Fermare il tempo

5 Marzo 2015

Havana Night Shot, 2008, ph. Adam Grossman Cohen

 

Adam Grossman Cohen, nato a New York nel 1954, fotografo e filmmaker, autore di tre elegie cinematografiche visionarie e struggenti, Blind Grace (1993), Fire of Time (2000), Blind Witness (in progress) e di un documentario sperimentale, No Peace Without War (2012), co-diretto insieme a Lorenzo Castore, vive e lavora a Berlino, sua città di temporanea e forse involontaria elezione. Di sé dice: “Lavoro in un territorio che si colloca da qualche parte tra cinema, pittura e fotografia. I miei film si incentrano sulle città, su memoria e oblio, storia e entropia”.
 

È lui stesso a dichiararsi, lucido e ossessivo, un uomo senza casa, sospeso nel tempo, come se la storia gli avesse negato ogni appartenenza. È attorno a questo nucleo, un vuoto popolato di presenze impalpabili o di ombre indelebili, che bisogna indagare. Perché è da qui che scaturiscono le sue immagini sgranate, spettrali, erose, insidiate da una stratificazione lenta e implacabile, morenica, e i suoi labili, abbuiati trittici metropolitani.

 

Tryptich, Manhattan 1993-Berlino 2014, ph. Adam Grossman Cohen

 

 

 

Subway Tryptich, Manhattan 1985-Brooklyn 2000, ph. Adam Grossman Cohen

 

E deve avere origine qui la sua passione nient’affatto nostalgica per le immagini e gli oggetti minuti del passato, il proprio e l’altrui, immersi – gli uni non meno degli altri – nella nebbia che avvolge le persone e le cose che ci hanno preceduti o ci sono passate accanto, e alle quali non possiamo accedere se non attraverso un atto potente di immaginazione e di narrazione. Di ‘collezione’.

 

Adam Grossman Cohen, nella sua opera così come nella vita, ‘raccoglie’ e accosta, come se volesse sottrarre alla loro muta insignificanza i detriti di storie private che nessuno è più in grado di ricostruire. Un gesto gratuito e misericordioso, forse destinale: radunare, custodire, ordinare in sequenze possibili le tracce di ciò che è stato e che il tempo e la memoria breve degli uomini rendono indecifrabili e poi cancellano. La sua casa, gli schedari cartacei, la memoria del suo computer traboccano di queste reliquie infinitesimali: migliaia di fotogrammi ‘scorporati’ da ore di riprese (in video digitale e pellicola Super 8) nelle strade di New York, Barcellona, Cracovia, L’Avana, Porto, Berlino, ma anche fotografie trovate nei mercati delle pulci di mezza Europa, lettere, citazioni, immagini scaricate da internet, appunti personali, anonime pagine di diario.

 

Havana, Cuba 2008-Berlino 2013, ph. Adam Grossman Cohen

 

Che cosa lo spinge a intrecciare alle proprie immagini la materia oscura e sfocata di esistenze che non sono la sua? Qual è l’impulso che lo obbliga a tornare e ritornare sul passato, come se a guidargli lo sguardo fosse l’angelo della storia di Benjamin, che “ha il viso rivolto al passato” e al posto di “una catena di eventi, vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”? Perché, come la figurazione benjaminiana, sembra volersi “trattenere, destare i morti e ricomporre l’infranto”?

 

Nella sua opera trasparenza e stratificazione si tengono. Raggiunta attraverso una spasmodica dilatazione dei tempi di esposizione, la loro compresenza è la prova che il Tempo è uno spazio ospitale: trattiene e ricompone. Ecco perché va trattenuto.

 

 

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Da sinistra: Coney Island, 1947; New York Street, 1948, ph. Sid Grossman (per gentile concessione della Howard Greenberg Gallery, New York)

 

Sid Grossman, nato a New York nel 1913, morto nel 1955, fotografo, insegnante di fotografia, attivista sociale.

 

Nel 1936, insieme a Sol Libsohn, crea la New York Photo League, una cooperativa di fotografi il cui principio ispiratore è l’‘onestà fotografica’. Gli Stati Uniti, in piena depressione economica, pullulano di disoccupati e senza tetto. È quello il mondo che gli uomini e le donne della NYPL vogliono raccontare. Senza abbellimenti e distorsioni, senza spettacolarizzarlo. È una radicalità politica, quella di Sid Grossman e dei suoi compagni d’avventura e sostenitori – tra cui Walter Rosenblum, Eliot Elisofon, Morris Engel e, più tardi, Aaron Siskind, Jack Manning, Lou Bernstein, Arthur Leipzig Lisette Model, Margaret Bourke-White, W. Eugene Smith, Weegee, Harold Feinstein – che nasce dal rispetto per la nuda vita dei loro soggetti. La quotidianità va documentata così come è, senza metterla in posa, ritoccarla, manipolarla.

 

Se non disponessimo della splendida, austera, produzione fotografica iniziata e coltivata da Grossman e dai suoi compagni, oggi sarebbe impossibile ricostruire con tanta precisione l’atmosfera, gli umori, la sofferenza e la vitalità di quegli anni di storia statunitense. Eppure, non appena si conclude la Seconda guerra mondiale e inizia la guerra fredda, sarà proprio la passione di realtà del gruppo a portarlo a poco a poco al disfacimento. Troppo impegnati sul piano sociale i suoi membri, troppo critici rispetto allo status quo, per non suscitare l’attenzione della sempre più occhiuta e paranoica vigilanza governativa, per non essere sospetti di ‘comunismo’.

 

È una storia fitta di cedimenti e di qualche tradimento, devastante. Nel 1951 la NYPL si scioglie e Sid Grossman, che ne è stato la vera anima, ne esce segnato per sempre, ferito a morte. Il suo lavoro di fotografo, in quegli anni amarissimi, subisce una trasformazione stupefacente. Mentre lotta per difendere una visione realista e dunque non neutrale del mondo, guarda, inquadra, taglia in modo sempre più soggettivo, creando immagini quasi astratte, sghembe, fortemente anticipatrici.

 

Si veda la “ragazzina che salta” del 1944-45, un’ombra bianca disegnata su un muro, liquida e incostante come un’impronta sul punto di svanire, un puro segno. O la “bambina con conchiglie” del 1953, presenza evanescente, sopraffatta dal biancore abbagliante dei gusci vuoti in primo piano. O ancora i “gabbiani sull’acqua a Provincetown” del 1953, vorticoso gioco di luci e riflessi che ribalta i piani prospettici, producendo un misterioso scivolamento del dentro nel fuori, del sotto nel sopra.

 

 

Da sinistra: Jumping girl, Panama, 1944-45; Girl with seashells, 1953, ph. Sid Grossman (per gentile concessione della Howard Greenberg Gallery, New York)

 

Gulls over water in Provincetown, 1952, ph. Sid Grossman (per gentile concessione della Howard Greenberg Gallery, New York)

 

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Sid Grossman, che cresce senza padre (Morris Grossman lascia il tetto coniugale o muore quando i quattro figli sono ancora bambini), nel 1954 mette al mondo Adam. All’epoca ha quarantun anni, è sposato in seconde nozze con la giovane Miriam Echelman, incontrata in una delle sue classi nel ‘47. Il ‘49, anno del loro matrimonio, è anche l’anno in cui chiude con la NYPL.

 

Finito nella lista nera, la sua carriera professionale si sta disintegrando: nessuno gli offre più incarichi lavorativi. Eppure è il periodo più fertile e creativo della sua vita di fotografo. Dal ’46 al ‘48 lavora contemporaneamente a cinque progetti: Folksingers, Coney Island, New York Recent, Mulberry Street, Legion. Gli impediscono di guadagnarsi da vivere con la fotografia e lui sfrutta quella durissima libertà per elaborare uno stile tutto suo, innovativo, ardito, spericolatamente sperimentale. Sembra che fotografi solo per sé e per chi verrà molto dopo di lui, in un tempo di là da venire.

 

Lo ritroviamo, nelle foto fattegli da Harold Feinstein a Provincetown nell’estate del ‘55, insieme al figlio, un bimbo che gli somiglia come una goccia d’acqua. Sono ritratti teneri e struggenti, gli ultimi. Sid morirà d’infarto il 31 dicembre del ’55, a quarantadue anni. Adam deve ancora compierne due.

 

Da sinistra: Sid Grossman e il figlio Adam sul trattore; Sid Grossman stringe tra le braccia il figlio Adam, Provincetown, 1955, ph. Harold Feinstein

 

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Cerco di rintracciare il filo profondo che da quella perdita originaria si dipana nell’opera di Adam Grossman Cohen a distanza di quasi sessant’anni. “Mio padre, a curse and a blessing”, una disgrazia e una benedizione, mi dice sfogliando sullo schermo del computer le immagini realizzate a Little Italy negli anni Novanta newyorkesi, durante la festa di San Gennaro. “Volevo tornare sui luoghi già fotografati da lui, affrontare al riparo della macchina da presa quella folla che mi faceva paura.”

 

La macchina mette a fuoco gli stessi rituali, lo stesso mix di religiosità e superstizione: a complicarne la visione è certo il filtro dell’epoca, ma anche quel misurarsi con l’occhio paterno senza spogliarsi della propria alterità. Le immagini del padre e del figlio sembrano intrattenere un dialogo: carnevalesche le prime, traboccanti di una sfrontata energia sensuale; allarmate le seconde, oblique, di fronte a quello scatenamento dei corpi, alla loro aggressività erotica.

 

C’è, nelle immagini del figlio, un traumatismo residuale, uno spaesamento, come se il suo occhio fosse addestrato a posarsi sui margini, a indugiare sul limine del fuori scena, a fissarsi sul gesto infinitesimale che fa da spia a ciò che è andato perduto eppure permane. Uno strappo, una smagliatura nel tempo, che solo l’immagine può lenire.

 

 

 

Havana, Cuba 2008, ph. Adam Grossman Cohen

 

Nel 2007 Adam va a Łódź, in Polonia. Lì, in quel margine d’Europa, in una zona imprecisata dell’ex impero austro-ungarico, o forse in Ucraina o in Galizia, affondano le radici familiari dei suoi genitori. E lì vengono estirpate due volte: prima dalla miseria che spinge a migrare verso l’America, poi dalla pulizia etnica nazista.

 

“Una notte, mentre percorrevo il perimetro originale del ghetto ebraico, il più grande del paese, secondo solo a quello di Varsavia”, racconta l’artista, “mi sono messo a filmare in video. Non sapevo esattamente perché, sapevo solo che dovevo farlo”. Segni tracciati nel buio per disseppellire la figura paterna o forse darle amorosamente sepoltura, ricomponendo una storia che, non più solo privata, si sfilaccia in un doppio transito, in un duplice e irreparabile taglio.

 

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Nel 2016 “Les Rencontres d'Arles” ospiteranno una grande retrospettiva – oltre cento stampe – dell’opera di Sid Grossman. La mostra sarà preceduta dalla pubblicazione del volume The Life and Work of Sid Grossman (HG Library/Steidl), introdotto magistralmente da Keith F. Davis.

 

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