Duecento anni di canzone napoletana

22 Gennaio 2023

Iniziano in modo simmetrico i due volumi di Pasquale Scialò: ai tavolini di bar, con conversazioni che si interrogano su quale sia la ‘vera’ canzone napoletana.

Nel primo libro, che copre gli anni che vanno dal 1824 al 1931, due interlocutori discutono così:

  • La canzone napoletana è una inimitabile forma d’arte!
  • Quale canzone?
  • Quella autentica, che non è artificiale ma popolare.
  • E cioè?
  • Be’, quella “classica”, naturalmente.
  • Sì, ma di quale periodo?
  • Che c’entra il periodo? La canzone “classica” è senza tempo. Intramontabile!
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Nelle prime pagine del secondo tomo (1932-2003), uscito da poco, come il primo da Neri Pozza Editore, l’autore – musicologo, sociologo, musicista, autore di musiche per il teatro e degli arrangiamenti di quel disco meraviglioso che è Modo minore di Enzo Moscato – ritorna a registrare “un’accorata discussione tra due persone di mezza età, ai tavoli di un antico ristorante di Borgo Marinari a Napoli”. Anche di questa riporto solo una parte:

  • Quella di oggi non è più canzone napoletana!
  • Che dici!? E Napule è, Na tazzulella ’e cafè, Quanno chiove di Pino Daniele, cosa sono?
  • Brani straordinari, certo, ma è popular music!
  • E Carmela, di Bruni e Palomba, non è una canzone napoletana?
  • Quella sì, ma è un’eccezione che conferma la regola!
  • Allora, la canzone napoletana classica secondo te sarebbe morta?
  • Sì, finisce con Munasterio ’e Santa Chiara. Quella successiva è solo una mmésca francésca, un miscuglio di cose disparate!
  • I “neomelodici”, allora? E i rapper, neanche a parlarne? […]

 

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Le due discussioni, due evidenti siparietti inventati, contengono in sintesi tutte le questioni che Scialò affronta in modo disteso in tutta l’opera, guidando in un denso, entusiasmante viaggio nella musica di Napoli: la canzone napoletana è popolare o d’autore? Qual è e cosa è la “canzone napoletana classica”? Quanto essa si contamina con altri generi di spettacolo, per esempio il varietà e il teatro, poi il cinema e la fiction televisiva? Come si differenzia tra i diversi ceti e strati sociali della città, diventando sentimentalmente struggente o dipingendo ritratti realistici della gente dei quartieri più popolari, facendosi canzone di malavita o macchietta? Come si trasforma? Come si rapporta con le grandi vicende storiche: come si misura per esempio con le varie guerre combattute da quel 1824 al 1945 e con le illusioni delle imprese imperiali? Carica quale è di ironia anche cinica e di senso del mercato, del consenso pubblico, come si confronta con il potere, per esempio nel periodo fascista? Come risulta una trasposizione sentimentale o comica, brillante, della teatralità della città? Come si misura con altri generi musicali? Quali strutture produttive, editoriali, commerciali, organizzative, dalle posteggie ai grandi festival, dalle videocassette a trasmissioni sulle televisioni locali, si dà?

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L’autore, con quelle due scenette teatrali d’apertura, sembra volerci ricordare che sempre la canzone partenopea mette in scena la città, le sue passioni, i suoi contrasti, il suo gusto per la discussione, la chiacchiera, la polemica speciosa perfino, i suoi innamoramenti e i suoi stereotipi. Non lascia inesplorato nessun cantone, dalla nascita di un’industria dei fogli volanti, diffusi nei mercati, con i testi delle canzoni, alle “copielle”, quattro facciate pure con qualche rigo di musica, agli spartiti canto e pianoforte, ai dischi e a tutte le altre forme di riproduzione.

Scialò lega la canzone al patrimonio popolare, ma opportunamente ricorda come quello nell’Ottocento venga rivissuto e rigenerato in relazione con la canzone da salotto, con l’intervento di poeti e musicisti raffinati, questi ultimi formatisi spesso nei conservatori cittadini. Ci spiega pure come spesso gli autori non sappiano di scrittura musicale e fischiettino i motivi inventati per farseli trascrivere e armonizzare. E di come centrale sia il ruolo degli interpreti, del cantante, della sciantosa, che spesso assurgono alla statura di amatissimi divi.

Enumera le prime imprese tipografiche e le prime raccolte, per esempio i Passatempi musicali di Guglielmo Cottrau, incunaboli della prima metà dell’Ottocento della canzone popolare e d’arte napoletana; le feste di Piedigrotta che presto diventano palcoscenico per la canzone, inserita tra sfilate di macchine teatrali e altri divertimenti spettacolari; il sorgere, verso la fine del secolo. di autori della parte poetica di rilievo come Salvatore Di Giacomo o Ferdinando Russo, con vene differenti, più ‘sentimentale’ e borghese il primo, più crudo scrutatore della vita popolare, con un piglio quasi verista, il secondo; le diverse generazioni di musicisti che offrono note, spesso indimenticabili, alla passione per il canto della città.

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Caricatura di Ferdinando Russo.

La trattazione è illustrata con qualche pagina musicale e sempre con ampi stralci dei testi, opportunamente tradotti dal dialetto. Le ampie analisi di quei materiali danno conto in modo approfondito di un’attitudine che attraversa ogni momento della vita sotto il Vesuvio, dalle effusioni sulla bellezza del paesaggio e dalla propaganda turistica al racconto di scene di forte intensità drammatica, dalla serenata d’amore al brano nostalgico a quello ironico, spassoso o satirico. Un cd, con materiali anche rari, d’epoca,  accompagna il primo volume, mentre il secondo rimanda al web e al costituendo archivio del portale SoNa, sul sito della Regione Campania, dedicato alle culture musicali del territorio.

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Non entrerò nei mille dettagli di una avventurosa storia lunga due secoli: ricordo solo come tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nuovi generi si affaccino. La macchietta, solo in parte cantata, parlata o sussurrata su accompagnamento musicale, caratterizza in modo arguto e umoristico personaggi ‘tipici’, colti in qualche fissazione o in qualche eccessiva esibizione di sé. Sfocia nel café-chantant e successivamente nel varietà, arrivando a costituire, insieme con la canzone e il duetto a sfondo sentimentale o propriamente drammatico derivati da pièce teatrali, la base per quella forma scenica che entusiasmerà le platee napoletane (e non solo) per buona parte del Novecento: la sceneggiata. Il termine indica la derivazione da una canzone, messa in scena, sviluppandone la materia in un vero e proprio dramma in due o tre atti, conservando per il brano del titolo la scena madre. La trama vede al centro dell’azione Isso, il protagonista, Essa, la protagonista, e ‘O malamente, il cattivo, l’antagonista, che tra i due variamente si frappone. 

Le trame intrecciano contrastate storie d’amore, di tradimento, di malavita, vicende legate alla sofferenza della condizione di emigrante o alle disparità sociali. 

La sceneggiata è una forma di teatro ‘partecipato’: Scialò racconta di vere e proprie intrusioni del pubblico a salvare l’eroe o l’eroina quando vengono minacciati da ‘O malamente, con una netta rottura della quarta parete, che a volte vede l’intervento degli attori a spiegare che ciò che avviene sul palcoscenico “è finzione” e che non si deve interrompere violentemente la recita.

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Foto di scena di Scalo marittimo, di Raffaele Viviani.

Negli anni Settanta questa forma di teatro di forti sentimenti e contrasti si trasferisce in una produzione cinematografica minore, con protagonisti come Mario Merola, Pino Mauro o Nino D’Angelo; mentre gli stessi sentimenti estremi, dopo Saviano, li ritroviamo nelle serie dedicate all’epica malavitosa di Gomorra, riprodotta in serie televisive. La canzone, e le forme collegate, seguono le trasformazioni della società italiana e napoletana.

Famosissime, tra le sceneggiate, è ‘O zappatore, un testo che rappresenta l’ascesa sociale dagli strati più umili della società e la vergogna per la povera condizione di provenienza, e quindi inscena due ambienti che per lo più non comunicano: quello proletario o sottoproletario, in questo caso incarnato nel contadino che ha fatto studiare il figlio a costo di grandi sacrifici, e quello della borghesia del Vomero o di Posillipo, alla quale il figlio avvocato fa finta di appartenere, disconoscendo il padre zappatore. Vediamo il punto cruciale della storia qui sotto, nel film con Mario Merola.

Approfitto della sceneggiata per ricordare come la contaminazione sia stata sempre una caratteristica della musica napoletana (in questo caso col teatro), e quindi di come parlare di purezza al riguardo risulti perlomeno bizzarro. Già grandi operisti del Settecento come Pergolesi o Paisiello attingevano al repertorio popolare, trasformandolo, portandolo nei domini dell’armonia ripulita per l’accademia e la corte. E così una canzone come Tammurriata nera, creata alla fine della Seconda guerra mondiale, si sviluppa con nuove strofe negli anni successivi alla nascita fino a trovare una nuova vita negli anni Settanta grazie alla Nuova Compagnia di Canto Popolare; di recente vediamo mescolarsi alla tradizione melodica tradizionale il rock progressivo degli Osanna, il blues di Pino Daniele, il rock-rap di Almamegretta, 99 Posse e altri, il rap di Clementino, il trap. In altri ambiti col “neomelodico” si ribadisce in modo kitsch, puramente nostalgico, di consumo e locale, il melodismo. E non si può dimenticare un luminoso esempio di contaminazione del teatro di ricerca degli anni Settanta, quando Leo de Berardinis a Marigliano, propugnando un “teatro dell’ignoranza”, mette in scena King Lacreme Lear Napulitane, mescolando Shakespeare, il jazz, Schönberg e la sceneggiata.

 

Tammurriata nera, Nuova Compagnia di Canto Popolare, 1981 

Un altro filone importante è quello della canzone di guerra. Scialò ci ricorda che è di uno dei principali autori napoletani, E. A. Mario, La canzone del Piave, quel “Piave mormorava triste e placido al passaggio” che i più vecchi di noi forse hanno cantato in piedi a petto in fuori, col grembiulino e il fiocco, alle scuole elementari. E ci invita a cercare su YouTube alcune interpretazioni indimenticabili di motivi arcifamosi, come quella di Anna Magnani nel film ‘A sciantosa, quando intona per i militari reduci dalle trincee della Prima guerra mondiale ‘O surdato ‘nnammurato

Poi arriva il fascismo, e porta con sé legnate, censura, imprese coloniali, un’altra assurda guerra. Stranamente, in un regime che bandisce le parlate locali, specie dalle opere letterarie, il dialetto napoletano, benché a volte annacquato, rimane lingua della canzone: “il dialetto resiste come può all’appiattimento della lingua unitaria e alla lentissima alfabetizzazione della plebe: Napoli, bene o male, continua a ‘cantare’”, l’autore cita come epigrafe della prima parte del secondo volume questa considerazione, tratta da Storia di Napoli di Antonio Ghirelli. Il secondo libro inizia con le “canzoni in guerra”, con feste di Piedigrotta, Africanelle “liberate dalla schiavitù”, futurismi, canzoni dell’impero eccetera. In un genere dal taglio patriarcale e spesso machista come la canzone partenopea, “molto spazio viene dato al filone comico, che ironizza ora sul maschilismo (Non mi seccare, La psiche della donna) ora sulla guerra, che viene ricondotta in ambito domestico (Facimmo ’a guerra)”. Non mancano neppure “frequenti riferimenti a forme stilizzate di ‘canzone a ballo’, che rinviano alla cosiddetta tammurriata e a perle classiche come Dicitencello vuie, che svettano rispetto a brani dedicati a figure femminili dagli improbabili nomi di Nanà o Nanù”. 

Non muoiono le macchiette e nel genere si affermano nuovi comici come Nino Taranto. Attraversa il periodo che va dagli anni Dieci ai Cinquanta Raffaele Viviani, attore e drammaturgo che inserisce musiche e canzoni nei suoi acri testi che ritraggono anche gli aspetti meno folcloristici della città, la povertà, i guappi, gli abbandonati, i diseredati.

La canzone è anche cronaca di costume, e allora ricordiamo Evviva la tessera, dedicato alla carta annonaria. Si perde nella folla Zazà, con Addò sta Zazà, che narra un momento di confusione e uno smarrimento, in un caotico dopoguerra evocato in un brano di successo che avrà vari sequel. Dalle segnorine che dopo l’arrivo degli americani si accoppiano con militari dell’Army nascono bambini neri, che vengono chiamati Giro (Ciro). Qui l’epica di Tammurriata nera è descritta nelle sue metamorfosi, capaci di farsi cronaca disincantata di tempi ‘strani’, fuori ordine.

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Scialò ripercorre i Festival della canzone napoletana del dopoguerra, che precedono e ispirano Sanremo, arrivando finalmente ai giorni nostri, e tornando alla domanda iniziale: esiste ancora una canzone napoletana? Certo, ci ha dimostrato per circa settecento pagine che ci sono varie canzoni napoletane, quelle dei salotti e quelle “di giacca”, di chi si toglie il frac bene e interpreta umori e sentimenti dei quartieri più ‘bassi’, anche quelli di malavita, con storie di contrabbando o di galera. La conclusione, mi sembra, è che la vitalità della canzone napoletana stia nell’accogliere suggestioni di altri generi, la canzone da salotto nell’Ottocento, di recente il jazz, il blues, il rock, l’hip hop, il rap, il trap, conservando sempre qualcosa di sé, modificandosi per restare viva. Configurandosi più come un arcipelago di isole in comunicazione, che come una compatta terraferma. Come scrive l’autore:

non dobbiamo dimenticare che le trasformazioni delle sue forme, per quanto in alcuni casi radicali, costituiscono un’evoluzione di quella tendenza prismatica della canzone ad accogliere e mescolare matrici poetico-musicali della nostra area con altre straniere; così come avviene nel melting pot delle culture sonore del Mediterraneo.

È proprio grazie a questo suo costitutivo profilo ibrido, al suo carattere più aperto e flessibile rispetto ad altre esperienze – si pensi alla liederistica tedesca – che la canzone resiste e si sviluppa con innesti, mutazioni, strappi, che delineano una continuità nella discontinuità.

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Pasquale Scialò, Storia della canzone napoletana (1824-1931), volume I, con cd audio, Neri Pozza Editore, pagine 380, euro 28,50;

Pasquale Scialò, Storia della canzone napoletana (1932-2003), volume II, Neri Pozza Editore, pagine 380, euro 30.

I due volumi dovrebbero uscire in cofanetto nella primavera 2023.

Le immagini che corredano l’articolo sono tratte dalle numerose tavole illustrate contenute nell’opera.

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