C’erano una volta gli stiliti
La parola “stilita” è attestata in greco (στυλíτης) solo a partire dal quinto secolo dopo Cristo. Designava una pratica ascetica consistente nello stare in piedi in cima a una colonna (stylos, στΰλος), immobili, in preghiera, senza scendere mai. La pratica, e la parola che la indica, sono quindi sconosciute al greco classico e tipiche invece dell'epoca detta bizantina.
Il luogo d'elezione di questa durissima ascesi è la Siria. Il tempo va dal quinto, come detto, al dodicesimo secolo della nostra era, benché l'apogeo si abbia in effetti tra V e VII d.C. Adesso esce un bel libro di Laura Franco (Al di sopra del mondo, Einaudi, 2023) che ci racconta le vicende di alcuni di questi stiliti: sei monaci in particolare, campioni del duro esercizio. Simeone il Vecchio, Daniele, Simeone il Giovane, Alipio, Luca, Lazzaro di Galesio, i loro nomi. Simeone il Vecchio salì su una colonna intorno al 412; Lazzaro di Galesio morì il sette novembre del 1053.
Queste vite di monaci siriani, secondo le fonti, generalmente anonime (a parte Teodoreto di Cirro) paiono uniformarsi a uno schema prefissato. Innanzitutto si nota l'esistenza di una sorta di dialettica dello stilitismo. Il monaco, prima di issarsi su una colonna, e rendersi così estremamente visibile, trascorre un lungo periodo nascosto, in luoghi inaccessibili: cisterne vuote, grotte, cimiteri abbandonati. Oppure, prima di fissarsi per decenni in capo al suo pilastro, vaga pellegrinando nei posti più diversi.
Come se l'immobilità in piena luce richiedesse previamente un tirocinio trascorso nella tenebra o nel movimento instancabile.
Se si pensasse che lo stilita sia un uomo fuori dal mondo ci si ingannerebbe della grossa. Egli può anche stare in un deserto, ma intorno a lui subito si crea una comunità di fedeli, di penitenti, di monaci come lui, che a lui fanno riferimento. Non solo, ai margini della colonna si poteva sviluppare tutto un mondo parallelo, popolato di viandanti, forestieri, commercianti, venditori di souvenir e addirittura imbroglioni e persino prostitute: una specie di variopinto e chiassoso bazar che poco pareva aver in comune con la fede e l'ascesi.
Molto spesso inoltre lo stilita era meta di persone che si recavano da lui per avere consigli, per risolvere diatribe, questioni di famiglia o anche, a volte, di stato. Vari imperatori non disdegnarono di consultarsi con loro: ad esempio, sia Leone primo che il suo successore Zenone, resero omaggio al monaco Daniele, in un curioso capovolgimento di ruoli.
Il fatto è che, come sottolineò il più grande studioso del mondo tardo-antico, ossia Peter Brown, il Santo (in questo caso stilita) aveva ormai preso il posto di quella figura che andava sotto il nome di patronus. Spetta perciò a lui dunque la protezione degli strati sociali più deboli; ed è sempre lui che si assume quel ruolo di mediatore, di arbitro che era stato anticamente del patronus. Anche nelle questioni più minute. Simeone il Vecchio non fungeva da consigliere solo per eminenti personalità; anzi: ebbe modo di intervenire anche a sostegno di un povero contadino di Aleppo e del suo piccolo campo coltivato a cetrioli, insidiato da un infame speculatore, il quale speculatore, colpito dalla maledizione di Simeone, morì tra atroci tormenti, come meritava.
Qui si potrebbe aprire la questione di quanto l'esercizio dello stilitismo sia debitore di pratiche analoghe antiche. Secondo Luciano (II secolo d.C.), nel suo opuscolo De dea Syria, i sacerdoti della dea Atargatis, due volte l'anno si arrampicavano su colonne altissime a forma di fallo e vi trascorrevano vegliando ininterrottamente almeno sette giorni. Essi erano detti “fallobati”. Il luogo dove elevare la colonna (una delle colonne) del monaco Daniele fu indicato dal volo di una colomba bianca, com'erano bianche le colombe che indicarono a Enea, prima della discesa nell'Ade, il luogo del ramo d'oro.
Molte delle guarigioni miracolose che avvenivano ai piedi delle colonne, ad esempio sia di quelle di Simeone il Giovane che di Luca, erano assimilabili a quelle che si verificavano nei templi di Asclepio, ossia tramite incubazione: il degente dormiva e guariva così, nel sonno, oppure nel sonno sognava le cure giuste per la sua patologia che poi, una volta sveglio, gli venivano somministrate effettivamente.
E, ancora, questi santi al sommo di colonne, non potevano, a loro volta, ricordare in qualche modo le antiche colonne imperiali e il culto che era loro reso? Su tutti questi rapporti tra la pratica dello stilitismo e i suoi antecedenti, veri o presunti, con il mondo pagano gli studiosi sono abbastanza divisi, tra partigiani della continuità e quelli della discontinuità. Comunque: se gli stiliti paiono conformarsi, nel loro percorso di vita, a una sorta di schema comune, non sono meno rilevanti le sensibili differenze reperibili tra le loro figure.
Per dire una: se Simeone il Vecchio era assolutamente inflessibile nel tener lontane le donne dalla sua colonna, al punto da rifiutare la visita di sua madre, che non vedeva da vent'anni, Alipio invece accettò di buon grado che la sua genitrice vivesse accanto a lui, in una tenda alla base del suo pilastro. Anche sua sorella Maria entrò a far parte della comunità monastica, nonché alcune altre signore, quali un'aristocratica Eufemia e una certa Eubula, prima badessa del monastero femminile.
Tutto questo perché, come scrive Paolo in Galati 3, 28: “Non c'è qui né Giudeo né Greco, non c'è schiavo né libero e non c'è maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.
La singolarità del monaco Luca fu che era sia religioso che uomo d'armi, collocazione davvero originale. Quasi una letteralizzazione della metafora del “soldato di Cristo”. Del resto, proprio come già in Paolo di Tarso, anche per questi stiliti era frequente la metafora dell'“atleta di Cristo” che corre per una “corona eterna”.
Lazzaro di Galesio si distingue per una sua propensione organizzatrice: fonda e dirige ben tre monasteri, per l'appunto sulle pendici del monte Galesio, e sono quelli del Salvatore, della Resurrezione e della Theotokos, ossia madre di Dio. Egli esercitava le sue funzioni di superiore con un marcato autoritarismo, tanto da suscitare le reazioni dei sottoposti. E pensare che proprio lui, Lazzaro, da giovane era stato accusato, per il suo ribellismo, di essere “idiorritmico”, cioè uno che fa troppo di testa sua e che le regole per sé se le fabbrica lui stesso.
Non bisogna pensare che questi stiliti, pur dispensando buoni consigli, guarigioni, ed essendo perciò oggetto di venerazione, fossero esenti da critiche, anche aspre. I metropoliti delle varie città siriane non li vedevano di buon occhio. Erano generalmente tenuti in conto di esibizionisti, di applicatori troppo zelanti della disciplina che si erano auto-imposti. Insomma veniva loro imputato il peccato di orgoglio. Rischiavano costantemente un'accusa di luciferina vanagloria. (Per questo il titolo del libro risulta particolarmente azzeccato, nella sua duplicità: Al di sopra del mondo, sia nel senso di un distacco dalla terra, sia nel senso di una superiorità nei confronti della medesima).
Non solo: all'epoca della disputa iconoclastica, inaugurata nel 726 dai decreti dell'imperatore Leone III Isaurico, gli stiliti vennero perseguitati in quanto iconoduli, ossia cultori delle immagini sacre. Le loro stesse figure finivano per assumere, agli occhi degli iconoclasti, un sapore inconfondibilmente idolatrico.
Anche in precedenza, quando era questione della reale natura di Cristo, se divina e umana al contempo o solo umana o solo divina (monofisismo di Eutiche), alcuni stiliti erano entrati in gioco, anche scendendo per l'occasione dalla colonna (come fece Daniele), per difendere l'ortodossia, in genere, cioè le conclusioni del concilio di Calcedonia.
Un altro elemento di uniformità tra i vari stiliti è dato dalle tentazioni del demonio. Il modello è quello della Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria. I santi erano oggetto delle insidie del Maligno, in continua metamorfosi al fine di farli desistere dal loro santo proposito. Uno dei principali metodi di persecuzione era la produzione indefessa, da parte satanica, di rumori assordanti, di chiasso, è davvero il caso di dirlo, infernale. Piuttosto collaudato anche il travestimento femminile. Ma gli stiliti resistevano. Persino al lancio incessante di tartarughe contro di loro.
Modello del modello (Antonio) è naturalmente Cristo e i quaranta giorni da lui passati nel deserto, tentato dalla perfidia di Satana. Ma tutta la vita dello stilita è improntata all'imitatio Christi. Anche la colonna, a cui il santo è indissolubilmente vincolato, si fa evidente figura della Croce e, così come il corpo di Cristo sembra far tutt'uno con la croce, anche il corpo dello stilita finisce per confondersi con la colonna stessa.
Parimenti le piaghe e le ulcere del corpo martoriato ed esposto richiamano irresistibilmente quelle di Giobbe, benché di un Giobbe volontario.
Accanto a queste sei vite di stiliti noti, Laura Franco ne rievoca altre meno illustri. Tra queste spicca quella di uno stilita inesistente, Teodulo, di cui il biografo anonimo tesse un elogio (εγκόμιον) talmente capzioso da parere più uno psogos (ψόγος), ossia un testo di biasimo, ambiguità che sta a significare che il prestigio della categoria si era ormai esaurito a quest'epoca (fine del VII secolo).
Allo stesso modo un altro stilita immaginario, Teodoro di Edessa, di cui si narra in un romanzo anonimo del XI secolo, pare essere un superstite, una reliquia del passato.
Ma in questo capitolo del libro veniamo colpiti dalla descrizione di un altro tipo di eremiti, quelli che si ritiravano non su una colonna, bensì sugli alberi. Essi avevano nome “dendriti”, dal greco dendron, albero.
Chiude il volume un'interessantissima carrellata sugli usi moderni e contemporanei della figura dello stilita. Dal disprezzo di Gibbon al paradosso del Pafnuzio di Anatole France, partito per redimere una prostituta e finito col dannarsi l'anima proprio per lei. Fino al Simon del deserto di Luis Buñuel, ispirato non già da Jacopo da Varazze, secondo l'ingannevole auto-testimonianza del maestro spagnolo, bensì proprio dalla Vita di Daniele. Per tacere di Hugo Ball, che nel suo incredibile Cristianesimo bizantino, vede esattamente incarnarsi nella figura di Simeone il Vecchio, il capostipite degli stiliti, il suo sogno di una teocrazia “mistico-anarchica”, di “un cattolicesimo integrale che non si lasci intimidire, che conosca Satana e che difenda i diritti, costi quel che costi”.
Infine, nell'anno centenario di Italo Calvino, mi permetto di aggiungere io che sia la figura degli stiliti inesistenti, sia quella dei dendriti, perennemente sugli alberi, mi hanno proprio fatto venire in mente qualcosa.