Paradisi artificiali / Oppio

21 Luglio 2018

A Gazi nell’isola di Creta gli archeologi hanno recuperato una statua del XV secolo a.C. Raffigura la dea del Sonno: un busto di terracotta sulla cui testa spuntano, come se fossero corna, tre capsule di papavero perfettamente incise, proprio come sono state descritte dai Sumeri 1500 anni prima. Probabilmente sono proprio loro i primi ad aver fatto scorrere le lacrime del papavero incidendolo in orizzontale, o in verticale, per colare la resina e poi impastarla in piccole forme, i cosiddetti pani, di colore bruno-nerastro dal sapore amaro e dal profumo dolciastro. La parola oppio viene dal greco, significa “succo”. In natura esistono più di settecento specie del genere “papavero”, tuttavia è il papavero bianco quello che possiede il nettare che dona il sonno e allevia il dolore.

 

Ricca di alcaloidi, quasi una quindicina, questa resina era conosciuta sin dalle epoche remote per le sue proprietà sedative e analgesiche, e per la virtù d’annullare l’angoscia “lasciando il posto a una calma beatifica non priva di reazioni biologiche e psicologiche negative” (U. Leonzio). Prima di diventare una sostanza per uso farmacologico, il papavero era già usato venti o trentamila anni fa in Europa sotto forma di semi. I greci lo attribuivano a Morfeo, il dio del sonno, e anche a Demetra; in mezzo alle spighe che adornavano la dea c’era quella pianta a fiore. La resina di papavero possiede virtù opposte al vino: addormenta e lenisce, là dove il vino, presente nei riti Dionisiaci, eccita e rende disinibiti. L’origine dell’oppio è senza dubbio mesopotamica; da lì è passato in Egitto e quindi verso l’India, sempre più a Oriente. Il mondo romano lo utilizza ampiamente, se è vero che Marco Aurelio ne fa largo uso in forma di farmaco e non solo. L’antica parola greca che indica il termine “farmaco”, pharmakos, ha un doppio significato: è ciò che cura e insieme ciò che avvelena. A Roma la farmacopea utilizzava l’oppio sia come strumento per sedare, e magari guarire, sia come veleno pernicioso. Serve a dimenticare il dolore, ma già Teofrasto di Lesbo ne conosce la dipendenza: “L’oppio salva da tutto tranne che dall’oppio stesso”.

 

Ph Daniel Mercadante.


L’Islam lo introduce nei suoi ricettari. Matthias Seefelder, chimico e storico, autore di un’ampia storia dell’oppio, sostiene che sia stato proprio il divieto al consumo dell’alcool di Maometto a spingere gli arabi verso l’oppio, sebbene, per via del loro temperamento poco portato alla introversione e alla fuga dalla vita quotidiana, abbiano preferito durante la conquista, scrive, una droga stimolante come l’hashish che infiamma chi deve combattere, aiuta a superare ogni esitazione e porta i soldati a non avere paura della morte. Furono in ogni caso gli Arabi a portare il papavero in India. Nella loro medicina è dunque presente, mentre è quasi assente in quella medievale, dove è citato solo in pochissimi testi. Come spiega lo psichiatra Henri Margaron è stato il cambiamento del paradigma legato al dolore a determinare la parziale eclissi dell’essudato di papavero. A Roma la cognizione naturale della malattia come malanno rendeva doverosa la cura, il combattimento con il dolore e la malattia.

 

Quando il cristianesimo introduce l’idea dell’infirmitas, quale elemento negativo e insieme strumento di redenzione, i malanni che i greci curavano con medicine vegetali – asma, insonnia, dissenteria, disturbi locali – non sono più presi in considerazione. Al concetto di terapia si sostituisce quello di caritas, considerata la maggior tra tutte le virtù. Non la cura, o le terapie antidolorifiche, bensì la preghiera e l’espiazione della colpa. Sarà Paracelso, figura decisiva nella medicina, a riportare in auge l’oppio da lui stimato quale “pietra dell’immortalità”. Così nel Seicento ricompare in Occidente insieme al laudano, soluzione di oppio in alcool. Non mancano in quell’epoca considerazioni sulle controindicazioni sull’abuso della sostanza. Due secoli dopo, nel 1830, l’Inghilterra importa dalle sue colonie 22.000 libre di oppio, diventate trenta anni dopo 90.000. Non è casuale il riferimento di Marx alla religione quale “oppio dei popoli”, nel momento in cui, osserva il filosofo, nei distretti industriali inglesi il consumo si estende sia tra i lavoratori agricoli che tra gli operai e le operaie.

 

In una pubblicazione dell’epoca si parla delle bottigliette di laudano impilate a centinaia sul banco e pronte a essere vendute il sabato, quando gli operai sciamano dalle fabbriche. Procurarsi uno stato di ebbrezza con queste bottigliette era più a buon mercato rispetto al gin, consumato largamente in Inghilterra e in Irlanda; il laudano viene dato anche ai bambini per tenerli calmi. Nel XIX secolo, scrive Seefelder, la società europea prendeva l’oppio senza troppe preoccupazioni. In questo modo cominciano a scomparire i confini tra l’uso terapeutico, per combattere nevralgie, tosse e piccoli disturbi – l’oppio era diffuso come oggi l’aspirina – e invece il ricorso all’oppio per procurarsi una sensazione di benessere. Saranno proprio i poeti e i letterati a fornire, almeno a livello di élite, le parole per dare una nuova collocazione culturale all’oppio. La droga diventa il paradigma stesso dell’immaginario durante l’Ottocento; tutta la generazione romantica lo sperimenta e ne scrive. Coleridge lo usa sin dall’età di otto anni; De Quincey redige le Confessioni di un oppiomane (1821), raccontando la dilatazione abnorme della sensibilità, dello spazio e del tempo, ottenuta attraverso l’oppio. In questo modo la droga diventa un vero e proprio “pantografo” della nuova percezione (A. Castoldi).

 

Sul piano sociale ed economico l’Inghilterra attraverso la Compagnia delle Indie Orientali realizzerà un capolavoro colonialistico: scambia con la Cina l’oppio in cambio del tè, e così accumula notevoli ricchezze. Il liquido con cui la società inglese si tiene sveglia, il tè, è acquistato in cambio della sostanza che rende sonnolento e sognatore il Celeste impero, l’oppio. La diffusione massiccia di questa droga in Occidente sarà l’effetto di due “invenzioni”: l’isolamento del morphium, la morfina, dal succo di papavero, nel 1805; e la siringa da iniezione, nel 1835 grazie a Pravaz e a Wood nel 1855. Prima di allora lo s’ingeriva o fumava. Ora entra per via endovenosa. Saranno le guerre a provocare un nuovo ampio uso dell’oppio. Nella guerra di Crimea, nella Guerra civile americana e nel primo conflitto mondiale si usa la morfina per lenire il dolore di feriti e amputati. La tossicodipendenza diventa ben presto un fenomeno di massa. La petite Pravaz, così il nomignolo della siringa, verrà amata con passione feticistica (U. Leonzio). L’oppio portato dalle carovane verso oriente torna ora come merce preziosa in occidente. Subito dopo la pace di Versailles nascono le prime leggi per disciplinarne il consumo. Nel 1934 gli Stati Uniti la proibiscono. Dalla morfina si arriva all’eroina. Come ha scritto Giulia Sissa, sarà la percezione perfettamente naturale dell’efficacia medica a costituire l’elemento che separa il drogato del XIX secolo dallo junky contemporaneo. Nel 1968 i Velvet Undeground intoneranno Eroina, nuovo oppio. 

 

Cosa leggere per saperne di più

 

Matthias Seefelder, Oppio, Garzanti, è lo studio storico più ampio; Ugo Leonzio, Il volo magico, Einaudi; Henri Margaron, Le stagioni degli dei, Cortina Editore; il bellissimo libro di Wolfgang Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari, Bruno Mondadori; Brian Inglis, Il gioco proibito, Arnoldo Mondadori, vecchio libro ricco di riferimenti e informazioni; sul rapporto tra letteratura e droga: Alberto Castoldi, Il testo drogato, Einaudi, una storia dettagliata; Louis Lewin, Phantastica. Euforizzanti, Savelli Editore. Giulia Sissa ha pubblicato Il piacere e il male, Feltrinelli, libro molto importante sul tema del rapporto tra droghe e piacere.

 

Questo articolo è uscito in versione più breve su La Repubblica, che ringraziamo 

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