16 gennaio 1933 - 16 gennaio 2017 / Susan Sontag. Nel campo del desiderio

16 Gennaio 2017

Oggi Susan Sontag avrebbe compiuto ottantaquattro anni. E invece se n’è andata dodici anni fa, dopo una lunga malattia, un cancro, di cui ha anche scritto (Malattia come metafora, Einaudi): un altro capitolo della sua lotta contro il mondo, e prima di tutto contro se stessa, un altro esempio della sua moralità. Per la scrittrice, saggista e regista americana la “moralità” è stata prima di tutto un comportamento; meglio: “una forma di azione, non un particolare repertorio di scelte”. Ma Susan Sontag è stata attenta al tema dell’estetica: la forma. Ne ha fatto il centro della sua indagine. E per lei etica ed estetica sono sempre state collegate. Nove anni fa, quando è uscito postumo uno dei suoi libri più belli, Nello stesso tempo (Mondadori), avevo scritto che v’era antagonismo tra la forma di coscienza rivolta all’azione, che è poi la moralità, e “quel nutrimento della coscienza che è l’esperienza estetica”. Credo che sia proprio così.

 

Perché questo conflitto? Perché Susan Sontag è stata non solo una scrittrice ma prima di tutto una intellettuale nell’epoca in cui veniva decretata la scomparsa di questa figura. Lo è stata come Pasolini. Lo stile, da lei perseguito con costanza, è la sintesi di etica ed estetica. In Sullo stile, il titolo di uno dei suoi saggi più noti, scrive che l’arte è morale in quanto riavvicinamento alla nostra sensibilità e della nostra coscienza. Leggendo Nello stesso tempo mi ero reso conto ancora una volta che Susan Sontag è stata una scrittrice e saggista pratica. Nel saggio che dà il titolo a quella raccolta di testi, scrive una cosa che mi fa sempre  pensare: “I narratori seri pensano ai problemi morali in termini pratici”. Che significa: raccontano sempre storie in cui possiamo identificarci, anche quando le vite narrate sono molto lontane dalle nostre; stimolano così la nostra immaginazione e “educano la nostra capacità di giudizio morale”. Educare: un verbo che non è molto usato dagli scrittori, o almeno non in questo significato. Quando sento quel verbo – educare – mi viene sempre in mente il finale de I sommersi e i salvati di Primo Levi, là dove parla dei nazisti e dice che non erano dei mostri – neppure Eichmann probabilmente lo era –, ma che erano stati educati male. Per educare, ed educarci, ci vuole sia l’etica che l’estetica. E la bellezza, che le unisce. Anche se Susan Sontag ne diffida, ma non può fare a meno di evocarla, di cercarla, la bellezza dello scrivere, prima di tutto. Le belle frasi, che non significa frasi eleganti (uno scrittore non scrive bene, semplicemente scrive: questo esattamente è lo stile). Frasi efficaci, come dice Susan Sontag, e perciò morali. Senza dubbio è stata una formidabile scrittrice di frasi. Il suo modo di scrivere e raccontare procede per cerchi concentrici: si avvicina progressivamente al centro di quello che vuol dire, ma non lo raggiunge mai; in quel procedere aggiunge però qualcosa d’indispensabile: ci aiuta a comprendere il mondo che è complesso, inafferrabile; eppure è sempre lì, davanti a noi. Le sue frasi, spesso quasi degli aforismi, ce lo mostrano, ce lo fanno vedere. Per questo Susan Sontag ha sempre tenuto in sospetto la fotografia, su cui ha scritto uno dei libri più importanti degli ultimi cinquant’anni: Sulla fotografia (Einaudi), libro inimitabile. Le fotografie – parla spesso di fotografie al plurale – ci aiutano a vedere il mondo e al tempo stesso lo ottundono, “identificano gli eventi” e nel contempo li anestetizzano. Banalizzano tutto. Lo dice in Fotografia: una breve summa, compresa in Nello stesso tempo. Eppure lei stessa ha raccontato che è stato proprio vedendo delle fotografie negli anni Quaranta, subito dopo la guerra, in una libreria in California, che ha avuto il primo shock della sua vita, da adolescente. Erano le foto dei Lager nazisti, dei sopravissuti allo sterminio ritratti dai reporter americani al seguito delle truppe vincitrici: mucchi di cadaveri accatastati. Un rapporto complesso quello con la fotografia, lo stesso che ha avuto John Berger, anche lui autore inimitabile, suo amico e complice in questa sintesi pratica di moralità ed estetica. Amare la fotografia e al tempo stesso diffidarne. Bisognerebbe fare così con tutto? Anche con la letteratura?

 

Susan Sontag non ha una risposta unica o semplice, per questo è affascinate. Non ci lascia tranquilli. Problematizza tutto, perché la prima problematica è lei stessa. Ripete con forza: scrivere è necessario, perché è una forma di resistenza al mondo delle immagini. Una lezione. Ama le immagini ma ne diffida, le esalta, ma si difende dalla sua stessa esaltazione. Questa è la sua moralità, questa è la sua estetica. Ma qual è in definitiva il fondamento della sua opera e anche della sua persona? Qui cade una questione fondamentale. Non facile da capire, non facile da dire. Ci aiuta un libro apparso qualche mese fa: Odio sentirmi una vittima (il Saggiatore). Si tratta di una lunga intervista con Jonathan Cott, un collaboratore del New York Times e del New Yorker, giornalista scrittore. Di lui si ricordano due altri libri: le conversazioni con John Lennon e Yoko Ono, e quella con Glenn Gould. Nel 1978 Cott ha pubblicato sulla rivista Rolling Stone una lunga intervista con Susan Sontag. Non era apparsa completa, solo una riduzione dei nastri registrati tra Parigi e New York in anni precedenti. Tre anni fa la versione integrale è stata finalmente pubblicata in America, ora tradotta in italiano. Sulla copertina figura un’immagine di Susan Sontag. Una bellissima immagine, perché Susan è sdraiata. Ha le mani dietro la testa, sembra sorridere, ma non lo fa davvero. L’hanno scattata il momento prima che lo faccia, o che non lo faccia. Le ridono gli occhi, non le labbra che sono grandi e carnose: serrate. L’ha scattata nel 1975 Peter Hujar. È stata presa negli anni della malattia.

 

   

 

Tra il 1974 e il 1977 Susan Sontag si era sottoposta a un’operazione chirurgica e alla chemioterapia: tumore al seno. In questa foto conserva ancora qualcosa della ragazza. Ha poco più di quarant’anni, ed è bella. Proprio in questa intervista da cui emerge sin dalla copertina nella sua fisicità, Susan Sontag affronta una delle questioni che sottendono il suo scrivere: il rapporto tra pensiero e sentimento. Qui sta la chiave di volta, l’arco che congiunge etica ed estetica. Lei sta dalla parte di entrambe, come spiega, “nello stesso tempo”. C’è, dice, nel pensiero occidentale una concezione anti-intellettualistica: “cuore e testa, pensare e sentire, immaginazione e giudizio…”. Lei non crede che queste contrapposizioni siano vere. Continua: “Abbiamo più o meno gli stessi corpi, ma i nostri pensieri sono molto diversi”. Sta parlando degli uomini e delle donne. Ma dice anche una cosa che va ben al di là del genere. Trascrivo le frasi: “Credo che per pensare ci serviamo molto più degli strumenti forniti dalla cultura che di quelli offerti dal corpo, e nasce qui la grandissima varietà che esiste al mondo. Ho l’impressione che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero”. Una bellissima frase, che fa riflettere. Il pensiero non solo nasce dal sentimento, ma ne è una forma. Sentire è pensiero; meglio, una “forma”. La forma è il problema di chi scrive, e si scrive perché si sente: sentimento. Per non lasciare dubbio alcuno, fa un affondo al riguardo. Quello che lei fa – scrivere o girare un film –, spiega, sono “trascrizioni di qualcosa”. Quando ho letto questa frase ho pensato a Pasolini. Anche lui non ha fatto altro: trascrivere. Poi il discorso scivola verso una zona fondamentale per la scrittrice americana, quella che riguarda l’amore. Cosa c’entra l’amore con il pensare? Susan Sontag prova a spiegarlo. Quello che faccio, dice ancora, non è il risultato di un processo puramente intellettuale. Amare qualcuno, specifica, presuppone la comprensione e “amare qualcuno implica pensieri e giudizi di ogni sorta”. Qui cade la frase chiave di Susan Sontag, quella che ci spiega in cosa consiste il suo pensare e il suo scrivere: “esiste una struttura intellettuale del desiderio fisico, sessuale”. Per comprendere la sua opera, i saggi che ha scritto, come i romanzi, i film girati come gli allestimenti teatrali, bisogna considerare la natura sessuale del suo intelletto, e anche la struttura intellettuale del suo desiderio fisico. Senza questo non ci sarebbe alcun vigore, alcuna “forma”. Questa frase, l’intero passo, è illuminante. Perché non pone questioni riguardanti il genere: non separa pensiero-maschile da sentimento-femminile. Scambia le due cose. Crea un chiasmo. Le due cose sono intrecciate. Leggendo le sue pagine, libri come Contro l’interpretazione o Sotto il segno di Saturno, o ancora Stili di volontà radicale, si è colpiti dalla “struttura intellettuale” delle sue argomentazioni e insieme si capisce che sono pieni di desiderio.

 

Scrive usando il desidero, pur mantenendolo in stretta connessione con quella struttura di pensiero. Di più: la struttura intellettuale è solo l’impalcatura su cui si arrampica il desidero, prende forma. Il desiderio fisico. Chiunque li legga non può non accorgersi di questa forza. La moralità e l’estetica sono tenute unite da quel desiderio fisico, che è desiderio sessuale. Può sembrare un paradosso, dal momento che siamo abituati a pensare la moralità come desessualizzata e l’estetica erotizzata. Susan Sontag fa ruotare di 180 gradi le due cose: sessualizza la moralità e desessualizza l’estetica. Le riesce proprio perché non abbandona mai il campo del desiderio, ma lo istituisce dentro una struttura intellettuale. Una griglia. In un passaggio della intervista con Cott, la scrittrice ricorda un dettaglio della sua infanzia: da bambina era molto irrequieta. Un’irrequietezza che trovava origine dal fastidio di essere ancora una bambina. Questa irrequietezza la comunicano ancora ai suoi scritti. Irrequietezza dell’Eros che attraversa tutta la sua opera; è alimentata dal desiderio fisico, e lo alimenta anche in chi legge. L’irrequietezza fa parte delle manifestazioni senza oggetto – come l’angoscia, che è legata al sesso, oltre che alla morte: alla morte perché lo è al sesso. Non si sa mai perché si è irrequieti. Nessuno conosce la ragione della propria irrequietezza. Susan Sontag ci fa capire che il desiderio è la sua fonte primaria. Con quel desiderio ha alimentato la sua struttura mentale. E la nostra. Non possiamo che dirle: grazie!

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