Gioie eccessive / Recalcati lettore di Fachinelli. L’oceano al di là dell’Edipo

18 Novembre 2020

Elvio Fachinelli ha avuto il grande merito di portare la psicoanalisi dentro il dibattito politico e culturale dell’Italia degli anni ’60 – ‘80, quando il vento del rinnovamento soffiava forte sulla società italiana. Psicoanalista eterodosso, ma non dissidente, sospettoso delle dinamiche autoritarie dei gruppi, anche quando questi erano fondati su buone cause, si era sottratto all’invito formulatogli da Jacques Lacan di rappresentarlo in Italia, preferendo mantenere una posizione da libero battitore. A trent’anni dalla prematura scomparsa, uno dei maggiori “eredi” italiani di Jacques Lacan, Massimo Recalcati, gli ha dedicato un piccolo densissimo volume, articolato in tre saggi e in una Appendice, dal titolo significativo e assai impegnativo: Critica della ragione psicoanalitica.

 

Di Fachinelli, il suo esegeta condivide non solo una matrice intellettuale lacaniana, che è certamente più sfumata nel caso di Fachinelli, ma anche quella che si potrebbe definire una comune vocazione all’“impegno”. Per entrambi, infatti, la psicoanalisi è una prassi interamente calata nell’attualità, che non teme di sporcarsi le mani con il conflitto. Certamente diversissimi sono gli sfondi nei quali prende rilievo la loro riflessione. La temperie sociale, politica e culturale che caratterizzava gli anni di Fachinelli non ha quasi più rapporto con quella attuale. Le urgenze sono altre, anche se non meno drammatiche. Comune a entrambi è tuttavia la persuasione che la psicoanalisi, che nella sua pratica resta sostanzialmente una faccenda privata, sia, quanto al suo senso, parte integrante del discorso pubblico. Essa deve fungere da criterio di orientamento nel reale e da principio della sua trasformazione. 

 

Ecco allora che la deriva ossessiva che Fachinelli denunciava nella logica gruppale dell’estrema sinistra degli anni ‘70 diventa, nella rilettura che ne offre Recalcati una diagnosi della pulsione securitaria che attraversa la contemporaneità, a riprova del fatto che il fascismo, per la psicoanalisi, non è qualcosa di contingente, ma si inscrive nella logica dell’inconscio. È un fatto degno di nota che quando la psicoanalisi si fa “ontologia del presente”, come avviene in modi diversi in Fachinelli e in Recalcati, il fascismo bussi sempre alle sue porte, presentandosi come il fantasma che assilla la compagine sociale. Lo si può verificare scorrendo a volo d’angelo la storia di questa disciplina: con sistematica puntualità – dal Freud della Psicologia delle masse al Reich della Psicologia di massa del fascismo fino alla schizoanalisi di Deleuze-Guattari – ogni incursione nel sociale della psicoanalisi fa emergere una “ricerca del chiuso” che, come scrive Recalcati, sembra appartenere “alla forma umana della vita” (il corsivo è mio). La “necessità” di questo libro di Recalcati è, dunque, immediatamente politica.

 

Senza lo spettro del fascismo, che si ritrova nelle nuove forme del populismo sovranista, non si spiegherebbe il ritornare dello psicoanalista di oggi alle pagine del suo collega di ieri. Il primo capitolo ha infatti un titolo “programmatico”, Uscire dal chiuso, ed è tutto costruito sulla fenomenologia schizzata da Fachinelli (in La Freccia ferma del 1979) di quella ossessione che porta il soggetto a trovare riparo presso “un padrone assoluto”, “una istanza superiore esterna (Dio, una Causa, o altro) che possa ribadire il suo affidamento regressivo all’Altro”.

 

Uscire dal chiuso è allora qualcosa di più di un titolo descrittivo: è la parola d’ordine di una psicoanalisi che accetta la sfida del tempo storico, pagando il prezzo del proprio impegno con i sarcasmi di chi la vorrebbe invece confinata nella penombra di un comodo appartamento borghese, appannaggio di una ristretta cerchia di privilegiati, e ne irride il tentativo di rendersi comunicabile e condivisa.

Accanto all’urgenza politica, ma connessa ad essa, vi è poi un’urgenza schiettamente teorica. Bisogna andare all’Appendice del libro (Il mare della formazione) per trovarla enunciata. La questione che viene sollevata in quelle pagine concerne la formazione dello psicoanalista in un contesto, quello lacaniano, dove l’osservanza della “lettera” del Maestro sembra costituire il solo valore al quale attenersi: formazione come conformazione, dunque. Nel caso poi l’esperienza non si lasciasse ricondurre al Libro, tanto peggio per l’esperienza.

 

Ciò che conta, infatti, è impratichirsi in una neolingua inaccessibile ai più che funziona come setaccio al cui vaglio passare il reale, trattenendo solo ciò che conferma la premessa del sillogismo lasciando perdere tutto il resto. “Viene alla mente – scrive sconsolato Recalcati – una tesi di Fachinelli: la psicoanalisi si è progressivamente costituita come una difesa fobico-ossessiva nei confronti dell’aperto”. Si ripete, anche nel caso di Lacan, quello che era già avvenuto con l’insegnamento freudiano, non solo presso i post-freudiani, sempre preoccupati di ricucire gli strappi procurati da Freud al dominio dell’Io, ma già in Freud stesso, che Fachinelli amava presentare come spaventato rispetto agli effetti prodotti dalla sua stessa veggenza: la scoperta dell’inconscio come causa.

 

“Dopo lo squarcio iniziale, la psicoanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare… Ma certo questo è il suo limite, l’idea di un uomo che deve sempre difendersi, sin dalla nascita e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato” (E. Fachinelli, La mente estatica, 1989). 

Vi è, insomma, una naturale tendenza della psicoanalisi a (ri)costituirsi terapeuticamente come un discorso della padronanza, replicando un antico modello, quello del soggetto che è padrone del possibile, che ne dispone sovranamente come di una capacità, e che perciò argina (“ottura”, diceva Fachinelli) tutti quei “buchi” dai quali può passare un reale che si sottrae alla sua misura, un reale che è in eccesso sulla possibilità di accoglierlo, di farlo proprio, di digerirlo, un reale che non si lascia metabolizzare e trasformare in alimento utile alla autoconservazione del soggetto. Vi sono, scriveva Fachinelli, “gioie eccessive”, dalle quali la psicoanalisi, in quanto discorso della padronanza, si guarda come se fossero minacce. Queste gioie, che rinviano al grande tema lacaniano di una jouissance “al di là” del principio di piacere, “aprono”, strappandoci all’“umidiccia intimità gastrica” del nostro Io (l’espressione, potentissima, la mutuo dal giovane Sartre polemico con l’“idealismo” del suo maestro Husserl; ricordo che senza passare da Sartre poco si comprenderebbe del lacanismo di Recalcati).

 

Esse ci mettono in comunicazione con un Altro che non è l’Altro del Simbolico, della Legge, dell’Edipo. Per Fachinelli è un Altro molto più antico, ben poco “umano”, dal momento che ciò che c’è di “umano, troppo umano” è proprio l’ossessione per la chiusura, vale a dire quella sordida inclinazione al fascismo che accompagna, come uno spettro, ogni processo di soggettivazione. Per questo Altro deve essere convocato un “sentimento oceanico”, come aveva fatto, in una celebre lettera a Freud, il suo amico Romain Rolland. La sua figura – che, come vedremo, non è affatto una metafora – è il “mare”. L’Altro assume qui il volto della natura, colta però non nel suo aspetto pietrificato di mosaico di fatti retto da leggi meccaniche, bensì in quello che aveva di mira Spinoza quando coniava per l’attività generativa della natura il neologismo latino naturans e che Henri Bergson, un altro spinoziano, aveva chiamato “durata creatrice di imprevedibili novità”. 

 

 

È impressionante, anzi, la concordanza tematica e, addirittura, lessicale che c’è tra le tesi esposte da Fachinelli in saggi come La mente estatica e La Freccia ferma e la metafisica bergsoniana, soprattutto se si tiene presente l’ultima grande opera del filosofo francese: Le due fonti della morale e della religione. La grammatica concettuale di Fachinelli, fondata sulle coppie antinomiche aperto/chiuso, statico/dinamico, durata /spazio, concetto/ estasi, è infatti la stessa di Bergson. Ne è quasi un calco fatto con il linguaggio psicoanalitico. Si pensi solo alla critica bergsoniana delle religioni statiche, territoriali, identitarie, al suo rifiuto delle morali chiuse, basate sul dualismo amico-nemico, al suo invito incessante ad aprire ciò che tende naturalmente a cristallizzarsi, a rendere dinamica l’esperienza che l’intelletto astratto invece reifica in una molteplicità disgiunta di stati immobili. Si consideri, poi, il suo appello alla mistica, differente per natura da ogni religione tramandata anche se è costretta ad esprimersi nella retorica di una religione determinata. La mistica, afferma Bergson, non è contemplazione, ma azione trasformatrice, praxis generatrice di comunità libere. Solo come “grande politica” l’estasi era per il filosofo francese qualcosa di efficace. Altrimenti è solo un nuovo capitolo della storia della ideologia. Difficile trovare una tesi più “fachinelliana” (e sessantottina) di questa…

 

Ma Bergson, ai tempi in cui Fachinelli scriveva, era da tempo un corpo estraneo nel dibattitto intellettuale italiano e non solo. Ad occupare la scena era piuttosto l’hegelo-marxismo, vale a dire una visione del reale tutta storica, impregnata di un irriducibile umanismo, incrollabilmente fondata sulla tesi dell’eccezione umana rispetto al piano della natura. Lo stesso vale evidentemente per l’insegnamento lacaniano, anch’esso vittima della stessa congiuntura intellettuale, sebbene Lacan fosse filosoficamente assai più attrezzato del suo allievo italiano. Degno di nota è allora il fatto che proprio oggi, nel tempo in cui la crisi prodotta dall’antropocene è sotto gli occhi di tutti (ne è segno tangibile la mascherina indossata ad ogni latitudine), il maggiore tra gli psicoanalisti italiani senta la necessità di riaprire la pratica Fachinelli. Non solo per areare la casa della psicoanalisi, nella quale da troppo tempo ormai si soffoca per i miasmi prodotti da settarismi, piccole invidie e da una scolastica autoritaria, ma perché forse si fa incalzante la questione della crisi del paradigma antropologico che sottende la psicoanalisi mainstream. Già un altro psicoanalista, Sergio Benvenuto, ha sottolineato in un recente articolo l’aspetto “dionisiaco” latente nell’esperienza del suo antico amico Fachinelli evidenziando la distanza che lo separava dall’umanismo storicistico della sinistra italiana del tempo. Recalcati procede cautamente perché vuole evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca. Diffida della retorica dell’impersonale, delle facili fascinazioni per il neutro.

 

Chi, come Recalcati, fa della clinica la cartina di tornasole per giudicare la bontà di una ipotesi teorica, non può agire diversamente. Se è vero che l’aspetto restaurativo della psicoanalisi è storicamente rappresentato dal suo essere un esorcismo nei confronti dell’aperto, è altrettanto vero che senza una difesa dal reale non c’è soggettivazione e che la psicoanalisi è una teoria e una prassi del soggetto ed è rivolta al soggetto. Non al suo “bene” – che, ricorda Recalcati, è la pretesa foriera di ogni possibile male – ma sicuramente al suo “essere”. Le vie della desoggettivazione e della desublimazione secca, le vie dionisiache, possono semmai essere percorse dagli artisti, perché a difenderli dal reale è il velo “apollineo” dell’immaginario; sono invece non solo impraticabili, ma, direi, eticamente irresponsabili per lo psicoanalista. 

 

Tuttavia chi abbia seguito lo svolgersi nel tempo del pensiero di Recalcati non può non notare come in alcune sue recenti dichiarazioni teoriche, e in queste pagine in particolare, l’aperto promesso al soggetto da una psicoanalisi non reazionaria prenda sempre di più un aspetto “oceanico” e sempre meno “umano, troppo umano”, fino al punto da riabilitare – in modo apparentemente distratto, ma proprio per questo ancora più significativo – la grande tesi di Ferenczi, secondo la quale non è l’oceano il simbolo della madre, ma la madre uno dei simboli di quell’al di là dell’Edipo che è l’oceano. In psicoanalisi l’oceano, il mare, l’onda, sono metafore che, come ha scritto una volta Bergson, parlano al senso proprio. Se il rumore delle onde funziona per il soggetto come il canto delle Sirene per Ulisse è, insomma, perché rammenta una provenienza e una destinazione. Siamo fatti di quella stessa stoffa. Certo, per Recalcati è sempre “sulla scala del desiderio” che va ricalcolato questo al di là dell’Edipo. Recalcati non viene mai meno a questo assioma sul quale ha articolato tutta la sua impresa teorica, ma questo non significa che il desiderio ricucia lo strappo del godimento sul modello del discorso della padronanza.

 

In passato Recalcati è stato spesso vittima di questa interpretazione riduttiva, non senza una qualche sua responsabilità, ma il passaggio attraverso le “gioie eccessive” di Fachinelli serve proprio a dissipare l’equivoco. La psicanalisi, scrive Recalcati esegeta di Fachinelli, è un’avventura e non un programma. Il suo metodo è la navigazione a vista: mappe e cartografia (il Libro) sono funzionali al processo, lo accompagnano ma non lo dirigono. L’essere dell’uomo è certamente la preoccupazione della psicoanalisi, ma Fachinelli ci ha insegnato che preservarlo vuol dire esporlo, cioè riconsegnarlo, “per quanto è possibile”, al suo elemento estraneo: alla potenza non umana del mare.

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