Un film di Marco Martinelli | Teatro delle Albe / Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

2 Novembre 2017

Che cosa sono, chi sono quelle bambine che cercano, scrutano, commentano, fanno da coro, con i loro vestitini dai colori tenui, a fiori, a disegni soavi? Quelle bambine che attraversano, curiose, stanze piene di oggetti, che a volte sembrano un deposito, a volte una vecchia casa contadina, o una chiesa, o addirittura un magazzino della memoria, forse un teatro con un finestrone aperto su alberi con verdi foglie estive, con maschere di cartapesta, teli, fondali teatrali, grandi candelabri, altri oggetti? Quelle bambine guidano, domandano, guardano stupite, introducono, come chi forse sa tutto della vita perché sa poco ancora. Sbucano all’improvviso, in lunghi corridoi, tra le sedie di una vecchia sala cinematografica o tra le poltroncine di velluto di una platea teatrale vuota. Appaiono da passaggi laterali, da anfratti, chiamati dalla prima, da quella che ha aperto il film, con il suo sguardo, e ne ha già introdotti alcuni capitoli. E ha offerto l’investitura di un fiore tropicale, un’orchidea carnosa, luminosa, incantata, alla straordinaria attrice che indosserà la figura di Aung San Suu Kyi, la donna politica birmana, la resistente, l’anima grande di un popolo offeso. 

 

 

Marco Martinelli con il suo Teatro delle Albe da tempo voleva cimentarsi con il cinema. Lo fa con un’opera prima asciutta, precisa e immaginosa, misteriosa e politica, portando sullo schermo, in modo originale, il suo successo teatrale Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi (2104: qui la mia recensione; il testo è pubblicato da Luca Sossella editore). L’interprete, come sul palcoscenico, è la superba Ermanna Montanari, che sembra indossare non solo la figura della guida del popolo birmano ma anche una speciale grazia, antica, contadina, molto italiana, universale alla fine. Pare, nei lunghi abiti che richiamano quelli birmani, una figura staccatasi da qualche quadro dell’ottocento, o addirittura qualche pallida donna della pittura fiamminga, insieme vigile, concreta, in tensione continua, pronta per un’azione, magari molto quotidiana, perfino casalinga, e sognante, distaccata, abbandonata a un superiore fluire delle cose. Rastrema le parole. Emana eleganza e placida dolcezza dalla figura intera, stagliata nella solitudine di una prigionia difficile da sopportare. Regge il primo piano che la va a scrutare con un volto antico, insieme di porcellana e segnato da belle piccole rughe. Fragile interna sicurezza fermamente in bilico.

 

Il film, in vari capitoli filmati con essenziale nitore, ritmati da didascalie scritte su fogli di carta preziosa, racconta la storia della donna politica premio Nobel per la pace e del suo Paese. Il racconto parte dagli anni intorno alla Seconda guerra mondiale e dai primi movimenti di liberazione dal dominio coloniale, guidati dal giovanissimo padre di Suu Kyi, Aung Sun, presto ucciso. Narra la dittatura militare, la vita all’estero della donna, sposata con un ricercatore inglese. Poi il ritorno in patria, richiamata dalla malattia della madre: Suu Kyi diventa subito un simbolo di lotta a un regime corrotto, violento, governato da generali folli che vessano il popolo e a volte affidano le loro scelte tiranniche perfino ad astrologi. Da allora sarà un esempio di resistenza non violenta: conculcata, messa agli arresti, in casa, per anni, costretta a non lasciare il Paese neppure quando il marito si ammala di tumore e muore, lontano da lei (e qui il film riserva una scena di dolore meravigliosa, senza parole, una danza di schianto, di precipizio). Simbolo di una nazione, la Birmania, alla quale viene cambiato persino il nome in Myanmar, Aung San Suu Kyi ritroverà la libertà solo nel 2010, dopo anni di clausura, di forzata solitudine, di silenzio. E sarà ancora a capo di un rinnovamento profondo, sempre minacciato dalla forza dell’esercito (qui lo spettacolo si chiudeva e si ferma il film, senza entrare nelle ultime polemiche circa il suo silenzio sulla crisi umanitaria dei rohingya, la minoranza musulmana). 

 

Ph. Marco Parollo.


Il film ripercorre questa storia con gli attori che guardano in camera, che si rivolgono direttamente allo spettatore, principalmente per monologhi o per essenziali dialoghi. Suu Kyi è prigioniera, per la maggior parte del tempo, sola: parla con un geco; riceve visite di una giornalista di “Vanity Fair” (Sonia Bergamasco) che vorrebbe farle dire che si sente una Giovanna d’Arco orientale; incontra un imbelle inviato Onu che dovrebbe proteggerla dagli arbitri dei dittatori (Elio De Capitani). Intorno a lei i generali, che la interrogano, in un iniziale balletto grottesco, sotto un enorme riflettore (la bambina che conduce ci dirà che nulla è inventato di quell’interrogatorio, neppure le accuse ridicole di cannibalismo). 

Spunta da una botola come un grottesco fantasma Roberto Magnani, il primo generale golpista ormai morto, che rievoca le follie del suo potere; siede il successore, che ha provato a rendere più accettabile l’arbitrio, pesante come pietra a un tavolo, inscalfibile (Fagio). Intorno alla solitudine della donna le bambine diventano coro che introduce immagini di repertorio, oppure si trasformano in spiriti, quelli che facevano paura a Suu Kyi da piccola e che nella prigionia diventano addirittura di compagnia. In virtù delle musiche distillate – di acqua che cola, di ninfea, di lontananza, di ruggine, di ghiaccio – di Luigi Ceccarelli, che pure talvolta precipitano in convulsi rap birmani, spira un’aria lieve, di tesa accettazione, di distacco e presenza, di sapienza: di grazia.

Eccola la parola che guida il film, forse ancora più che lo spettacolo: grazia. La scorgi nelle movenze rallentate della protagonista, qui perfino alleviata da certe profonde rugginosità della sua voce; nello sguardo delle bambine e perfino nelle ossessioni degli spiriti malvagi che vengono, a poco a poco, come le paure della prigionia, domati. Grazia come coscienza di fare il bene, di dover testimoniare il bene; consapevolezza che la rivoluzione può essere solo interiore. 

 

 

Il segreto di questa pellicola sta nella sospensione brechtiana, nell’asciutta forza delle immagini nella fotografia di Pasquale Mari, nelle scenografie dichiaratamente teatrali di Edoardo Sanchi, nel ritmo del montaggio di Natalie Cristiani (con la supervisione di Jacopo Quadri), in quella esplorazione continua che fa la macchina da presa per avvicinarsi sempre di più al viso, agli occhi di Ermanna Montanari, alle sue parole e alle sue sospensioni. In questo riuscito lavoro d’insieme sta la sfida di un’opera che porta nel cinema, e quindi ravvicina allo spettatore, la concentrazione intima del buon teatro, la sua capacità di non definire ma di lasciare da immaginare, l’incrinatura che esso spesso è capace di aprire come domanda alla storia.

 

Non simula la Birmania, il film, né ricostruisce in modo realistico la storia: bastano un manifesto e due attori con baffoni per rievocare il cabaret corrosivo, più volte sanzionato con l’arresto, dei Moustache Brothers (Christian Giroso, Vincenzo Nemolato). Gli attori indossano i personaggi come figure distanti e vicinissime allo stesso tempo; le adottano per tornare a riaccendere la lunga discussione su come possa attuarsi un cambiamento radicale delle cose, politico, sociale, etico. La soluzione prospettata – come una domanda di luce che sorge nel buio – nasce dall’indagine, dal gioco, dal narrare delle bambine che a volte assomiglia a una favola (ma quanto serie e piene di verità sono le favole). La soluzione è: una rivoluzione può essere solo spirituale, guidata da una forza interiore. È cambiamento, innanzitutto, nelle coscienze. Capacità di saper guardare le cose, gli esseri umani, ma anche di dialogare con un geco, di osservare il vento tra le foglie, di conservate il sorriso stupito di una bambina nella tempesta. 

 

Backstage del film.


In un aureo libretto intitolato Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (edizioni Cue Press), dove raccontava la storia del Teatro delle Albe e prospettava il teatro come invenzione di un luogo di convivenza, ipotesi di comunità nella società delle disgregazioni e delle solitudini, Marco Martinelli scriveva: “Parlo del teatro come il luogo del lampo non trasmissibile. Bastasse faticare! E invece no: tutto il tuo faticare non sarà mai sufficiente a raggiungere la grazia. Il tuo sudare quotidiano è volto a creare le condizioni in cui la grazia possa manifestarsi. Fin lì puoi arrivarci con l’accanimento, e devi arrivarci per accanimento: oltre ti è dato solo per grazia. Sorprendendoti”.

 

E in questo film ci sorprende, dall’inizio, con quella domanda che si affaccia subito, nel primo capitolo: “È distante la Birmania? Eh? È distante?”. La risposta, da quelle mura scrostate che sembrano di deposito delle memorie, di soffitta o cantina, di casa contadina, di pieve di campagna, dai volti di quelle bambine così italiane (da citare tutte, meravigliose, per la prima volta sullo schermo, Ippolita Ginevra Santandrea, Sara Briccolani, Alessandra Brusi, Catalina Burioli, Olimpia Isola, Benedetta Velotti), dal volto romagnolo di Ermanna Montanari racchiusa in una bellezza straordinaria, d’anima, di sottrazione, di essenza, la risposta è, evidentemente: no, la Birmania non è lontana. Questa storia ci riguarda, molto da vicino, come esseri umani che fanno o subiscono continuamente violenza, o cercano di resistervi e di immaginare, brancolando, facendo appello a ogni risorsa esterna e soprattutto interna, un mondo nuovo (almeno un po’). 

 

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi si può vedere a Ravenna dal 9 al 15 novembre. Torna nelle sale cinematografiche a gennaio a Milano, Brescia, Bergamo, a febbraio a Venezia e Bologna e in altre città.

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