Una conversazione con Filippo Ceccarelli / "Questi qua" al potere

9 Gennaio 2019

Il mostro, come lo chiama, l’autore è un tomo di 958 pagine dove si racconta la storia della politica italiana e dei partiti cominciando dai grandi dominatori della prima repubblica, i democristiani, sino ad arrivare a “questi qua”, ovvero gli attuali governanti gialloverdi. S’intitola Invano per indicare che è tutto vano, inutile, che il potere è vanità delle vanità, come dice l’Ecclesiaste. Filippo Ceccarelli, romano, firma di “La Repubblica”, è l’archivista e il commentatore curioso e onnivoro di un cinquantennio della nostra vita nazionale. Dopo i democristiani, dalle origini ad Aldo Moro, ci sono Craxi e i rampanti, la caduta e il marasma di Segni e Di Pietro, quindi i barbari della Lega con Bossi, e i comunisti, da Berlinguer a D’Alema e Veltroni, i fascisti, il lungo ventennio berlusconiano, infine l’Ulivo che prende fuoco, ed eccoci qui, ai giorni nostri.

 

Filippo Ceccarelli: Comincio dalla metà degli anni Sessanta, quando ho iniziato a occuparmi di politica, ma c’è anche il prima. Quando incontravo i grandi, Nenni e Moro, necessariamente mi documentavo; sentivi in loro il peso dell’esperienza e l’importanza che avevano avuto.

 

Marco Belpoliti: Tutto questo oggi sembra sparito. Sembra che la politica, le figure dei politici, comincino oggi, e invece non è così. Cos’è cambiato? Il costume, la mentalità o la politica stessa?

 

FC: “Questi qua” vengono un po’ dal nulla; all’apparenza sono figure la cui storia politica è molto misera. Non senti dietro una scuola, dei maestri, a meno che non si voglia considerare come maestri Bossi, Grillo o qualche tardo democristiano, che può avere avuto Renzi come giovane d’ufficio. Sono persone che si sono fatte da sé. La scuola di Salvini, Renzi e Di Maio è stata la televisione. Non è un caso che il loro esordio sia nei telequiz, luoghi nei quali tu entri senza essere nessuno e dopo due settimane sei già diventato un personaggio. Le classi dirigenti del passato erano transitate per i consigli comunali, provinciali e regionali, le segretarie della federazioni locali, i comitati provinciali, avevano fatto i portaborse, poi gli assessori. Venivano da esperienze come l’occupazione delle terre o le lotte in fabbrica, il sindacato, era un cursus honorum che durava vent’anni, a volte di più. “Questi qua” vengono dalla televisione. I nomi e le cose risuonano nell’immaginario secondo suggestioni curiose; il programma di esordio di Renzi è “La ruota della fortuna”, un tema machiavellico. La fortuna viene, la fortuna va; si adatta perfettamente al personaggio. Salvini da un programma che si chiama “Doppio slalom” e da un altro: “Il pranzo è servito”. Sono titoli che sono quasi un destino. Questo genere di scuola fa sì che questi nuovi siano molto rapidi. Per fare il telequiz bisogna essere veloci. Per loro la rapidità è il ritmo, e la velocità è tutto. Hanno la battuta subito, l’idea subito, il cambio subito, ma anche l’errore subito nei social: la chat sbagliata, la foto con il criminale. Tutte cose che costituiscono tutto il contrario della classe dominante precedente: la pazienza, la cautela e una riflessione che teneva conto della complessità. Ora è invece una specie di rotolata veloce verso il risultato apparente e appariscente.

 

MB: Sono animali politici molto caldi, empatici con il proprio pubblico, performativi. Mi sembra vivano dentro una bolla di rappresentazioni, che producono loro stessi attraverso i diversi media, dalla televisione ai social. Vivono in diretta, iperconnessi con una community che oggi c’è, e domani non più. Sono il frutto della rapidità come tu dici; e la subiscono, o forse la subiranno. Rischiano di scambiare il consenso con la curiosità verso di loro. L’altro elemento che colpisce è che si vestono nello stesso modo. Pensa alla camicia bianca di Renzi, replicata da Di Maio e Salvini. A parte le felpe di quest’ultimo, che gli sono servite per farsi vedere, gli italiani probabilmente li confondono tra loro. 

Nel tuo libro si sente molta nostalgia per quel tempo passato, quello dei politici di una volta. È un libro autobiografico, anche se racconti la storia di tantissime persone, non solo dei grandi, di personaggi infimi: ci sono trenta pagine fitte con l’indice dei nomi. Molto malinconiche sono le pagine sulla Lega, su Bossi e le sue malattie.

 

FC: Oggi la condizione di una classe politica in cui ogni energia, ogni speranza e affidamento si concentrano su un’unica persona, fa sì che la politica ritorni ad essere monarchica, nel senso autentico della parola. Quello che viene ritenuto una virtù, che per risolvere i problemi serva una sola persona, finisce per essere invece una debolezza terribile. Craxi, Bossi e lo stesso Berlusconi sono figure su cui si concentra il futuro di tre pezzi importanti della storia politica. Due si ammalano e finiscono male; il terzo offre il destro alla possibilità d’essere diffamato e colpito, lasciando dietro di sé il nulla. Non c’è in nessuno dei tre casi una soluzione. Bossi viene sostituito da Maroni, ma è una soluzione intermedia. Il Partito Socialista finisce con Craxi e Forza Italia con Berlusconi. Non lasciano eredi.

 

MB: Il caso Berlusconi nella tua descrizione costituisce qualcosa di particolare. Si può già parlare di un’epoca berlusconiana. È già storicizzata, ed è durata più del Fascismo. Berlusconi è ancora qui. Non c’è stato un dramma finale come per Mussolini, un Piazzale Loreto, del resto non c’è stata neppure una guerra persa. Abbiamo attraversato tante piccole catastrofi di varia natura, anche economica. Berlusconi è oramai una mummia vivente, ora gioca con il nuovo leader Salvini. Non credi che la lunga durata di Berlusconi configuri qualcosa di nuovo e diverso nel panorama della storia italiana? Sono state le televisioni, il denaro, la natura principesca del suo dominio.

 

FC: Lui voleva essere questo: un principe. In Berlusconi sono evidentissime le riemersioni, all’interno di una cornice tecnologica, televisiva, di segni e simboli di un passato, che ritorna in forme smaglianti, ma di un’epoca pre-democratica. Berlusconi si comporta come un re. Ha le corti, i palazzi, le professionalità di servaggio: il cuoco, il preparatore atletico, il musico, il poeta encomiastico, le guardie, i servi, le cortigiane. Un mondo in cui ritornano le corone, le investiture, i troni. Nel suo caso, a differenza di Craxi e di Bossi, c’è l’attenzione al corpo, alle malattie, le vicissitudini fisiche che dà in pasto all’opinione pubblica. Quello che lo rende diverso dagli altri è che in lui si rappresenta un aspetto tutto italiano: offre al suo pubblico l’intera parabola del potere: l’ascesa, il trionfo, la caduta, il ritorno, la celebrazione, e anche il momento della nuova caduta e della pietà. Riguardo a Berlusconi si può esaurire l’intera gamma delle forme del potere, arrivando fino ad avere pena per quest’uomo che è stato l’uomo più potente d’Italia e che finisce per fare l’aeroplanino ai malati e agli anziani della Casa della Divina Provvidenza di Cesano Boscone. Si configura come una manifestazione della caducità delle cose terrene. Questo gli ha dato una marcia in più rispetto a Bossi e Craxi.

 

MB: Viviamo nell’epoca della immediatezza. Un tempo veloce, rapido. Ti sembra che sia cambiata l’antropologia degli italiani? In fondo i democristiani e i comunisti, pur nelle grandi differenze, si somigliavano.

 

FC: Le due chiese, la DC e il PCI funzionano all’unisono sin verso gli anni Ottanta. I democristiani al potere erano consapevoli di non essere amati; c’era almeno mezzo paese che non li amava. Questo faceva sì che le classi di governo avessero un’attitudine alla riflessione, alla prudenza, al non dover esagerare, non dovevano manifestare un primato per le apparenze, ma per la sostanze delle cose. Su questo si è forgiata la classe di governo all’altezza del dramma geopolitico dell’Italia nel Mediterraneo. Dietro quel mondo esistevano moltitudini di cui i leader, i gruppi dirigenti, espressione sconosciuta oggi, sapevano che ogni parola, ogni scelta, ogni documento, doveva tenere nel dovuto conto la sensibilità di milioni di persone. Questo sistema andava ovviamente contro i progressi della tecnologia. È la tecnologia che ha cambiato gli italiani. Esiste una linea di frattura: l’arrivo al potere di Craxi. Più passa il tempo e più ci sembra una persona di cerniera. 

 

 

MB: Poi è venuto giù tutto. Il crollo del sistema. Cosa è successo nel profondo?

 

FC: I democristiani per la prima parte della loro esistenza, fino agli anni Ottanta, ritenevano il potere un prestito di Dio, non una cosa loro. Alla fine della loro vita di singoli, San Pietro gli avrebbe chiesto conto di questo potere, di come l’avevano esercitato. C’era il paradiso o l’inferno. I fascisti, componente della cultura politica del secolo scorso, avevano la Patria, la terra dei padri, per la quale si poteva morire. I loro Santi erano tutti morti, era un culto religioso. Nel mondo comunista, se il compagno moriva viveva negli altri: la sua bandiera sarebbe stata raccolta da altri. C’era la missione di liberazione degli oppressi. La politica italiana aveva una dimensione religiosa molto forte. I socialisti per la prima volta negli anni Ottanta si ritrovano al comando dell’Italia e si chiedono: cosa c’è dopo? Non c’è niente. La morte per il Partito Socialista è irreparabile. Questa che è una laicizzazione, una liberazione dalle ideologie, dal fanatismo, ma può rivoltarsi nel suo contrario: viviamo qui, voglio tutto, datemi il potere. Questo porta a una dimensione in cui l’etica si smarrisce. Con Craxi finisce il partito glorioso dei lavoratori dopo 100 anni. Se ci pensi le due grandi morti che stabiliscono la fine di tutto sono quelle di Moro, nella Renault rossa, e Berlinguer, che ha un colpo apoplettico durante il comizio e vuole continuare a parlare stringendo il fazzoletto in mano. Visivamente sono le due morti che dicono che tutto sta finendo, anche se passeranno dieci anni per il crollo del sistema dei partiti.

 

MB: Credo che sia stato l’avvento della televisione, quella della Rai, e poi la commerciale di Berlusconi, a determinare il cambiamento. Non la televisione da sola, tuttavia è l’elemento decisivo. Uccide l’immortalità della religione, sia quella sacra che quella laica. McLuhan ha sostenuto che se ci fosse stata la televisione non ci sarebbe stato né il fascismo né soprattutto il nazismo perfetti invece per la radio, media delle dittature novecentesche. Mussolini e Hitler, scrive, sarebbero risultati ridicoli, comici in tv. Pensa alla comicità di Berlusconi, al suo uso della barzelletta: buttava tutto in vacca, come si dice. La battuta e la comicità stanno tutte nel presente. La televisione ha realizzato, insieme al sistema consumistico dei supermercati, in quanto supermercato delle immagini ha demolito ogni immortalità.

 

FC: Forza Italia viene presentata a Casalecchio di Reno da Berlusconi in un supermercato.

 

MB: Berlusconi coglie e produce a sua volta il cambiamento. Pasolini, super citato, ha intravisto questo cambiamento all’inizio degli anni Settanta. Oggi la televisione non è tramontata; in un mondo di anziani soli, che stanno in casa, che si spostano poco, la tv è la loro badante. Nonostante facebook, il social dei nonni, la televisione resta un elemento importante della vita quotidiana. McLuhan ha spiegato come un media continua quello seguente: la radio nella televisione, la televisione nel web e nei social. Pensa ai video di Salvini e Di Maio, sono fatti per la tv portatile.

 

FC: Il discorso della morte e del potere come teatro dell’immortalità culminano in Berlusconi, che è il Re, che cerca di ingannare la morte. C’è un apologo perfetto, sembra uscito dall’antichità classica: Berlusconi e del pastore molisano. L’uomo e più ricco e potente d’Italia viene in rapporto durante una campagna elettorale con un uomo che conduce una professione antica. Berlusconi gli dice: Io ho lavorato così tanto nella mia vita che non ho avuto tempo di invecchiare. Il pastore: Arriva, arriva. Berlusconi: Le dispiace se mi tocco le palle. Pastore: Toccate quello che te pare, ma arriva. Ho la sensazione che questo potere, maledetto potere, in un tempo che l’ha privato delle ideologie, sia un sistema che alcuni individui hanno individuato per curare l’ansia di essere in scadenza. Alla nuova classe dirigente manca la consapevolezza di questo. Non sanno che in Italia chi l’ha esercitato fino in fondo, a cominciare da Mussolini e proseguendo per Craxi, Andreotti, lo stesso Berlusconi, fa una brutta fine. Guarda Bossi, che si è inventato uno stato inesistente, di cui era il Demiurgo scomodando una cosmogonia inesistente, che fine ha fatto. Pensa al suo allievo Salvini, che passa dal fare il tifo contro la nazionale di calcio – questo faceva a Radio Padania – a “Prima gli italiani”, gettando una corona d’alloro nel Piave, il sacro fiume. È l’immagine di una giravolta, che in politica si è sempre fatta, ma siamo in un mondo che si affida a l’ultima folata di vento. Un mondo che non va preso sul serio, se non fosse che con i gialloverdi i tuoi risparmi si possono volatilizzare da un momento all’altro. 

 

MB: Di Maio sembra un adolescente, fragile e spavaldo, per dirla con uno psicologo. Mentre Salvini si presenta anche in termini fisici, e per le cose che dice, come un trasformista: dal comunismo padano al sovranismo. Sembra una figura più tragica, nonostante tutto. Di Maio, come il suo ispiratore Grillo, appartiene al campo del comico, del ridicolo. Salvini non è destinato a finire nel nulla come Renzi; sembra contenga l’istanza di un potere che vuole imporsi in forma autoritaria, e però sa che rischio corre ad agire come agisce.

 

FC: Il medium con cui si esprimono i nuovi arrivati, i ragazzotti, i sirenetti, i lupi mannari con le camicie bianche, ovvero la Rete, si adatta molto bene ai due principali generi artistici italiani: la commedia e il melodramma. Non c’è cosa che, dal terremoto alla caduta del ponte, dal naufragio di una nave da crociera ai dati della legge di stabilità, che rimanga seria per più di due o tre giorni nei social. E il melodramma, la malattia italiana, come la chiamava Gramsci: lacrime, effervescenza, retorica, cattivi e cattivissimi, complotti, congiure, eccetera. Il mondo dei nuovi arrivati offre infiniti spunti. Nell’arco di tre giorni ho dovuto scrivere un articolo su Salvini che ha in mano la madonnina di Medjugorje e Salvini fotografato a tradimento mentre dorme dalla sua bella. Se poi aggiungi che in quei dieci giorni abbiamo visto Salvini issato a cavallo alla fiera equina di Verona, disteso per terra sulla pista di Rho con un ciclista che lo saltava, e altro ancora. La tragicità della figura non la vedo. Ma mi rendo conto delle conseguenze di questa costante esposizione del corpo, di darsi in pasto, e mi chiedo se non sia tragico il consumo di questa figura. Per attirare la curiosità, uno deve fare delle cose strane per avere l’attenzione e connettere le persone. Ma alla lunga il troppo stroppia. Una così intensa consumazione porta al nulla.

 

MB: Dei due viceministri Salvini è senza dubbio il più interessante: fa capire di essere uno di noi; fa le cose normali di tutti e le cazzate che fanno tutti; si fa continui selfie, è un esponente di rilievo del narcisismo di massa. Poi c’è il decisionista, che ricorda Craxi, anche nelle posture. Salvini non ha però la corda comica come Bossi. È serio e vuole essere preso sul serio. Fa la faccia feroce, eppure non è fin in fondo antipatico. Con la sua barba e il viso grande è un cagnone: abbaia.

 

FC: A volte lascia pensare di non voler essere preso sul serio. Ci si domanda: ma lavorerà al Viminale? Non fa il ministro. Lui pensa di governare con le parole e con le immagini. Governare però è una cosa più complicata e difficile. 

 

MB: Di Maio vorrebbe essere più concreto. Forse dietro di lui ci sono le istanze del M5S, ma non ci riesce. Salvini non ha ideologie; è un cinico con la patente. In questo è mussoliniano, non fascista. Imita il modo cinico di Mussolini di conquistare il potere: un trasformista. Ieri nordista, oggi sovranista, e poi chissà cosa. Non ha rimandato indietro i 500.000 clandestini. L’ha detto, ma non l’ha fatto. In realtà li ha rimandati indietro con le parole. È performativo: dire è fare. 

 

FC: La realtà si prenderà la sua vendetta. Se parte lo spread e cresce, ci mette un giorno e mezzo a far precipitare la situazione. In Turchia è andata così. Tanto più tu lavori con l’innata attitudine italiana alla commedia, seppur con incursioni nel circo e nella fantascienza, e tanto più la realtà rischia di tornare in modo freddo e fattuale.

 

MB: Salvini è un giocare di poker. Rischia di continuo, bluffa. E nel fondo persegue una filosofia catastrofica, messo di fronte alla realtà: tanto peggio, tanto meglio. Nella commedia c’è l’idea di una catastrofe che può sempre accadere; il senso della commedia è di rimandare ad libitum tutto questo: senza fine. Lo spettacolo deve continuare. Tutti sperano che ci sia un happy and, che le cose alla fine s’aggiustino.

 

FC: Non manca solo il tempo lungo, manca anche il silenzio. Quello che necessariamente prepara la deliberazione. Teoricamente prima di fare una legge, di prendere una decisione, si valutano i pro e i contro, si chiede consiglio agli esperti, ai competenti, poi si decide con un supplemento di riflessione di silenzio: cosa è bene fare, e non cosa piace o non piace fare. C’è un rumore di fondo che sovrasta tutto. “Questi qua” litigano, e non sai più su cosa e perché. Pensa all’inceneritore. Litigano su come bruciare i rifiuti: è un simbolo fortissimo; disputano se dar fuoco o no alla monnezza, e poi sui preservativi, a chi dare i preservativi gratis. Nel mondo dei nuovi politici si parla usando i diminutivi: i numerini e la letterina. Là dove i primi sono i conti di bilancio del Paese e la seconda è quello che dovrebbe scrivere la UE per assegnarci le sanzioni. Un panorama ben poco sano.

 

Questo articolo è già uscito, in forma diversa, su «L’Espresso».

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