleggiare anche nelle decorazioni la magnificenza del signore di Milano: Ludovico Maria Sforza, uno dei più potenti del suo tempo, a capo di un territorio tra i più ricchi del mondo.

 

Non è dunque un caso se Leonardo da Vinci, quando, nel 1482, dovette abbandonare Firenze, fra i tanti stati e staterelli dell’Italia disunita, scelse proprio Milano. Nella lettera di autopresentazione che indirizzò al Moro declinò le sue molteplici attitudini e capacità, che lo Sforza, accogliendolo, impiegò tutte quante, nessuna esclusa, dall’urbanistica, all’architettura; dall’ingegneria idraulica, a quella meccanica, fino all'arte bellica; dalla scultura, alla musica; dall'organizzazione di feste, alla moda, alla cucina e, naturalmente, alla pittura. Finito il Cenacolo e la Vergine delle Rocce (dipinta per la perduta chiesa di San Francesco Grande e oggi purtroppo non più a Milano) lo incaricò quindi di dipingere il luogo diplomaticamente più importante del ducato: la sala delle udienze. 

 

Dalla Camera Grande alla Camera dei moroni

 

Sulla sua volta, su una superficie di 400 metri quadrati, il maestro toscano andò a dipingere degli strepitosi intrecci di piante di gelso, e non già (e non solo) per l’amore scientifico che egli aveva nei confronti dello studio della natura, quanto, piuttosto in omaggio a Ludovico Maria Sforza, altrimenti detto 'il Moro'.

Questo soprannome, era derivato al signore di Milano non tanto (e non solo) dal colore scuro della sua pelle (che cosa mai sarebbe importato a uno degli uomini più intelligenti e potenti dell’orbe terracqueo del farsi chiamare con un epiteto allusivo al proprio aspetto fisico? E che gliene caleva poi ai suoi sudditi, che da lui si aspettavano un buon governo che portasse ricchezza materiale, della cromia della pigmentazione della sua epidermide?), ma per il grande interesse “imprenditoriale” da lui mostrato nei confronti delle piante di gelso, in dialetto milanese murùn, o moròn, a seconda della località, termine direttamente derivato dal latino morus

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse come si presenta oggi ai visitatori di Milano Leonardo 500.


Bisogna infatti ricordare che Ludovico il Moro aveva grandemente potenziato l’industria serica milanese (introdotta dai Visconti) che, sotto il suo illuminato dominio, raggiunse apici mai toccati in precedenza. I tessuti milanesi auro-serici erano molto ricercati da tutti i signori d’Europa per la brillantezza dei colori e per la preziosità dei decori e portavano alla città un ingente volume di affari con il conseguente benessere diffuso. Siccome i bachi da seta si nutrono di foglie di gelso, ecco allora che, per potenziare l'industria manifatturiera della seta, era necessario incentivare la coltivazione dei murun. Ludovico Sforza era talmente patito dei gelsi, da aver voluto addirittura inserire l’immagine della sua tipica foglia nel proprio stemma gentilizio. Ciò detto, non risulta difficile comprendere la scelta simbolica operata da Leonardo di dipingere intrecci di gelso sulla volta della Camera Granda, che “rappresentassero" in effigie il Moro.

L’interesse incondizionato di Ludovico Maria Sforza per la seta e per i murùn indusse inoltre l’artista fiorentino, per compiacerlo, a dare il proprio contributo nel raffinare la produzione dei tessuti milanesi, sia nella tecnica, che nel progetto. A tale proposito, nel Codice Atlantico, è contenuto il disegno di un telaio meccanico, insieme ad altri di strumenti per la filatura e la torcitura della seta e c’è addirittura il progetto di un motivo decorativo per un panno di seta, con annotazioni tecniche sulla sua tessitura.

Dopo l’intervento di Leonardo, il popolo di Milano cambiò nome alla sala delle udienze, che da Camera Granda fu detta Camera dei moroni. E tale definizione dovette essere grandemente in uso, se persino Luca Pacioli, a quel tempo ospite del Moro, in un passo del De Divina Proportione, fa riferimento a una riunione tenutasi lì nel 1498, per discutere del tiburio del duomo di Milano, con queste parole:

«…a certi propositi del domo de Milano, nel 1498, siando nella sua inexpugnabile arce nella camera detta «de’ moroni», ala presentia delo excellente Domino de quello Ludovico Maria Sforza, con lo Reverendissimo Cardinale Hipolyto da Este suo cognato, lo illustre Signore Galeazzo Sanseverino mio peculiar patrone e molti altri famosissimi, comme acade in cospecto de simili, fra gli altri lo eximio utriusque iuris doctore e conte e cavalie[r]i Meser Onofrio de Paganini da Brescia detto da Ceveli, il qual ibi coram egregiamente exponendola, tutti li astanti a grandissima affectione del nostro Vitruvio indusse, nelle cui opere parea che a cunabulis fosse instructo». (Luca Pacioli, De Divina Proportione, Venezia, Paganino Paganini, 1509)

 

Tra i rami di questa selva campeggiano anche molte gasse d’amante dorate, messe lì da Leonardo per celebrare il legame nuziale stretto nel 1491 tra il casato degli Sforza e quello dei d’Este con il matrimonio fra Ludovico Maria e Beatrice. Sulle pareti nord e ovest, poi, il maestro ha disegnato in monocromo radici e rocce così fedeli al vero visibile come mai se ne erano vedute prima.

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse. A sinistra: i lavori di restauro ai monocromi leonardeschi delle pareti. A destra: dettaglio.


Poiché i lavori d’esecuzione si sono protratti più a lungo dei cinque mesi previsti all'inizio (dal momento che Leonardo aveva deciso di ritrarvi anche delle vedute di Milano e trascorreva di conseguenza molto tempo in giro per la città a prendere appunti sul suo taccuino), essi sono stati giocoforza frequentemente interrotti dalle urgenze di stato che di volta in volta richiedevano l’utilizzo della Camera. E, come risulta dai carteggi, anche in quelle occasioni, come già in altre, era toccato al camerario del duca, Gualtiero Bascapè, di sedare gli accessi d’ira dell’illustre pittore, facendo ricorso a quella diplomazia per cui andava giustamente famoso. È stato proprio lui a scrivere questa lettera al Moro:

 “A la saleta negra non si perde tempo. Lunedì si desarmarà la camera grande da le asse, cioè da la tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto Septembre, et che per questo si potrà etiam goldere: perché li ponti ch’el farà lasarano vacuo de soto per tuto”. 

Il che significa che Lonardo per dipingere la volta, dopo aver liberato le pareti che il precedente duca, Galeazzo Maria, aveva voluto “foderate de asse” (ASM, lettera di Bartolomeo Gadio a Gian Galeazzo Sforza, 2 aprile 1473) deve aver montato degli speciali ponteggi che non invadevano tutta l'area sottostante così da consentire a chi lo volesse di ammirare il suo lavoro e magari anche di tenervici delle riunioni. Ed ecco che, due giorni dopo, il 23 aprile 1498, il Bascapè inviava una missiva allo Sforza in cui lo avvisava che la Camera ‘disconza' (leggi a soqquadro), era stata riordinata.

Purtroppo, a causa delle brusche vicende che posero fine alla dinastia sforzesca, la camera picta non fu mai ultimata.

 

Il declino e l’abbandono 

 

Il 2 settembre 1499, quando le truppe francesi invasero Milano e la soldataglia guascone distrusse “il Cavallo" che Leonardo stava eseguendo per la statua equestre di Francesco Sforza, padre del Moro, a nulla valse all’artista il rapido cambio di dedicazione a favore del reggente di Milano a nome a per conto di Luigi XII, quel Gian Giacomo Trivulzio, acerrimo nemico dello Sforza. Il Cavallo venne fuso e il metallo trasformato in palle di cannone. Analoga, infausta sorte toccò anche alla ‘camera dei moroni’, che fu fatta oggetto della damnatio memoriae del Moro, a maggior ragione in quanto ne riproduceva in nuce il simbolo. Per sommo dispregio fu allora trasformata in stalla, il che equivale a dire che il luogo simbolo del potere del Moro nonché del Moro stesso fu metaforicamente annientato, come si usava fare in antico con le spoglie del nemico vinto.

Nei secoli successivi, la volta fu ricoperta da uno scialbo bianco e sull’opera di Leonardo cadde l'oblio.

 

La riscoperta, i pesanti restauri ottocenteschi e la nuova denominazione di Sala delle Asse

 

Dovettero passare quattrocento anni, prima che qualcuno riportasse alla luce la camera picta. Fu grazie ai meticolosi studi condotti fin dal 1893 sui documenti conservati negli archivi milanesi dallo storico tedesco Paul Müler-Walde se, nel 1901, Luca Beltrami, allora impegnato nel restauro del castello (dalla torre del Filarete, alle merlature, al completamento dei torrioni) riscoprì il lavoro di Leonardo. Purtroppo, la concezione che il Beltrami aveva del restauro era interpretativa e non conservativa e fu così che affidò il compito di por mano alle pitture leonardesche, grandemente deteriorare dal tempo e dallo scialbo, a Ernesto Rusca che intervenne con pesanti ridipinture. Mancò all'epoca anche un rilievo fotografico dello stato dell'opera precedente all’intervento di Rusca, il che costituisce una grave lacuna per chi è impegnato oggi nella sua ripulitura nel tentativo di riportare alla luce la ‘mano' di Leonardo.

Ci fu allora, per nostra fortuna, un felix error da parte del Beltrami che non riconobbe la paternità di Leonardo sui monocromi delle pareti, attribuendoli invece a interventi spagnoli successivi. Così li escluse dal restauro e li fece ricoprire con delle assi, battezzando quindi la sala con il nome di Sala delle Asse che conserva tutt'ora. Questi preziosissimi disegni a carboncino oggi sono gli unici, se pure incompiuti, a recare intatto il tratto della mano del maestro.

 

I restauri in corso

 

Dal 2013 la Sala delle Asse è oggetto di una meticolosa campagna di restauro mirante a liberare le pitture dagli interventi ottocenteschi e dai successivi, del 1955, opera di Ottemi Della Rotta che a propria volta aveva già tentato di ripulire gli ornamenti quattrocenteschi dalle pesanti ridipinture di Rusca. Interrotti una prima volta nel 2015, per mostrare la sala al pubblico internazionale giunto in città per l'Expo, la Sala delle Asse è stata eccezionalmente riaperta in onore del cinquecentesimo anniversario della morte del suo autore ed è visitabile da maggio di quest'anno fino a gennaio dell'anno prossimo.

Per la rassegna “Leonardo mai visto", di cui la Sala delle Asse è il cuore, in quelle attigue sono esposti alcuni disegni autografi del maestro e un ologramma mostra ai visitatori una ricostruzione della Milano rinascimentale. 

Ma è per ammirare il capolavoro di Leonardo che non conviene perdere questa occasione.

Quando ricapiterà?

 

Nota: accenni alla storia della Sala delle Asse sono nel racconto L’affresco di Bernardo Zenale alla Gualtiera, edito nei Quaderni di Italia Medievale (2017) e nel romanzo breve Un filo di seta, Bolis Edizioni (2018), alla cui lettura l’autrice rimanda.

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