Le teste rotolano

24 Agosto 2011

Le teste rotolano. A ogni rivoluzione i rivoltosi e i rivoluzionari si avventano sui simboli del passato regime: abbattono statue, rovesciano monumenti, sbriciolano emblemi e insegne. Ma è dalla metà del XX secolo che le sculture marmoree o bronzee dei capi sono state deliberatamente prese d’assalto, colpite e ridotte a terra. E non solo quale opera di iconoclastia del vecchio potere, ma come effettiva azione sostitutiva dell’aggressione al corpo stesso del re, del tiranno o del despota. La statua di Mu’ammar Abu Minyar ‘Abd al-Salam al Qadhdhafi, meglio la sua testa dorata, giace ora a terra in una evidente decapitazione in assenza, per il momento, del suo corpo fisico.

 

 

Il potere simbolico dei monumenti dei dittatori è tale che nel 1956, nel corso della rivolta ungherese, schiacciata dai cingoli dei carri armati sovietici, il popolo di Budapest rischiò la vita per demolire la gigantesca effige del dittatore di Mosca eretta nel centro della città. L’abbattimento della scultura era una risposta al potere idolatrico di Stalin, così che correre a picconarla sotto il tiro dei cecchini aveva il valore di un esorcismo contro al sua perdurante presenza, come ricorda Deyan Sudjc nel recente Architettura e potere (Laterza). In quella occasione gli abitanti della capitale ungherese ricorsero, tra i colpi di arma da fuoco, a scale, funi, fiamme ossidriche, e occorsero molte ore di duro lavoro per vederla schiantare al suolo. La testa sbrecciata del capo sovietico, il cui nome, Stalin, significa non a caso acciaio, baffuta e sorridente, fu vandalizzata e presa a calci, e vi fu persino chi vi defecò sopra per spregio. La medesima cosa è accaduta dopo la caduta del Muro nei vari stati satelliti del potere sovietico. La prima cosa che i rivoltosi fanno, una volta conquistato il campo, è infatti avventarsi sul corpo metallico del Capo che con la sua presenza fisica campeggia nel centro della piazza principale della capitale. Nella Cecoslovacchia, cui era toccato un destino analogo a quello dell’Ungheria, del monumento a Stalin a poche ore dall’evaporare dell’Impero non era rimasto che il piedistallo.

 

 

Una forma di damnatio memoriae che affonda le sue radici nella storia antica dell’umanità, un tempo operata dai vincitori nei confronti dei vinti, ma che, a partire dalla Rivoluzione francese, ha invertito il suo corso e si è diretta in modo inequivocabile verso i Re e i Capi. A Notre Dame nel 1789 furono picconate dalla folla inferocita le sculture dei personaggi regali dell’Antico testamento scambiate per i discendenti di Capeto.

 

 

Sudjic racconta che all’epoca della seconda Guerra del Golfo i consiglieri di George Bush senior avevano osservato a lungo e con attenzione i vecchi cinegiornali, che ritraevano l’abbattimento delle statue di Stalin, così da voler far riprodurre la medesima scena a Bagdad, fotogramma dopo fotogramma, per l’atteso gran finale della invasione dell’Iraq.

 

 

Ma mentre i ribelli ungheresi non ebbero bisogno di nessun aiuto per travolgere le statue del Segretario Generale del Pcus, l’iconoclastia nella capitale irachena ebbe bisogno degli esperti della guerra psicologica dell’esercito americano, che diedero il loro contributo fisico per averla vinta dell’effige in bronzo di Saddam Hussein. Da allora ogni rivoluzione che si rispetti ha tra i suoi must la caduta bronzea del tiranno, decapitazione compresa. La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma ha oramai anche lei le sue regole fisse, e persino le sue mode.

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