Speciale Fellini / Fellini-Trimalchio

20 Febbraio 2020

Cento anni fa, il 20 gennaio 1920, nasceva a Rimini Federico Fellini. Lontano dalle celebrazioni, su doppiozero vogliamo raccontare un regista-antropologo che ha saputo penetrare come pochi altri l’identità (politica, storica, sessuale) italiana. Uno sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatore partecipante”, che si affianca a quello di tanti altri intellettuali e artisti (da Leopardi a Gramsci, da Salvemini a Bollati) che negli ultimi due secoli hanno cercato di spiegare quello strano oggetto chiamato Italia. 

Abbiamo voluto raccontare Fellini attraverso i personaggi e i luoghi dei suoi film: dallo Sceicco Bianco a Casanova, da Gelsomina a Cabiria, da Sordi a Mastroianni, dalla Roma antica a quella contemporanea, passando ovviamente per la provincia profonda durante il Ventennio fascista. Una sorta di “album delle figurine” per aprire nuovi sguardi su un cineasta forse più amato (e odiato) che realmente studiato.

 

Fitte tenebre gravano sul Satyricon. Non sappiamo chi lo scrisse. Né quando. Né quale estensione avesse l’opera originariamente. Né, tanto meno, dove si svolga l’azione principale, posto che lo sia davvero, principale. Sono state proposte via via varie epoche: l’autore sarebbe vissuto sotto Augusto, no: sotto Tiberio; macché: sotto Nerone (ipotesi che oggi va per la maggiore) oppure sotto Commodo o addirittura Elagabalo. La graeca urbs, scenario di tanta parte della trama (rimasta), è forse Napoli? O Cuma? Miseno? Pozzuoli? Terracina? Tutte ipotesi avanzate dagli studiosi nel corso del tempo, ma senza che nessuna si affermasse sulle altre.

E, infine, chi è questo misterioso Petronio che i codici vogliono autore dell’opera? È lo stesso Petronio arbiter elegantiae messo a morte da Nerone e magistralmente ritratto da Tacito nel libro sedicesimo degli “Annales”? O è un altro? E perché alcuni manoscritti aggiungono il “nomen” Afranius o Affranius? Era davvero di sedici libri l’opera, come riporta l’inscriptio del Codex Traguriensis, l’unico, oltretutto, che contenga il frammento più lungo e organico dell’opera cioè la celebre Cena Trimalchionis?

 

 

Uno potrebbe dire: vabbè, almeno possiamo affermare senz’ombra di dubbio che di un romanzo si tratta, per la precisione uno dei due romanzi della letteratura latina, l’altro essendo le Metamorfosi di Apuleio. Errore! La parola “romanzo” è già di per sé uno spaventoso anacronismo, dato che una parola più “romanza” – ossia non latina, non classica – non c’è. I romani usavano, semmai, il termine narratio o argumentum o fabula.

Se si pensasse che questo ginepraio di enigmi disanimi il lettore moderno, o l’allontani dall’opera, si sarebbe del tutto fuori strada. È proprio il buio da cui emergono i brani del testo (excerpta) a costituire una delle maggiori attrattive del “romanzo”.

 

Fellini lo sapeva benissimo. Così si esprime infatti nel capitolo ottavo di Fare un film (cito dall’edizione 1993): “Il Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il suo frammentismo in un certo senso è emblematico. Emblematico del generale frammentismo del mondo antico quale appare a noi oggi. Questo è il vero fascino del testo e del mondo che è rappresentato nel testo”.

Fellini non aveva letto Henry Bardon, La littérature latine inconnue. O, almeno, non ce n’è traccia nel catalogo della sua biblioteca (I libri di casa mia, Fondazione Federico Fellini, Rimini 2008). Non ne aveva bisogno. Bardon ricorda che dei 772 autori latini menzionati dalle fonti, di 276 abbiamo solo nomi; di 352 solo frammenti; solo di 144 possediamo una o più opere. È un misero venti per cento del totale. 

 

Il nostro regista, noncurante di numeri e percentuali, aveva capito che tutte queste lacune, questi vuoti della realtà antica vanno riempiti con il sogno e con l’evocazione negromantica. Con una, come dice lui, in modo assai suggestivo, “stregonesca operazione ectoplasmatica”.

Il personaggio di Trimalcione non si sottrae a questa libertà di reinvenzione onirica del testo originale, ma forse, come è stato notato, se ne sottrae meno. L’episodio di Trimalcione è in effetti uno dei più fedeli a Petronio o, se si vuole, uno dei meno infedeli, posto che la fedeltà sia un valore (almeno in campo artistico). Gli studiosi (tra i tanti vanno ricordati almeno gli antichisti Nicola Pace e Gianfranco Gianotti) che si sono occupati delle varie e sensibili differenze tra testo e film sottolineano innanzitutto che il peso della cena risulta notevolmente inferiore nella pellicola. Diciannove minuti e cinquanta secondi, il sedici per cento del totale del film. Mentre nel “romanzo” l’episodio occupa più di un terzo di spazio, il trentasei per cento per la precisione.

Altra differenza fondamentale è che nel libro il poeta Eumolpo non è presente nella cena, e nel film sì; anzi è una presenza decisiva, come vedremo. 

 

Mario Romagnoli “il Moro” nel ruolo di Trimalcione.


Ma parliamo di Trimalcione. Chi abbia in mente la descrizione di Petronio (o di chi per lui) è subito colpito all’inizio dalla distanza con l’originale. Il latino recita: “Cum subito videmus senem calvum, tunica vestitum russea, inter pueros capillatos ludentem pila”, ossia: “Quando all’improvviso vediamo un vecchio pelato, coperto di una tunica rossa, che gioca a palla tra ragazzi ben chiomati” (traduzione di Vincenzo Ciaffi, presente nella biblioteca di Fellini, con molte sottolineature ed evidenziazioni). C’è qui un contrasto voluto tra il cranio glabro del senex e i giovani dalla folta capigliatura. Mentre il Trimalcione felliniano è l’assai capelluto Mario Romagnoli, oste capitolino, titolare del ristorante “Al moro” e come tale (“il Moro”) accreditato nei titoli di coda. Il regista fu colpito dallo sguardo “sabbioso” dell’uomo, dalla sua faccia di “Onassis tetro”, immobile, quasi una mummia. Quest’ultima parola ci consente di entrare nel tema funereo, dominante sia in Petronio che in Fellini. Perché questa cena, che è notoriamente un trionfo di pacchianerie gastronomiche, di combinazioni di cibi inediti e inauditi, accompagnati da studiatissime coreografie e scenografie nonché musiche pantomime balletti, nasce e finisce in realtà nel segno del tempo che passa e della morte. Due orologi scandiscono l’episodio letterario, all’inizio e alla fine, preludio al finto funerale di Trimalcione. Questo liberto arricchito, che non sa nemmeno più che significhi la parola “povero”, che non conosce i confini esatti delle sue sterminate proprietà, è ossessionato dalla morte. Sa che anche un’anfora di buon vino dura più della vita d’un uomo, d’un omiciattolo, d’un homuncio. Fellini ha percepito fino in fondo la sostanza funebre dell’episodio petroniano, al di là dell’apparenza pirotecnica, che nasce solo da un autentico “horror vacui”. Per questo il regista romagnolo, tramite il volto del Moro, le sue occhiaie, la sua espressione congelata, ha, se possibile, approfondito la valenza obituaria dell’originale e ha anche, contestualmente, depresso la vitalità del Trimalcione petroniano, assai più istrionico e dominante, quanto più il Moro è passivo e monocorde.

 

L’altro grande tema della Cena è il contrasto tra cultura e ricchezza. Sia Trimalcione che i suoi amici, liberti anche loro, da un lato disprezzano la cultura, dall’altro nutrono un evidente complesso d’inferiorità nei confronti degli intellettuali in genere. Non dimentichiamo che i protagonisti del testo sono definiti scholastici, che può significare sia studenti, sia uomini di scuola, sia, anche, studiosi. Encolpio, Ascilto, Agamennone, Menelao, Eumolpo questo sono.

Trimalcione vuole che sul suo sepolcro sia scritto che mai in vita sua ascoltò un filosofo: non gli serviva per accumulare quattrini. Il suo amico e colliberto Ermerote si vanta di non aver mai studiato geometria né critica né altre stupide balle, eppure domina su venti persone più un cane. (Nel film la risentita tirata di Ermerote è nel pugliese stretto – doppiato da Oreste Lionello – di Eugenio Mastropietro, che era poi il medium Genius di 8 ½). 

Però Trimalcione fa ugualmente sfoggio di cultura, accumulando castronerie di ogni tipo, confondendo Annibale con Agamennone, Cassandra con Medea, il cavallo di Troia con la vacca di Pasifae. E ambisce ad essere considerato un fine poeta. Mentre Ermerote nutre un forte rancore nei confronti di Encolpio (Ascilto nell’originale), proprio in quanto studentello.

 

Eumolpo (Salvo Randone).


Fellini coglie perfettamente quest’eterna dissonanza, per cui chi ha i soldi non ha cultura e chi ha cultura non ha soldi, con tutto quel che ne deriva. Anzi, l’approfondisce. Il poeta Eumolpo (Salvo Randone) che accompagna Encolpio al banchetto e vi partecipa da buon parassita (innovazione di cui già si è detto), a un certo punto sbotta: “Io sono un poeta!”, urla, non Trimalcione, che si appropria indebitamente dei versi di Lucrezio, facendoli passare per suoi. Da una parte, quest’aggiunta felliniana è assolutamente in linea con la satira petroniana originaria; dall’altra se ne distanzia, proprio perché è urlata, sofferta e non caratterizzata da quella sublime nonchalance del testo latino, dove la superiorità dell’autore colto non ha bisogno di toni forti e sopra le righe; e le buaggini trimalcioniane paiono condannarsi da sé, non appena proferite.

 

C’è un’altra invenzione, tutta felliniana, in questa cena pantagruelica; e l’aggettivo non è casuale. A un certo punto Trimalcione rutta, e poi rutta ancora. Un indovino che è alla sua mensa trae gli auspici, positivi naturalmente. E questo non si trova in Petronio. Ma, nel terzo libro dei Fatti e detti eroici del buon Pantagruele, capitolo venticinque, c’è qualcosa di simile. Lì Panurge si reca a consulto da Herr Trippa per sapere come andrà il suo matrimonio. E questi gli sciorina tutta una serie di modi variegati di divinazione, in un elenco tendenzialmente illimitato; si può predire il futuro per ceromanzia, per capnomanzia, per botanomanzia, per sicomanzia, per turomanzia, per astragalomanzia eccetera, a seconda che si usino cera, papaveri, foglie, fighi, formaggio, aliossi eccetera. 

 

Per i Greci e i Romani gli dei effettivamente parlavano e manifestavano il loro volere in centomila maniere diverse, attraverso il fruscio delle fronde, il volo degli uccelli, i sogni, i polli sacri, i brividi, gli starnuti. Ma, ci pare, la divinazione tramite rutti è un’assoluta novità.

Qui l’inventiva felliniana ha trasformato in farsa, sulla scia di Rabelais, la scienza del futuro degli antichi, peraltro già incredibilmente meticolosa di suo.

 

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