I segreti del Clan Nabokov

13 Agosto 2022

Dice il saggio: meglio non conoscere troppo di vita, morte e miracoli del proprio scrittore preferito. Metti, dunque, che il prediletto sia il novellista, saggista, critico letterario, poeta, drammaturgo, traduttore Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899-1977): hai letto Lolita e vuoi saperne di più. Non sei sazio e affronti Ada o, che so, L’originale di Laura, il romanzo incompiuto, quello che l’autore voleva che fosse dato alle fiamme, ma che invece il figlio Dmitri darà alle stampe, facendolo uscire postumo per foraggiare il suo costoso stile di vita. 

Ma cosa accade se vuoi andare oltre alle opere e addentrarti nelle tortuosità della vita quotidiana del tuo beniamino, oscillante tra paranoie linguistiche (cagione di incubi per generazioni di traduttori nabokoviani) e osservazioni scientifiche sugli organi sessuali dei lepidotteri (negli anni quaranta del Novecento Nabokov fu Research fellow presso il dipartimento di Entomologia del Museo di Zoologia Comparata dell’Università di Harvard), le cui ricerche erano interrotte, nei giorni di pioggia in cui non poteva andare a caccia di farfalle, da approfonditi studi di mosse scacchistiche (su cui scriverà anche un romanzo, La difesa di Lužin). 

La possibilità di sbirciare dietro l’ufficialità letteraria di Vladimir Nabokov e famiglia è data dall’uscita del libro Il Clan Nabokov. Sottotitolo: Quando l’erede è il traduttore (Edizioni Mimesis) di Chiara Montini, appassionata traduttrice e ricercatrice, in cui l’attenta studiosa di multilinguismo e letterature comparate traccia una biografia collettiva del trio padre-madre-figlio, oscillante tra il rigore accademico e il tono divulgativo del segugio letterario che lascia cadere, qua e là, indizi preziosi che accendono la curiosità di andare a frugare dietro le quinte di vite eccellenti.

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Letteratura e servizi segreti

E così finisci per aggirarti tra le pieghe del rapporto di dipendenza di Vladimir con la ferrea moglie-musa, Véra, «una donna snella, di carnagione chiara e dai capelli bianchi che in nessun modo può ricordare Lolita» (così la descriverà il New York Post), il deus-ex-machina dietro il lavoro del Maestro che, senza di lei, Vladimir se la scordava Lolita. E non puoi mancare la storia della burrasca ormonal-sentimentale scatenata, sullo sfondo di una romantica Parigi d’ante guerra, dagli occhi “blu come il Mediterraneo” di Irina Guadanini, l’amante di Vladimir, emigrata russa di padre italiano, che si guadagnava da vivere come toelettatrice per cani: non a caso i levrieri afghani, i preferiti dall’aristocrazia zarista, erano numerosi in città.

Ma del Clan Nabokov finisci soprattutto per conoscere le prodezze di Dmitri, viziato e problematico figlio unico, incerto se fare l’alpinista, il cantante d’opera, il pilota professionista (di auto o fuoribordo) o, molto più semplicemente, dedicarsi alla gratificante attività di playboy e seduttore seriale. Finirà per fare il traduttore (e cane da guardia) delle opere del padre, grazie alla cui fama e ai diritti d’autore riesce a tamponare uno stile di vita a dir poco dispendioso. 

E scoprirai anche l’ombra della CIA che si allunga sulla famiglia Nabokov, con Nicolas, cugino di primo grado di Vladimir, attivo collaboratore del CCF (Congress for Cultural Freedom, un’organizzazione culturale anticomunista che si rivelerà finanziata dalla CIA), e sullo stesso Dmitri che, anni più tardi, racconterà in un’intervista, citata da Montini, che durante il suo soggiorno in Italia aveva lavorato per i servizi americani. «Negli anni sessanta, il Paese stava deviando a sinistra e il pericolo era reale. La mia missione consisteva nel trovare sostegni a favore dei partiti della destra, nel provare a capire le loro intenzioni nel tentativo di cambiare qualche cosa. Era complicato come un gioco di scacchi». 

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Talmente complicato che qualcuno decide di toglierlo di mezzo sabotando una delle sue cinque Ferrari che –  mentre si sta arrampicando a grande velocità su una strada di montagna svizzera che collega Montreaux, dove vive, a Losanna – esce rocambolescamente e rovinosamente di strada (gli avvelenamenti al polonio, in stile putiniano, devono ancora essere inventati, e i crani spaccati con le piccozze sono fuori moda dai tempi di Trotsky). 

Le conseguenze dell’incidente sono devastanti: «Ho il collo fratturato a livello dell’odontoide, e mi verrà poi riferito che un movimento incauto avrebbe provocato la paralisi immediata del diaframma (…) Il dodicesimo giorno, per un breve istante, sono clinicamente morto. Una luce accecante mi chiama verso la fine del classico tunnel, ma all’ultimo istante il pensiero delle cose importanti che mi restano da compiere mi trattiene (…) Esco dall’ospedale con nuove priorità: ho deciso di dare il mio miglior contributo dedicandomi alla scrittura, quella di mio padre e la mia». Comunque, per non smentirsi, acquisterà una nuova Ferrari, «più veloce, più blu».

Vivere tra le lingue

Scoprirai anche un clan familiare che, esule, scrive Chiara Montini: «vive tra le lingue e attraversa il mondo sul mezzo di trasporto più ecologico che conosca: la traduzione». Arte che, per l’autore di Lolita, è ben più che una semplice tecnica, o strategia, o professione: è uno stile di vita, di pensiero, un’ossessione, un tarlo, un tormento, un’estasi esotericamente fideistica la cui fiaccola sarà passata al figlio Dmitri che, nel gestire le traduzioni e edizioni delle opere del padre, ne sarà custode e cerbero. 

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Ne seppe qualcosa Roberto Calasso – editore di Adelphi che oggi pubblica praticamente tutte le opere del Maestro di San Pietroburgo – che dovette battagliare su ogni sostantivo, aggettivo, avverbio che l’Erede non riteneva consono al mito letterario del padre, e finiva regolarmente per chiedere la testa del malcapitato traduttore di turno. Dmitri riteneva che Calasso, ricorda Montini, non sapesse scegliere traduttori e traduttrici competenti, e lo accusava di essere «un uomo di pochi scrupoli dall’ego colossale». E lo minaccia: «Esigo collaboratori [leggi: traduttori] qualificati, costanti, psichicamente equilibrati, basta me ne vado». Poi non se ne va e, fatti due conti, scende a più miti consigli. 

Véra Evseevna Slonim 

Scrittura e traduzione si intrecciano, dunque, nella vita della famiglia Nabokov. Nel 1923, il ventiquattrenne aristocratico Vladimir abbandona la Russia, in seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917. Con la famiglia emigra prima in Gran Bretagna (dove studierà al Trinity College di Cambridge), poi a Berlino, rifugio privilegiato della diaspora russa dove, in quegli anni, si contano almeno quattrocentomila emigrés. Sbarca il lunario scrivendo racconti e poesie firmandosi con lo pseudonimo di Vladimir Sirin per distinguersi dal padre noto giurista. Ed è qui che conosce, e sposerà, nel 1925, Véra Evseevna Slonim, esule russa di origini ebree, più giovane di un paio di anni, donna che descrivere come riservata sarebbe un eufemismo (oggi diremmo control freak).

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Véra ha la tendenza a smentire qualsiasi cosa la riguardi, distrugge tutte le lettere scritte a Vladimir, cancella ogni sua traccia scritta, compresi persino i saluti sulle cartoline indirizzate alla madre. Veglierà fino alla fine affinché la fama del marito fosse ricordata senza macchia; affinché il Grande Autore, perfettamente trilingue (parlava russo, francese, inglese), non fosse distratto da inutili incombenze quotidiane e che, soprattutto, si ravvedesse della sua innata anima indisciplinata e poco zelante. È la sua agente, la sua archivista, portavoce, autista, guardia del corpo (girava regolarmente armata), legge per prima i suoi scritti, gestisce i rapporti del marito con gli editori (è lei che, personalmente, va in giro a presentare le 459 cartelle dattiloscritte di Lolita che non potevano essere inviate per posta a causa del Comstock Act del 1873 che considerava criminosa la distribuzione di oscenità di qualunque tipo tramite il servizio postale), controlla le traduzioni, copia a macchina i manoscritti, apre la sua posta e si occupa di rispondere. E, non dimentichiamo, gli dà un figlio, l’Erede, l’adorato Dmitri. Insomma, come dicevamo poc’anzi, non è certo la ninfetta dodicenne che ci si aspetterebbe di trovare a fianco dello scrittore. Dal canto suo, Vladimir, quando si rivolge a lei, la ricambia usando una cornucopia di nomignoli, un “bestiario di amorevoli diminuitivi”: topina, scimmietta, bestiolina di fuoco, ciuffetto, cuccioletta, insettino, passerotto, galletta, mia fiaba.

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L’imperativo dell’esattezza

I Nabokov, dalla Germania si trasferiscono in Francia, ma quando l’aria in Europa diventa nazisticamente pesante si spostano negli Stati Uniti. Dapprima a Wellesley, dove Nabokov insegnerà letteratura russa, inorridendo delle traduzioni dei testi in programma, che siano Il cappotto di Gogol, o il Festino in tempo di peste di Puškin. Tutte opere che ritradurrà in modo radicalmente letterale sulla base dell’«imperativo dell’esattezza». Perché, dice (e teorizzerà in The Art of Translation, saggio del 1941), il traduttore deve restituire fedelmente il testo, anche con quelle ripetizioni che tanto irritano il purista. Insomma, Nabokov, avverte Chiara Montini, non ha alcuna intenzione di adattare il testo tradotto alle esigenze del lettore, né al bello stilo: predilige la letteralità testuale all’eleganza stilistica. «Per lui la traduzione non è un nuovo testo, ma un’umile ancella al servizio dell’originale». 

Dmitri, l’Erede e traduttore preferito di Nabokov

Ma è Dmitri il clou del libro, colui che Chiara Montini segue passo-passo nella strada intrapresa per diventare, bon gré mal gré, il “traduttore preferito” del padre. Personaggio irritante, volubile, sfaccendato, pedante, viziato (soprattutto dal padre). In una parola: tragico. Sbarcati negli Stati Uniti, Vladimir e Véra lo preparano a diventare cittadino americano. Lo iniziano ai segreti del baseball e gli mostrano come stringere la mano con anglosassone vigore, guardando negli occhi l’interlocutore. Annota Montini: «Sono gli anni cinquanta, il boom economico, l’ottimismo e la forza d’animo, nonché quella fisica, sono le caratteristiche per riuscire in un’America espansionista». La forza fisica, oltre oceano, è oggetto di vanto e Dmitri non si tira indietro. Predilige l’alpinismo rischioso e adrenalinico. Il padre gli insegna i rudimenti della boxe, del calcio, del tennis, dello sci. Distrugge tre auto, una dietro l’altra e, da una lettera di Vladimir alla sorella, si apprende che Dmitri «si accinge ad acquistare un aeroplano usato», dopo aver preso parte a una spedizione su montagne della British Columbia. Prima ancora aveva costruito una strada nell’Oregon manovrando un gigantesco camion. 

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La passione per le auto non lo lascerà mai. Con una Triumph TR-3 parte da Southampton alla volta dell’Italia dove, in Lombardia, sorpreso da un fitto muro di nebbia, rischia di schiantarsi. Monza con il suo autodromo è una sorta di Sacro Graal dove amerà scatenare la potenza del suo parco macchine che, via, via, si arricchirà, fra le tante, di una Ferrari GTO, una Porsche 904 e una Ford GT-40. Lì, farà amicizia con Lorenzo Bandini, il pilota della Ferrari che morirà in un terribile incidente nel corso del Gran Premio di Monte Carlo del 1967. Anche Dmitri, come abbiamo visto, rischierà la vita nell’incidente stradale causato da un sabotaggio alla sua auto. Quell’episodio, ricorda Chiara Montini, sortirà un effetto catartico. «Di fatto», scrive lui «mi dedicherò principalmente all’attività letteraria, ma accetterò volentieri alcuni ruoli speciali che mi vengono proposti per il canto».

Dunque, una volta guarito, Dmitri si immolerà all’opera del padre, dapprima accanto alla madre, poi da solo, con un ottimismo, annota Montini, che ricorda quello del padre. Lui sminuisce le conseguenze dell’incidente, non vuole mostrare debolezze, ma è il cugino Ivan che, nelle sue memorie, sostiene che, dopo di allora, Dmitri non era più lo stesso. Abbandonò il canto e l’opera, ma soprattutto lasciò la sua Lamborghini verde smeraldo – un modello estremamente raro il cui valore si aggirava, al cambio di oggi, intorno ai trecentomila euro – davanti alla casa di Montreux senza più toccarla. «L’auto vi rimase fino alla sua morte, una trentina di anni dopo, a deteriorarsi col trascorrere delle stagioni che, succedendosi, vi riversavano sopra il loro tributo di neve, pioggia e vento. E questa magnifica carlinga si accasciò, con le gomme pietosamente a terra, come se Dmitri si compiacesse a vedere, giorno dopo giorno, il simbolo concreto e pericolante del suo fallimento e della sua decadenza».

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