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Una mostra ai Tre Oci / John Pawson: Less is more

16 Giugno 2021

“In viaggio, come d’altronde nella vita, il meno è quasi sempre il meglio”, dice William Hurt, nel film di Lawrence Kasdan, Turista per caso. Minimo non è meno, non è poco, eppure entrambi hanno a che fare con l’arte del togliere. Togliere è liberare dall’eccedente, eliminare quel che è eccessivo. Di tutto l’umano cercare, forse una delle arti più difficili e sublimi. Un’arte che avvicina all’essenziale, sapendo che apre una direzione e non definisce una meta, in quanto se il minimo essenziale è tale, lo è perché è irraggiungibile. La sua importanza sta nel cercarlo sapendo di non poterlo raggiungere mai. Una sfida alla nostra tensione desiderante, che sceglie la via della ricerca per selezione, verso la leggerezza e la valorizzazione del lavoro della luce che, a ben vedere, fa la parte della grande scultrice nel prender forma delle cose.

 

 

Quel che si produce sotto i nostri occhi, instancabilmente, di fronte alle fotografie, come del resto di fronte all’intera opera e al segno inconfondibile di John Pawson, è una trasformazione silenziosa. Gradualmente il movimento, condotto dallo sguardo si abitua a una trasformazione silenziosa, appunto, grazie alla quale l’essenziale delle forme emerge dalla nebbia del troppo e della confusione e appaga. Lo fa con risonanze inaudite, percezione e sentimento. Invita alla sosta, non solo del movimento ma anche della parola, perfino del respiro. L’avvento di una particolare disposizione all’ascolto. Di certo il silenzio prende la scena. 

Se in Anatomy of Minimum, Pawson mostra la sua propensione all’attenuazione della presenza degli artefatti nello spazio, lasciando al lavoro della luce il compito di valorizzare le forme, nella mostra Sanlorenzo. A point of view in corso alla Casa dei Tre Oci, a Venezia, dal 22 maggio al 31 luglio, prevale l’idea che si possa entrare in contatto con l’essenza dello spazio, attraverso tutto ciò che il nostro sguardo percepisce. Una festa per lo sguardo, efficace come quella tra fotografia e architettura, non è facilmente imitabile, soprattutto se condotta in base alla grande poetica radicale e essenziale di John Pawson. Anche il dialogo con l’industria produttrice di yacht più importante del mondo come Sanlorenzo assume una connotazione di originalità in cui l’artigianato italiano, l’industria, l’ingegneria navale e il segno più raffinato dell’architettura e del design sfumano e si confondono, in modo da garantire un esito di tale originalità da sconfinare nell’unicità. 

L’attitudine per il radicalismo e la ricerca delle dimensioni elementari della forma, proprie della via di Pawson, mediante un’esplorazione severa, evidenziano una passione per il dialogo tra la forma e la luce. Il rapporto tra la costruzione delle navi e l’architettura si replica nella capacità stessa di condurre la nave e nell’orientare le vele. Le affinità tra l’architetto e il nocchiero riportano alle modalità di combinare il luogo, gli elementi, il progetto e la forma. Quello di Pawson appare come un processo combinatorio quasi senza violazione, e questo lo eleva oltre la stessa frequente definizione minimalista del suo lavoro. Sembrano riprodursi nei suoi segni le condizioni di sintesi di molte tradizioni culturali, che portano sia le sue opere che il modo in cui le fotografa ad assumere un linguaggio tanto elementare quanto universale.      

 

L’ineffabile che si propone come stato d’animo, dopo che l’arte del togliere ha condotto all’essenziale, induce a uno straniamento fino all’originario, alla stanza del pensiero verginale, dove tutto ha origine. Allora emerge dal silenzio un lessico per dire a se stessi quel che si sta vivendo. Una minima famiglia di parole che forse possono rendere conto del valore di una ricerca che dura da quarant’anni e che parla al mondo interno di ognuno e, allo stesso tempo, alla condizione che stiamo vivendo in questo nostro tempo che si muove tra l’horror vacui e l’horror pleni.

Viviamo continue esperienze di vuoto, di perdita e di angoscia, che a ben vedere coincidono per molti aspetti con un continuo senso di saturazione a cui il nostro tempo ci consegna. La saturazione è un assunto esperienziale che sviluppa un sentimento di impossibilità, dove i linguaggi sembrano divenire obsoleti nel momento stesso in cui vengono pronunciati o addirittura ancor prima. L’arte di ritrarsi e di rinunciare, una sorta di capacità negativa, per dirla con John Keats, finisce per svolgere una funzione liberatoria del tutto originale e di certo generativa, inducendo a profonde meditazioni, come quelle che si fanno avanti di fronte alle fotografie di Pawson. Finalmente si respira, e lo spazio e la luce vincono sugli oggetti dando loro forma.

 

 

Il lessico che si propone, a sua volta emergente dalle emozioni e dai sentimenti dovuti alla contemplazione delle immagini, comprende certamente la leggerezza.

Quella categoria interpretativa che Italo Calvino aveva così scientemente annoverato nelle memorie per quello, che quando scriveva, era il prossimo millennio, quello attuale. Dove la rilevanza del costrutto non indica tanto l’assenza di peso, ma la scelta di passare sulla terra con passo leggero, come nel musicale titolo di un bellissimo libro di Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri [Illisso, Cagliari, 2000].

Quel lessico riguarda e comprende anche la dimensione elementare dell’esperienza. Gli artefatti e le loro immagini sono elementari, richiamando costantemente l’importanza e la rilevanza degli elementi costitutivi, proprio come quando il gusto di un alimento esce esaltato dal fatto di non averlo eccessivamente o per nulla condito. 

Così come il silenzio si fa finalmente avanti di fronte alle immagini di Pawson, sia per il senso di protezione e contenimento che ispirano, sia per la leggiadria dei profili e la riservatezza degli spazi. 

E poi l’ospitalità evocata continuamente come segno di una possibilità, quella di vivere una vita abitata grazie alle forme che la contengono.

 

 

Il risultato dell’arte del togliere, come accade nell’opera di Alberto Giacometti, sta probabilmente proprio nel margine, che non è un confine, tra vuoto e pieno. In quello spazio non c’è posto per il superfluo, e la forma riesce a scrollarsi di dosso tutto quello che in qualche modo poteva appesantirla o turbarne la sacralità. 

 

Se per noi umani una cosa non coincide mai con se stessa, ma è sempre accessibile e allo stesso tempo rivestita mediante il significato che noi esseri sense-maker le attribuiamo, seguendo Pawson e il suo lavoro, il senso si fonde con la forma e si realizza senza la mediazione del linguaggio. Raramente si sperimenta come di fronte a queste fotografie e a queste forme l’inutilità delle didascalie. 

 

L’arte del togliere per giungere all’essenziale ha a che fare anche con la rinuncia, ma non solo, se si considerano l’atmosfera e la prassi della struttura dell’iki, secondo la straordinaria sintesi di Kuki Shüzö in La struttura dell’Iki, [Adelphi, Milano 1992]. Come è noto quella struttura è composta di tre momenti che riassumono l’essenza della cultura giapponese nelle sue manifestazioni più profonde. Il primo momento è la seduzione sessuale e ne costituisce la caratteristica dominante; il secondo è l’energia spirituale e il terzo la rinuncia. Che la seduzione sappia rinunciare vuol dire consentire il dispiegarsi della sua essenza originaria. 

 

Seduzione ed essenza originaria accompagnano le forme attraenti di John Pawson e ne liberano tutta la capacità coinvolgente, mentre si propongono con una componente di sacralità che invita a contemplarle quasi senza toccarle. 

 

John Pawson, “A point of view”
Casa dei Tre Oci, Venezia

dal 22 maggio al 31 luglio 2021

 

 

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